Venezuela, il balletto indecente tra Nicolas Maduro e Juan Guaidò
Il confronto tra i due presidenti è una partita vergognosa tra le potenze mondiali sulla pelle di una popolazione ridotta allo stremo
Il chavismo senza Hugo Chávez poteva resistere solo se il Venezuela avesse potuto contare su un quadro di alleanze, sull’aiuto di Paesi “fratelli” latinoamericani in grado di contrastare la forte inimicizia degli Stati Uniti, per di più ora trumpisti.
Oltre al grigiore personale, alla mancanza del carisma che aveva in abbondanza il suo predecessore e mentore, Nicolas Maduro sconta il vento contrario dello spirito del tempo, in un Continente che ha archiviato, in larga parte, le esperienze progressiste. Al quadro della svolta a destra mancava il tassello importante del Brasile. Jair Bolsonaro, il “Trump dei Caraibi”, ha completato l’opera. Non per semplice coincidenza, subito dopo l’avvio del nuovo corso a Brasilia arriva la rivolta di Caracas. La diaspora venezuelana ostile al regime, influente a Washington, ha spinto con più decisione perché il momento per la spallata ora è maturo. Trovando orecchie particolarmente sensibili in una Casa Bianca che considera il Venezuela una minaccia alla sicurezza stessa degli Stati Uniti.
La geopolitica, che ha radici più lunghe dell’ideologia, si riprende il suo primato e rispolvera la peraltro mai abbandonata “dottrina Monroe”, dal nome del quinto presidente Usa, James Monroe, che la pronunciò davanti al Congresso nel 1823: prevede la supremazia yankee sull’intera America, dal Polo Nord al Polo Sud. L’area latina altro non è se non il cortile di casa da tenere ordinato e possibilmente docile. Con le buone o, spesso, con le cattive.
Il cortile di casa, ora quasi del tutto riordinato, era stato particolarmente riottoso nel recente passato, aveva sconfessato il padrinaggio, scelto governi di sinistra quando non dichiaratamente socialisti, creato nell’insieme, un’alternativa coesa al sistema dominante. I Kirchner in Argentina, Lula e Dilma Rousseff in Brasile, la Bachelet in Cile, Uribe in Colombia, Garcia Pérez in Perù, Caballeros in Guatemala.
Tutti Paesi che hanno cambiato di segno, assottigliando mano a mano quella compagnia collettiva che si sosteneva con il mutuo soccorso. Sarebbe stato impossibile, a un certo punto, immaginare un Chávez senza Lula, o viceversa. Restano a tenere una bandiera colorata, ora più ora meno, di rosso, la sempiterna Cuba castrista, l’Uruguay di Tabaré Vazquez Rosas, la Bolivia di Evo Morales (che tuttavia mostra segni di cedimento), il Messico davanti al quale Donald Trump vuole erigere un muro, il Nicaragua del castrista Daniel Ortega, la cui fine, almeno la fine politica, è un altro degli obiettivi della Casa Bianca.
E il Venezuela, appunto. Il balletto dei due presidenti, Maduro e l’autoproclamato Juan Guaidò, sono la cartina di tornasole di una frattura di visioni che percorre grandi e piccole potenze e spacca persino l’alleanza al governo a Roma tra Lega e Cinque Stelle, impossibilitata a elaborare un pensiero condiviso. Stati Uniti, Canada, Spagna, Regno Unito, Germania, Francia, Giappone, Australia appoggiano la sfida di Guaidò. Per una combinazione eterogenea ma che ha il comune denominatore del sistema pienamente democratico.
Mentre sul lato opposto della barricata, con Maduro, stanno attestate “democrature” e dittature: i pesi massimi Russia e Cina, l’Iran degli ayatollah, la Turchia di Erdogan, la Siria di Assad. Tutti con l’evidente timore che sistemi illiberali possano essere rovesciati dall’esterno. Alcune di loro, Mosca e Pechino, col desiderio nemmeno troppo nascosto di scompaginare il “cortile di casa” dell’altro corno del G3, tenere un piede simbolico in Sudamerica per arginare l’influenza americana. Se è nota la tradizionale vicinanza di Putin al chavismo, l’attivismo di Xi Jinping si sostanzia nei 63 miliardi di dollari prestati a Caracas nel periodo che corre tra il 2007 e il 2014, somma che corrisponde al 53 per cento delle intere elargizioni a favore dell’America Latina.
Cambiano i presidenti a Washington, non gli interessi nazionali. Il democratico Barack Obama cercò, seppur blandamente, di rovesciare in Siria Bashar Assad sostenuto dalla Russia e in seconda battuta dalla Cina. Il repubblicano eterodosso Donald Trump, il cui verbo isolazionista riguarda il resto del mondo non il suo Continente nell’intera verticalità, ripropone lo stesso schema contro Nicolas Maduro. La sua amministrazione, leggi il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, ipotizza l’invio di cinquemila soldati in Colombia da dove intervenire se necessario anche militarmente nel vicino Venezuela.
Grandi giochi. Sulla pelle della popolazione stremata di un Paese potenzialmente ricchissimo grazie alle riserve energetiche e invece ridotto in povertà a causa di una politica economica fallimentare. Le entrate garantite dal petrolio rappresentano il 90 per cento del budget nazionale. Ma il prezzo dell’oro nero è stato basso tra il 2014 e il 2016 e la produzione si è dimezzata negli ultimi 20 anni a causa delle infrastrutture obsolete e del mancato aggiornamento tecnologico.
Secondo il Fondo monetario internazionale l’inflazione potrebbe attestarsi, nel 2019, al 10.000.000 per cento, e sono stime ipotetiche, variano ogni giorno, comunque paragonabili ai peggiori casi di studio della storia, la Germania della Repubblica di Weimar tra le due Guerre mondiali o lo Zimbabwe di inizio nuovo millennio. I venezuelani tengono nelle tasche centinaia di milioni di bolivar (la moneta nazionale) che non servono praticamente a nulla.
Il salario minimo è di 180 milioni di bolivar, la metà basta appena per un chilo di farina, un intero stipendio non copre il costo di un pranzo. Da mattina a sera una tazza di caffè si può pagare tre volte tanto. In larghe zone del Paese scarseggiano o sono introvabili beni di prima necessità come carne, riso, zucchero. Non va meglio nella sanità, visto che manca l’88 per cento dei medicinali e il 79 per cento del materiale chirurgico.
Partorire è diventata una corsa a ostacoli tra un ospedale e l’altro e molte donne infine sono costrette a farlo per strada. La mortalità delle madri è aumentata del 65 per cento e quella infantile del 30 per cento. L’80 per cento della popolazione, secondo alcune stime, sarebbe in miseria e sono in milioni coloro che sono fuggiti oltre confine tanto da costringere l’Alto commissariato delle Nazioni Unite a lanciare nel dicembre scorso un piano per gli aiuti ai rifugiati e ai migranti.
È in questo sventurato Paese, così ridotto, che le grandi potenze giocano a scacchi. A perdere, sempre i pedoni.