Venezuela tra molotov e miseria: qui si fa la coda per un sacco di farina
Nel Paese dei due presidenti si fa la coda per pochi viveri, mentre i ragazzini dei quartieri poveri si scatenano di notte lanciando sassi e piccoli esplosivi. E i militari schierati al confine con la Colombia bloccano gli aiuti
Caracas. La mattina presto, agli angoli delle strade, si formano le “colas por la comida”: lunghe file per avere il cibo a prezzi scontati. I punti di distribuzione sono organizzati dal governo - come ogni cosa da queste parti - e oggi è il giorno buono per chiunque abbia il numero di documento che termina con le cifre 02 o 03. In coda, Alfonso è uno dei pochi disponibili a parlare, con quello che riceve di pensione, dall’inizio del 2019 è riuscito a mettere insieme soltanto l’equivalente di quanto serve ad acquistare tre chili di farina. «Finalmente è martedì», il giorno della settimana in cui vengono distribuiti gli alimenti a coloro che hanno un numero di cedola poco inferiore o superiore al suo. «Il problema non è solo l’inflazione, il problema è il socialismo. Ha funzionato fino a quando ci sono stati non-socialisti da espropriare, gli imprenditori che qui sono stati vessati, rapiti o costretti all’esilio: finiti i non-socialisti, è finito anche il socialismo», si sfoga Alfonso.
In Venezuela i prezzi sono aumentati del 1.700.000 per cento - anno su anno - a dicembre del 2018. Nonostante questo sia il paese con la più grande riserva di petrolio al mondo, in molte regioni non si trova più la benzina. Un antibiotico costa l’equivalente di quattro salari minimi e le farmacie hanno smesso di rifornirsi di anticoncezionali - con l’inflazione una scatola di preservativi è arrivata a costare un terzo dello stipendio medio - semplicemente non li acquista più nessuno.
Dal 23 gennaio in Venezuela coesistono di fatto due presidenti. Nicolás Maduro Moros e Juan Guaidó. Apparentemente il regime di Maduro ha i giorni contati, ma i nodi da sciogliere sono molti. Nelle ultime settimane l’opposizione ha organizzato proteste in tutti gli Stati del Paese. La mattina i cortei sfilano pacifici per le vie di Caracas, di San Felipe in Yaracuy, di Valencia in Carabobo. Quando terminano i discorsi dal palco e la maggioranza dei manifestanti si disperde, a Caracas iniziano gli scontri. I “guarimberos” - una versione tropicale dei black bloc - prendono il nome dalle barricate (“guarimbas”) che costruiscono sull’autopista, la tangenziale a quattro corsie di Caracas. Sono tutti adolescenti e bambini dei barrios, i quartieri poveri della città. Raccolgono pietre dalla riva del fiume, preparano molotov aspirando benzina dalle motociclette parcheggiate, e si coprono il volto con maschere e t-shirt.
Poi si raggruppano intorno a una delle diramazioni principali, da dove possono intercettare gli autobus del trasporto pubblico e i tir della Pdvsa - la compagnia petrolifera di Stato - sequestrandoli e utilizzandoli per bloccare il traffico. Tra i ragazzini incappucciati, ce ne sono alcuni che portano la bandiera di Primero Justicia legata intorno alla vita o allo zaino. PJ è un partito di centro, a favore della “terza via” e del liberalismo economico. Per un occhio occidentale è eccezionale vedere i black bloc in azione in nome del liberismo e della globalizzazione.
Alcuni mesi fa - a ottobre del 2018 - il segretario nazionale di Primero Justicia, Fernando Albán, è morto precipitando da un palazzo di Plaza Venezuela, dove si trova la sede dell’Intelligence bolivariana. Albán si trovava lì in stato di fermo, gli agenti dovevano interrogarlo in quanto sospettato di tramare per far assassinare il presidente Maduro. La versione ufficiale fornita dalle autorità parla di suicidio, ma i colleghi di opposizione, la famiglia, e Luis Almagro - segretario generale dell’Oas, l’Organizzazione dei Paesi americani - non hanno dubbi sul fatto che si sia trattato di un assassinio.
