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Mondo
novembre, 2019

Vergogna Libia: «Gli aguzzini della guardia costiera sono pagati con i soldi della Ue»

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Sono stati finanziati 91 milioni in due anni per riportare i migranti nei campi di concentramento di Tripoli

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Sulla Libia si sta consumando una sciagurata vergogna. Di cui è protagonista il nostro Paese e un bel pezzo d’Europa. E non se ne parla mai abbastanza. Anzi, di più. Si sta diffondendo la sensazione che la Libia, in fondo in fondo, possa non essere un problema. O addirittura possa diventare un razionale laboratorio nel quale consolidare l’esternalizzazione delle frontiere europee al fine di limitare gli “arrivi degli immigrati”.

La vergogna libica, ovviamente, sta nei campi di concentramento (su cui dopo tornerò) e che molti, tra cui questo giornale, hanno sapientemente raccontato in tutti questi mesi. Ma non solo. Vi è una pagina oscura, una “scatola nera”, che spiega più di tanto altro, il progetto politico, mai esplicitato ma assolutamente visibile, che va affermandosi, nel tempo delle paure. Un progetto politico che ha nell’uso distorto e colpevole dei “soldi degli europei” la sua espressione più sincera e che è frutto di un cammino effettuato silenziosamente in questi anni.
Se volessimo fissare un punto di inizio, di questo itinerario di errori, complicità e omissioni, lo collocheremmo nel novembre del 2015, con le conclusioni del vertice di La Valletta a cui presero parte oltre 60 tra capi di Stato e di Governo di Paesi europei e africani. A partire da allora si è materializzata una svolta in materia di politiche migratorie. In quella sede, infatti, muovendo da un proposito assolutamente positivo, quello di definire una strategia di contrasto alle cause profonde che spingono a partenze disperate, si è scelto di mettere a disposizione uno strumento flessibile capace di finanziare interventi immediati.
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È proprio in quella occasione che viene infatti partorita la leva “innovativa” dei Trust Fund per l’Africa, un fondo fiduciario giustificato da ragioni di emergenza destinato ad intervenire in tre aree: Sahel/Ciad, Corno d’Africa e Nord Africa. Il Fondo ha un budget iniziale di 2,5 miliardi di euro, cresciuto fino agli attuali 4,1. Quasi il 90 per cento di questi finanziamenti arriva dal Fondo europeo di Sviluppo e solo 441 milioni sono risorse aggiuntive versate dai governi nazionali (di cui 112 milioni sono stati promessi dall’Italia).

I Trust Fund divengono così degli strumenti ibridi, che raccolgono risorse quasi esclusivamente dai fondi destinati alle politiche di sviluppo e li destinano a obiettivi più ampi e progressivamente meno controllabili.
Tra questi vi è stato, per l’appunto, quello della gestione della sicurezza, dei flussi migratori e delle frontiere. Il paradosso è, almeno ai miei occhi, clamoroso: si tolgono risorse da investire per consentire lo sviluppo e la riduzione della povertà nei Paesi di partenza (alla faccia del tanto volgarmente sbandierato “aiutiamoli a casa loro”) e le si destinano al finanziamento di una militarizzazione dei confini che non prevede alcuna garanzia sul rispetto dei diritti umani.

La Guardia costiera libica è finanziata anche attraverso quelle risorse. Ad essa vengono infatti destinati, dal fondo fiduciario, due tranche, rispettivamente da 46 e da 45 milioni di euro, nel 2017 e nel 2018.
E per cosa li usa, la Guardia costiera? Essenzialmente per riportare i migranti nei campi di concentramento.
Assai particolare è poi la struttura di governance dei Trust Fund. Pur raccogliendo risorse dal bilancio Ue, infatti, non esiste alcuna possibilità di controllo effettivo del Parlamento europeo su come queste risorse siano concretamente impiegate.
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Ancora qualche numero: solo nel 2018, attraverso i fondi fiduciari, sono stati destinati 285 milioni di euro al Nord Africa. Di questi ben 282 sono stati destinati alla voce “Improved migration management” e 124, per l’appunto, alla Libia (e tra questi i già citati denari per la Guardia costiera).

