
Franca (il nome è di fantasia) ha un diploma di ragioniere programmatore e perito tecnico-aziendale e una laurea in lingue e letterature straniere. Ha poco più di 50 anni, e lavora con l’americana Upwork, la più celebre piattaforma online di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro per freelance: gli iscritti registrati sono oltre 12 milioni, da tutto il mondo. La concorrenza è altissima e spietata: si tratta di competere con liberi professionisti magari dislocati in posti dove il costo del lavoro è molto inferiore agli standard europei e anglosassoni, e che tendono ad avanzare richieste salariali (chiamiamole ancora così) decisamente convenienti. Ecco spiegata la corsa generalizzata al ribasso di quella tariffa minima oraria che ogni worker digitale deve indicare.
C’è chi chiede 2 o 3 dollari l’ora per professioni sofisticate e modernissime, e i più si uniformano. «Ho tanta esperienza, e per questo cerco di non scendere mai sotto i 4 o 5 euro l’ora. Faccio corsi d’inglese a distanza, la docente per una scuola cinese, e mi è capitata anche roba più leggera come insegnare a un americano la gestione di un armadio». Le imprese gongolano, ma non c’è limite allo sprofondamento della gig economy in paludi di diritti e retribuzioni pre-industriali. I lavoretti che diventano gli unici lavori possibili, e a governarli software e robot.
Cercano disperatamente un posticino al sole (usa-e-getta) di Upwork proletari digitali di ogni tipo: esperti di data entry, autori di contenuti per i siti web, analisti Seo, sviluppatori di app, assistenti virtuali, customer agent, social e community manager, amministratori di database, collaudatori di traduzioni automatiche, mediatori linguistici di qualsiasi genere, specialisti nell’utilizzo dei tag e nel flusso dei sentiment. L’elenco è sterminato. Fatevi un giro su Linkedin: tantissimi freelance dichiarano, come unico datore di lavoro, proprio Upwork. Peccato che per rendersi visibili in questo sovraffollato universo parallelo occorra costituirsi una valida reputazione online. Altrimenti non si guadagna nulla. «Se non possiedi abbastanza stelline e feedback, se non godi di un buon ranking, i clienti non si interessano a te. E ingraziarsi l’algoritmo non è facile», spiega Franca . Più si lavora, più si guadagna; più recensioni si ricevono, migliore sarà il punteggio e il posizionamento nei risultati, condizione fondamentale per ricevere offerte dai committenti».
Nasce da questo presupposto il “mercato nero del ranking”, che spopola su gruppi Facebook e forum Internet dedicati e in cui si comprano pareri positivi e apprezzamenti fittizi. Di nuovo, pagare per tentare di lavorare e poi guadagnare una miseria, comunque a cottimo. Sottoponendosi a corvée come il cosiddetto Work Diary, un sistema di videosorveglianza che monitora le ore effettivamente lavorate attraverso screenshot del pc. Senza dimenticare i rompicapo fiscali: «Ovunque si abiti, si viene retribuiti in dollari americani con Paypal. Solo che oltre al 20 per cento di trattenuta alla fonte, si devono o si dovrebbero pagare le tasse nel proprio paese di residenza. Molti commercialisti italiani ancora non sanno bene quali pesci prendere in materia. Io faccio autocertificazioni, prestazioni occasionali, e mi sono iscritta alla gestione separata dell’Inps. È una giungla».
Quando poi si riesce a strappare un lavoretto che dura sei mesi, a fronte di 3 o 4 dollari l’ora, ecco che scatta l’illusione del lavoro long-term. Una certezza che avevamo conquistato in secoli di lotte e progresso e che deve essere rimasta impigliata in qualche anfratto del nostro codice genetico. La discontinuità di entrate e identità professionali sta diventando la via maestra. Un paradosso. «Siamo diventati caporali di noi stessi», conclude Franca.
Massimo è un podcaster. Ha 30 anni, e la sua attività principale è quella di «realizzare e ottimizzare i podcast show per le aziende, le community online e i professionisti del digitale». Tutto rigorosamente dalla cameretta di casa sua. O meglio, dei suoi. Anche lui si appoggia soprattutto a Upwork. «Ci passo 7 o 8 ore al giorno. Altre 4 o 5 le riservo alla creazione di contenuti da pubblicare su Linkedin e YouTube». Lavora a progetto, e le cifre oscillano parecchio. Ci racconta la sua giornata-tipo: «Sveglia tra le 6 e le 6 e mezza, colazione, riordino la stanza, leggo, doccia mentre ascolto alcuni podcast, e poi alle 9 mi metto al lavoro fino all'una. Riprendo alle due mezza e stacco alle sei e mezza. La serata la dedico a guardare tutorial e altri corsi».
