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Politica
novembre, 2019

L'opportunista Dario Franceschini adesso si prepara per Palazzo Chigi

Dario Franceschini
Dario Franceschini

Quarant'anni in politica, mai da leader, è l'uomo forte del Pd nel governo Conte. Parla con Di Maio, media con il Quirinale, cerca Renzi. Capeggia i dem contrari alle elezioni, in caso di crisi è pronto a diventare premier. Un'ambizione rivelata dallo staff che si è costruito ai Beni culturali

Dario Franceschini
Il vero paradosso, per chi lo conosce bene, è che sia proprio lui stavolta ad aver costruito il gioco. Lui da sempre senza carisma, lui da ultimo persino senza voti nella sua Ferrara, lui che però è sempre là: il più bravo dei numeri due, mai leader, sempre capace di restare, di contare. Ri-ministro della Cultura e capodelegazione del Pd nel governo Conte, adesso. Lui, che da tradizione è, per dirla con il calcio, un opportunista d’area: specializzato nel trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Abituato a fare gol quasi per caso, senza aver nemmeno portato la palla. A estrarre d’improvviso la gambina, dal groviglio caotico, e segnare così il punto finale.

Non è detto finisca anche stavolta così, con l’esultanza della curva, troppo impennati sono questi tempi, comunque il dato è evidente. I dettagli s’affinano ogni giorno. Tutto si appronta. A partire dalla politica dei tweet coi quali detta la linea, ma soprattutto dallo staff ai Beni culturali, che è chiaramente – per uomini e curriculum - quello di uno pronto a fare il grande salto. Insomma a 44 anni dalla sua prima iscrizione a un partito (era il 1975, la Dc di Zaccagnini), a 39 dalla prima elezione al consiglio comunale (era il 1980 a Ferrara), Dario Franceschini, 61 anni, dopo una vita eterna da secondo, si è apparecchiato l’area per diventare primo. Per salire i gradini di Palazzo Chigi, magari già nei prossimi mesi, comunque ben prima di quel 2022 in vista del quale già molti lo davano pronto a inerpicarsi sul Colle.
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Dopo la schiacciante sconfitta in Umbria e la relativa batosta all’alleanza giallorossa (col Pd ai minimi col 22,3 per cento, i Cinque stelle in picchiata al 7,4) lo scenario s’è fatto d’improvviso più vicino. E i suoi tratti più visibili.

È venuto ad esempio in chiaro come il discusso capo dei Cinque stelle Luigi Di Maio abbia con il capo ombra del Pd Franceschini un filo diretto, molto più funzionante di quanto non sia quello con il segretario dem. «Ha comunicato a Nicola Zingaretti la scelta di non ripetere l’esperimento umbro?», gli ha chiesto l’altro giorno il Corriere della Sera. «Ho sentito Franceschini, nelle prossime ore sentirò Zingaretti», ha risposto il ministro degli Esteri. Con tutta probabilità provocando l’irritazione del ministro della Cultura il quale, come sa chi lo conosce da decenni «ama l’ombra, assai più che stare sotto la luce». Ma che è ormai in prima linea, almeno da quando, a luglio, ha aperto per primo la strada ad una alleanza con il Movimento Cinque stelle.

La stessa risposta, infatti, l’hanno data il candidato governatore Vincenzo Bianconi e il commissario dem in Umbria Walter Verini: «Ho visto Franceschini», «ho parlato con Franceschini», eccetera. Sul fronte governativo l’andazzo è il medesimo: l’ultima correzione a Palazzo Chigi della manovra, prima dell’approdo in Parlamento, è stata possibile proprio grazie all’intesa tra Di Maio e Franceschini, siglata in un incontro riservato, a due, prima del vertice collettivo coi partiti.