Nel quartiere di Altamira - proprio sotto la tangenziale bloccata dalle “guarimbas” - c’è un asilo che ospita duecento bambini dagli zero ai sei anni. Gli asili, come le scuole e le università, sono completamente gratuiti in Venezuela. Luisa, preside dell’istituto da dieci anni, racconta che quando lei era giovane pochi bambini si potevano permettere di andare a scuola, e poche madri di andare a lavorare. «Questo asilo è nato con la rivoluzione chavista», dentro c’è una mensa e un’infermeria pediatrica: «non ha solo la funzione di garantire educazione, alimentazione e cure sanitarie ai bambini, sia quelli che se le potrebbero permettere che i più poveri, qui l’educazione pubblica di qualità ha permesso a poveri e ricchi di conoscersi, prima erano due mondi impermeabili». «In questa scuola andava tutto bene fino a un anno fa», spiega una maestra, cioè «fino a quando i guarimberos sono entrati - armati - per saccheggiare e distruggere tutto».
I ragazzini “agitati” sono sempre esistiti a Caracas, giovani abituati alla violenza e disponibili a tutto per il denaro: «Prima guadagnavano solo con la droga, adesso gli stessi soldi li ricevono dalla destra». Secondo le maestre, a nessun bambino o adolescente di strada è mai venuto in mente di attaccare un asilo. Le scuole sono diventate un bersaglio solo recentemente, come simboli del chavismo. «Se non avessero un mandato si sfogherebbero tra loro - tra gang - come hanno sempre fatto». Sono figli della disperazione che per soldi accettano qualsiasi tipo di rischio: «adesso li pagano per gettare molotov dentro i carri armati dell’esercito, così che le forze dell’ordine di Maduro gli sparino addosso, generando clamore internazionale». Come il giorno della grande manifestazione del 23 gennaio «quando i morti non sono stati tra i manifestanti pacifici nelle piazze, ma di notte, durante gli scontri tra guarimberos e polizia nei barrios».
Luis Lugo è nato in una famiglia povera, è il quarto di otto fratelli: «Durante la Quarta Repubblica l’unica opzione che avevano i disperati del Venezuela, come me, era vendere droga». La Quarta Repubblica è finita nel 1999, quando un referendum popolare ha conferito a Hugo Chávez il potere di riformare la Costituzione, riorganizzando lo Stato - in particolare la funzione socio-economica - in senso socialista. «Ho spacciato qui per anni, soprattutto coca e crack, vendendo migliaia di dosi al giorno», racconta Luis. Da queste parti la droga è molto economica, una dose - metà di un grammo - costa meno di 5 dollari contro i 50 dollari a cui viene venduta negli Stati Uniti o in Europa.
Mentre gira in macchina per il suo quartiere, il barrio Cota 905 - noto per essere la zona più pericolosa della seconda città più violenta al mondo - incontra un amico che si affaccia al suo finestrino: «Pensavo fossi in galera», gli dice, «pensavo ci fossi tu», risponde l’altro. Il vicolo alle loro spalle è quello dove alcuni anni fa hanno sparato a Luis, che porta ancora la cicatrice dietro la nuca. Lui è sopravvissuto fingendosi morto, mentre nove suoi amici sono rimasti uccisi. Attraversa in auto dei giganteschi complessi abitativi a nord-est di Caracas: «Le vedi queste case popolari? Le ha costruite Chávez per togliere le famiglie dalle favelas dove mancava l’acqua potabile». Secondo gli ultimi dati disponibili di Insight Crime, in un anno in Venezuela si verificano quasi 27 mila morti violente, il paese è secondo solo a zone di guerra come la Siria. Questa città fa già abbastanza paura così: «Quando la destra avrà vinto questa partita, spero non abbandoni i poveri, qui non ci possiamo permettere nuove migliaia di bocche che non hanno alternativa al crimine per sfamarsi».
Nel parco di fronte alla caserma di San Felipe, nello Stato di Yaracuy, ogni settimana si tiene una riunione di familiari dei detenuti politici. Mamme, nonne e figli di coloro che sono stati arrestati durante la grande manifestazione del 23 gennaio, quella in cui Guaidó ha giurato da presidente della Repubblica, ottenendo l’immediato riconoscimento di Donald Trump. Tra i fermati, da oltre due settimane detenuti nelle piccole celle della caserma, ci sono anche due pastori evangelici, due ragazzine di tredici anni e altri dodici minorenni. La prima a prendere la parola è una nonna, il compagno di cella di suo nipote è stato rilasciato da poco, dopo aver tentato di togliersi la vita. Questa notizia ha fatto temere a tutti che le torture avvengano anche qui, e siano state la causa del tentato suicidio. Da giorni circola in rete un video amatoriale in cui alcuni manifestanti detenuti vengono spogliati e legati, poi colpiti con una mazza sulle parti intime dalla polizia penitenziaria.