Questa è invece la sua settimana-standard: «Il lunedì mattina vado a camminare per iniziare al meglio la settimana, e porto la videocamera per parlare di tutto quello che mi balena in mente. Nel pomeriggio edito il video e lo metto su YouTube. Il martedì lavoro per i miei clienti e ne cerco altri online. Il mercoledì registro e pubblico i miei tutorial sul mondo del podcasting. Giovedì e venerdì ricerca e lavoro sodo su Upwork. Il sabato mattina mi confronto con altri freelance per sapere com’è andata la settimana, e come migliorarmi. Poi relax. La domenica sera programmo tutta la settimana in arrivo». Massimo lavora circa 65 ore la settimana. Quasi 290 ore ogni 30 giorni. Più il tempo libero consacrato all’aggiornamento. Ma quanto guadagna alla fine del mese? «Sugli 8-900 euro», risponde orgoglioso.
Upwork è solo la punta di un iceberg. Quello dei marketplace, delle piattaforme digitali dove cercare e offrire lavori estemporanei è un magma affollato da nomi come Freelancer, Clickworker, Lionbridge, Appen, We work remotely, Twago, PeoplePerHour, Fiverr, GoLance, Guru, Workana, Speaklike, Textbroker, O2O, Scribox, Greatcontent, Starbytes, Zoopa. Quasi tutte a stelle e strisce e straniere, ma non ne mancano di italiane come Jobby e Addlance. E poi c’è Amazon Mechanical Turk, un servizio di microjob lanciato già dal 2005 da Jeff Bezos. Si viene compensati dopo avere svolto o risolto un’hit (Human Intelligence Task), un minilavoro che di solito dura dai 5 minuti in su. Chi vi presta servizio è chiamato turker. Il loro compito è principalmente quello di affinare/umanizzare l’intelligenza artificiale dei device tecnologici.
Qualche esempio? Testare una fotocamera per simulare i movimenti facciali, creare griglie di captcha, decodificare i messaggi vocali, ricopiare manualmente i dati di documenti scannerizzati, rispondere a sondaggi dei più bizzarri. Una ricerca americana ha stabilito che la paga oraria media sia, da queste parti, di circa 2 dollari l’ora, nel 96 per cento dei casi sotto il salario minimo statunitense. E per ogni pagamento viene applicata una commissione del 20 per cento. Inoltre, la stragrande maggioranza dei lavori saldati in modo più dignitoso è interdetta: bisogna registrarsi, cioè candidarsi in privato e con un ranking all’altezza. Mentre nella modalità «accetta&lavora», aperta a tutti, restano in ballo giusto le mansioni sottopagate. Si lavora su Amazon, ma per conto terzi, appannaggio di aziende e università ignote che qualora non fossero soddisfatte potrebbero persino rigettare il lavoro testé eseguito. Senza retribuirne l’artefice. Ma le sorprese continuano: a differenza dei colleghi oltreoceano, i turker italiani sono remunerati solo ed esclusivamente con buoni d’acquisto Amazon.
Chi scrive è riuscito a iscriversi ad Amazon Mechanical Turk: non è facile. Eccovi alcune delle “hit”. «Scrivi un articolo unico (700 parole) sulla gelatina orale Kamagra in Australia». Compenso, 4 dollari. Tempo stimato un’ora. «Esame dei pensieri sul comportamento autolesionista» (per 3 dollari). «Sondaggio sulla trascrizione delle emozioni digitali» (1 dollaro e cinquanta centesimi per 75 minuti di impegno). Ben 1 dollaro e 10 cent per «simulare come aiutare un bambino di sei anni a capire una storia semplice, di cinque frasi, rispondendo ad alcune domande».
Due ore per vergarla. Un dollaro tondo tondo per «valutare la qualità del parlato generato dal computer» e «pubblicare commenti significativi su vari forum di stampa 3D». Cinquanta centesimi (e un countdown di 60 minuti) «per comprendere meglio le credenze politiche delle persone». Dieci centesimi per parlare in dieci minuti con un chat-bot e «rispondere a un sondaggio di razzismo sessuale sull’essere una persona di colore Lgbt». Una paghetta di due centesimi di dollaro, infine, per sciogliere «il dilemma morale delle auto auto-guidanti». A proposito di Human Intelligence Task: perché tornare ad assumere, anche a tempo ultra-determinato, se per un paio di centesimi lordi si candidano in massa? E perché questo persistere di una convenzione come la moneta, quando con un voucher-regalo fai felice l’umanità? In fondo, con duecento lavoretti “turchi” può uscirci un bell’astuccio per penne e matite a forma di pesce o unicorno. Il lavoro muore, il Black Friday resta.