Appartengo ovviamente a quella parte di cittadini ed esponenti politici europei che ritiene davvero sconcertante quanto si verifica dall’altra parte del Mediterraneo. Dicevo, ad esempio, dei “centri”. Si ritiene che quelli ufficiali in Libia siano 26. La loro “ufficialità” sta nel fatto che sono monitorabili dagli organismi internazionali (con risultati spesso discutibili e discussi), e che diversi di questi siano stati originariamente istituiti da bande armate, e ancora controllati dalle fazioni libiche.

Ad essi si aggiungono, difficili da contare e impossibili da monitorare, i campi non riconosciuti, alla mercé delle milizie. In Libia, tradizionalmente Paese di lavoro e migrazione per tanti che provengono dai Paesi del Nord Africa e non solo, secondo l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim) vivono almeno 700 mila immigrati di oltre 40 nazionalità. Fra questi, il 30 settembre 2018, l’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) registrava almeno 53.285 profughi e richiedenti asilo, precisando che essi sono solo coloro di cui è stato possibile effettuare un monitoraggio (e dunque si ritiene siano molti di più). Nei campi di detenzione si stima ci siano sempre almeno novemila persone, che arrivano quasi a triplicare in presenza dell’acutizzazione della crisi.
Per Medici per i diritti umani, l’85 per cento di chi è sbarcato in Italia dalla Libia tra il 2014 e il 2017 aveva subito torture.

Nel 2018 e 2019, grazie alle indagini delle organizzazioni umanitarie e delle Ong, le testimonianze di tortura sono diventate innumerevoli e documentate con estrema precisione: e i torturati sovente sono quelli che vivono ai bordi delle nostre città europee. Pur a fronte delle drastiche diminuzioni negli arrivi dal 2017, la mortalità nel Mediterraneo, in valori percentuali, è sensibilmente aumentata. Nel 2018 è morta una persona ogni 18 tra coloro che tentavano la traversata: è facile immaginare che praticamente sempre si trattasse di persone provenienti dalla Libia.

Non solo. Le recenti inchieste giornalistiche, tra le quali quelle di Francesca Mannocchi per questo giornale e di Nello Scavo per l’“Avvenire” , confermano che fra gli interlocutori ufficiali delle autorità italiane sulla gestione dei migranti ci siano stati personaggi come al Bija, trafficante di esseri umani, e contemporaneamente capo della Guardia costiera di Zawiya.

Le raccomandazioni alla Libia e alla Commissione europea contenute nel rapporto Onu del 2018 erano già molto chiare. Esse ci ricordavano di dover fare tre cose: 1) liberare i detenuti dai campi di prigionia ed evacuare i campi stessi; 2) emendare la legislazione libica su immigrazione e asilo; 3) reperire forme alternative alla custodia per gli immigrati irregolari. Non è avvenuto nulla di tutto questo (ed anzi solo negli ultimi giorni sembra essersi aperta una “breccia” nei palazzi romani).

Il governo Conte con Salvini all’Interno ha fatto il resto, con il suo carico ideologico e la sua ricerca di rancore, finendo per avvelenare i pozzi e, ovviamente, rendendo ancora più drammatica la situazione. Ma Salvini, ce lo dobbiamo dire, è stato al governo per 14 mesi. Non per 14 anni. Pietro Bartolo, il validissimo medico di Lampedusa, ora europarlamentare, ci ricorda spesso, nelle iniziative pubbliche, di un incubo ricorrente capace di turbare le sue notti.

Nell’incubo c’è un bambino, morto, un bambino che Bartolo ha realmente visto, senza vita, non riuscendo a intervenire in tempo (come invece, fortunatamente, è accaduto in tante altre occasioni). Bartolo ripete che quel bambino lo sogna spesso , «e sogno che mi tocca i capelli».

In un’Europa tanto colpevolmente impacciata di fronte alle terrificanti scelte di Erdogan vale la pena decidere di affrontare gli incubi ripartendo dal valore della vita vera. Costi quel che costi. Per questo la recente approvazione nell’ambito dello stesso Parlamento europeo di un impegno (anche rivolto al Consiglio) a esercitare un’azione di controllo più puntuale sull’uso dei fondi medesimi rappresenta un piccolo appiglio che non può essere sprecato.

*Eurodeputato Pd

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