Dopo la signora Zerpa nel cortile si fa avanti un militare, nonostante l’esercito sia ancora fedele a Maduro, a esclusione di poche defezioni. Mostra sul suo smartphone la foto di un suo parente, colpito ripetutamente con proiettili di gomma sparati da distanza ravvicinata, che hanno causato lividi di forma perfettamente circolare e fratture. «Queste cose le fa la Guardia Nacional», spiega, accusando dei colleghi: «Israel è stato arrestato semplicemente per aver sfilato con migliaia di altre persone contro questo governo infame». Si guarda intorno, affinché le sue parole arrivino anche ai poliziotti in pausa fuori dalla caserma.
Spostandosi a Cúcuta, lungo il confine tra Venezuela e Colombia, ci si imbatte - a poche centinaia di metri l’uno dall’altro - nei due ponti internazionali “Simón Bolívar”. Sul ponte di recente costruzione - inaugurato già due volte ma mai messo in funzione - sono bloccati i container con gli aiuti umanitari: medicine, latte in polvere e taniche di diesel. Contemporaneamente, sul vecchio ponte, migliaia di venezuelani attraversano ogni giorno la frontiera a piedi. Alcuni portando con sé grandi valige e sacchi a pelo, sono coloro che scappano dal Paese, e si aggiungono alla diaspora che ha già riguardato tre milioni di venezuelani (su trenta). Altri trascinano solo un carrellino vuoto, staranno fuori alcune ore per comprare quei medicinali e alimenti che in Venezuela non si trovano, più o meno gli stessi stoccati nei container di aiuti sul nuovo ponte.
Dal lato colombiano della frontiera l’esercito locale e alcuni marines americani - formalmente lì per “riposo” - sorvegliano gli aiuti. Dal lato venezuelano si trovano le truppe dell’esercito della Repubblica bolivariana, ancora fedeli a Maduro. In questo contesto, Juan Guaidó ha deciso di sfidare l’esercito, annunciando che darà l’ordine di lasciar passare i tir che trasportano gli aiuti. Aggiungendo che se i militari decideranno di reagire, dovranno risponderne di fronte al popolo venezuelano, agli affamati e ai malati di cancro che si suicidano perché rimasti senza cure. Non sembra però che l’ultimatum di Guaidó abbia provocato defezioni tra i soldati in frontiera, tra i quali c’è anche Freddy Bernal, soprannominato “el asesino”.
Bernal è un ex capo militare, tra i fedelissimi di Chávez, inserito nella “lista Clinton” perché sospettato di avere rapporti con i narcotrafficanti e con i gruppi della guerriglia sudamericana. Un uomo che conosce molto bene la zona, è nato sulla frontiera, a San Cristóbal, dove si è fatto recentemente riprendere in compagnia di uomini delle forze armate: «L’unico aiuto che sono disposto ad accettare da parte degli Stati Uniti è che vengano rimosse le sanzioni alle compagnie che commerciano con il Venezuela, di modo da poterci procurare da soli ciò di cui il popolo ha bisogno, invece di accettarlo sotto forma di aiuti offerti da una potenza straniera, che non ha mai fatto nulla gratis».
Nelle stesse ore in cui Bernal pronunciava queste parole, raggiungendo in macchina la frontiera da Caracas, si incontravano pick up con decine di giovani armati di fucili AK-47. Sono le donne e gli uomini dei Tupamaros e dei Colectivos, i gruppi paramilitari venezuelani di estrema sinistra. Il loro coro preferito, in questi giorni, è “Seremos tu vietnam latinoamericano”, rivolto a Donald Trump. Nonostante i Tupamaros siano stati spesso critici nei confronti di Maduro, adesso ritengono che tutta la sinistra debba compattarsi in difesa dell’indipendenza nazionale. Colectivos e Tupamaros si incontrano passeggiando per l’azienda agricola che possiede le terre sottostanti il ponte, sono nascosti nella fitta vegetazione tropicale, per essere pronti a intervenire contro la polizia e l’esercito colombiano da qualsiasi punto. Secondo un militare regolare di San Cristóbal: «Quelli della guerriglia, a questo punto, «non hanno nulla da perdere, per questo c’è da escludere che si arrenderanno senza combattere».