C’è da dire infatti che, pur amante della penombra, il romanziere-politico Franceschini, l’uomo che Beniamino Andreatta ribattezzò per dispetto «Falaschini» negli ultimi tempi sembra più propenso ad uscire allo scoperto. Come a rispondere alle attese di quel distico di De André, piazzato in esergo al suo penultimo romanzo, “Daccapo”: «Continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai». Adesso è lui il protagonista della scena.

Il primo settembre, ad esempio, ha scelto con un tweet di non fare il vice premier: «Per riuscire ad andare avanti cominciamo ad eliminare entrambi i posti da vice premier», ha scritto). Una novità clamorosa, dopo decenni passati a fare il numero due: di Franco Marini nel Ppi, di Francesco Rutelli coordinatore della Margherita, di Walter Veltroni segretario del Pd («vicedisastro», lo battezzò all’epoca Renzi), di Enrico Letta nel suo governo – quando era ministro dei Rapporti col Parlamento.

Con raro talento, Franceschini arrivò secondo anche quando sfidò Pierluigi Castagnetti per la segreteria dei Popolari. E, ancora prima, nel congresso della giovanile dc di Maiori, a fine anni Ottanta, quando Ciriaco De Mita, tra lui e l’inseparabile Renzo Lusetti, scelse Lusetti. Ma attenzione: Franceschini, il non prescelto, poco dopo finì consigliere nel collegio sindacale di Eni. Una poltrona ottenuta per riparazione, dice la leggenda che – per quanto lontana – racconta molto della capacità permanente del ministro di stare e di restare. Di avere un ruolo, sempre.

È un piccolissimo aneddoto che ha ripreso a girare, adesso che Dario Franceschini capeggia la corrente del Pd (si tratta di ex democristiani per lo più: gli ex diessini con Zingaretti sono assai perplessi) che vorrebbe restare al governo, continuando a scongiurare il ritorno alle urne col solito argomento del «perché sennò stravince Salvini», un argomento da sventolare persino nel caso, tutt’altro che improbabile, dell’ennesima sonora sconfitta nel voto regionale in Emilia Romagna di fine gennaio.

Il governo guidato da Conte, del resto, già scricchiola adesso. Un’altra sconfitta dei suoi principali alleati non ne migliorerà la stabilità. Ed ecco che per continuare la legislatura innovando il governo, Franceschini continua fervido a coltivare il dialogo con Di Maio, intrapreso seriamente già nel lontano marzo 2018, all’indomani delle elezioni, per avviare l’alleanza Pd-M5S. Quell’asse a due si rafforza ora proprio a spese dell’indebolito premier.

«Giuseppi» ha infatti il torto di non aver concesso a Franceschini, come era negli accordi iniziali, un ufficio e uno staff a palazzo Chigi a lui come capo delegazione del Pd al governo: «Conte non si è accorto che non aver voluto Dario vicino ha significato averlo lontano, e quindi contro», dice chi al Senato ha seguito la pratica.

Una continuità nella discontinuità: un Franceschini a Palazzo Chigi sarebbe l’opzione perfetta anche per Matteo Renzi, che da sempre disegna il ministro della Cultura come il campione dell’inciucio. «Quando tra due-tremila anni bisognerà fare un governo, Franceschini ci sarà» era più o meno la battuta con la quale il leader di Italia viva lo inchiodava, ai tempi in cui faceva il rottamatore. Adesso, ai suoi occhi l’ex «vicedisastro» è un’ottima figura da mandare a Palazzo Chigi prima, e demolire poi, quando si tornerà al voto.

Dal canto suo, Franceschini sta facendo di tutto per conquistarsi i buoni auspici di Renzi, in vista del salto. Al Collegio Romano, come si diceva, ha infatti messo in piedi una squadra che pare già pronta per Palazzo Chigi. A partire dal quarantenne Lorenzo Casini, capo di gabinetto, allievo di Sabino Cassese, autore della riforma dei beni culturali nella precedente stagione di Franceschini alla Cultura. Una squadra nella quale ha riunito il poco dell’apparato rimasto fedele a Renzi. Altro che Cultura. Nello staff, c’è infatti Paolo Aquilanti, che è stato segretario generale di Palazzo Chigi ai tempi di Renzi. Oggi Aquilanti è consigliere per i rapporti col Parlamento al Collegio Romano, e con lui lavora - Segretario Generale del Ministero - il suo ex vice a Palazzo Chigi, cioè nientemeno che Salvo Nastasi, un peso massimo dei commis ministeriali al quale Gianni Letta ha fatto da testimone per le nozze con Giulia Minoli.

Sempre nello staff del ministro della Cultura c’è Daria Perrotta, già capa segreteria della Boschi, rimasta a Palazzo Chigi con il leghista Giancarlo Giorgetti, e adesso titolare della delega non scritta a occuparsi del governo. Complessivamente, non certo la squadra di uno che fa il ministro della Cultura. Contemporaneamente, ha attivato per l’intero Pd tutti i pontieri possibili, per ricostituire quella vasta Areadem che è la pedina invisibile, ma decisiva per gli equilibri interni, almeno dai tempi in cui spostandosi pro-Renzi lo sospinse al governo al posto di Enrico Letta. Ci sono dunque gli uomini chiave, come il presidente del Parlamento europeo David Sassoli che fu proprio Franceschini a volere in politica. La rete delle Roberta Pinotti e dei Piero Fassino. E i più attivi nel traghettare parlamentari: l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e l’ex sottosegretario Antonello Giacomelli, che è tornato a casa dopo la parentesi al seguito di Luca Lotti.

Altro indizio. In queste poche settimane da ministro, Franceschini sta giocando di ammorbidimento. A differenza della sua passata stagione, ora si muove a tutto campo e sta ricucendo con figure con le quali aveva litigato. In particolare con una: Salvatore Settis, nume tutelare dell’arte italiana, già schierato per il no al referendum costituzionale e contro la riforma che portò alla chiamata diretta dei direttori dei musei stranieri – una misura che da sola definisce la prima era del ministro della Cultura. Ebbene adesso, Settis e Franceschini vanno d’accordo, hanno persino partecipato a un forum al Fatto (un altro luogo, il quotidiano guidato da Travaglio, dove il ministro della Cultura era considerato il male e che ora nei suoi confronti si è un pochino ammorbidito), filano di miele e armonia. Al punto che proprio su di lui potrebbe cadere la grande nomina che Franceschini deve fare: alla Biennale, dove alla fine potrebbe decidersi a sostituire il pluri-prorogato Paolo Baratta (tra i candidati c’è anche Giovanna Melandri).

Segnali che stanno a indicare quanto Franceschini, sempre forte nel Pd, si stia estendendo anche fuori: nel governo, nello Stato. Le sue mosse stanno ovviamente sotto la lente del Quirinale, che osserva con preoccupazione la fragilità dell’attuale governo. Il Colle, a partire dal consigliere Francesco Saverio Garofani, non è certo un ambiente estraneo, per Franceschini.

Alla fine degli anni Novanta, del resto, il ministro della Cultura fu persino capo corrente di Sergio Mattarella: era il congresso di Rimini del 1999, quando Franceschini si schierò contro Castagnetti e il futuro capo dello Stato votò per lui. All’epoca, il ministro della Cultura aveva 41 anni. Si trovava cioè al secondo stadio della carriera politica di un democristiano. Una carriera che lui stesso, da giovane «ragazzo» della corrente di Benigno Zaccagnini, aveva scandito secondo passaggi precisi: «Nella Dc a trent’anni sei da asilo infantile. A quaranta sei un presuntuoso. A cinquanta puoi cominciare a pensare al futuro. A sessanta sei un segnale di rinnovamento». Ed ecco, dunque, vent’anni dopo la domanda, piuttosto inquietante anche per la sua tempistica. A 61 anni, Dario Franceschini rinnoverà?

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