La Corte dell’Aja ha assolto l’ex presidente Laurent Gbagbo che ora potrebbe sfidare di nuovo la Francia e tornare nel Paese. Dove la tensione sale, quattro persone su dieci vivono sotto la soglia di povertà e i ragazzi fuggono in massa verso l’Europa (Foto di Alessandro Grassini)

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Alla lettura della sentenza di assoluzione, il vecchio ex presidente in carcere da otto anni è rimasto immobile, come se l’avesse sempre saputo. Invece il verdetto è stato una sorpresa per molti: a metà gennaio, la Corte penale internazionale dell’Aja ha assolto Laurent Gbagbo, 74 anni a maggio, dall’accusa di aver commesso crimini di guerra durante gli scontri del periodo 2010-2011, dopo le tormentate elezioni che sancirono la fine del suo potere in Costa d’Avorio.
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Ora potrebbe tornare libero (anche se l’accusa ha fatto appello contro il suo rilascio) e lasciare il centro di detenzione di Scheveningen, in Olanda, dove si trova ancora recluso insieme a diversi condannati per crimini di guerra nella ex Jugoslavia. In quello stesso carcere pochi mesi fa l’ex presidente ha finito di scrivere il suo libro di memorie che è anche un manifesto per un possibile ritorno in patria: si intitola “Libre. Pour la vérité et la justice” (appena pubblicato dalle edizioni Max Milo) ed è il risultato di sei anni di colloqui con il giornalista francese François Mattei. Un racconto in cui non mancano attacchi molto diretti alla Francia e ai suoi capi di Stato, da Sarkozy a Hollande, accusati di neocolonialismo.
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La figlia, Marie Laurence Gbagbo, fa sapere che, se sarà liberato, suo padre «non vivrà in nessun altro Paese oltre alla Costa d’Avorio, vuole tornarci e ci aspettiamo che torni», ma non specifica se l’ex leader abbia ancora ambizioni politiche.

Ed è proprio questa la questione principale: la notizia della sua assoluzione ha scosso il Paese africano e ad Abidjan, la città più importante del Paese (la capitale amministrativa è Yamoussoukro), i sostenitori di Gbagbo sono scesi in piazza per festeggiare il suo possibile ritorno, soprattutto nella popolosa zona di Yaupougon. Nel quartiere di Abobo, a nord della città, ci sono state invece proteste di piazza contro lo stesso Gbagbo: il processo di riconciliazione è ancora lontano dall’essere realizzato, dopo decenni di divisioni, guerre e tensioni.
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Una volta la Costa d’Avorio era considerata uno dei Paesi più stabili di tutta l’Africa subsahariana: il “padre della patria” Félix Boigny è rimasto al potere dal 1960 fino alla fine del 1993, mescolando il legame di fedeltà alla Francia (e alle aziende francesi) con politiche di pianificazione e programmazione economiche che all’epoca fecero parlare di “miracolo ivoriano”.
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I problemi sono iniziati, appunto, con la sua morte nel ’93, a cui fecero seguito svariati colpi di Stato e conflitti etnici per il controllo delle risorse naturali del Paese: diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro ma anche legno di mogano, piantagioni di caffè e cacao.
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Laurent Gbagbo - un professore di liceo e sindacalista, proveniente da una famiglia povera del nord - salì al potere dopo le elezioni del Duemila in cui aveva sfidato il capo della giunta militare Robert Guéï. Entrambi si proclamarono vincitori, ma seguì una rivolta popolare a favore di Gbagbo che così divenne presidente.
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Le tensioni tuttavia continuarono: due anni dopo scoppiò una nuova guerra civile per il possesso delle terre, con i ribelli che accusavano Gbagbo di favorire gli interessi del suo clan. Fu durante questo conflitto che Gbagbo - anticolonialista, panafricano e di ispirazione socialista - si inimicò definitivamente i francesi, che già non gli avevano perdonato di aver messo fine alle privatizzazioni a favore delle loro aziende.
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Alle elezioni presidenziali del dicembre 2010 si arrivò quindi al redde rationem: Gbagbo perse con pochi punti di scarto contro lo sfidante Alassane Ouattara,un economista del Fondo Monetario Internazionale sostenuto da Parigi. Il risultato del voto fu però contestato da Gbagbo, che cercò di restare al potere, giurò di nuovo come capo dello Stato e si asserragliò nel palazzo presidenziale.
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Seguì un altro periodo di guerra civile che insanguinò il Paese per i primi mesi del 2011, finché gli stessi francesi catturarono Gbagbo e lo portarono davanti alla Corte dell’Aja accusandolo di aver fatto uccidere - durante gli scontri del 2011- tra le 706 e le 1.059 persone. Secondo la Corte internazionale invece non c’è nessuna prova delle sue responsabilità e la sua assoluzione, oggi, è quindi anche una sconfitta politica per Parigi, che sperava di essersi liberata definitivamente di lui.
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Il suo rivale Ouattara intanto è ancora al potere: sostenuto dalla Francia (al suo matrimonio ha partecipato di persona Sarkozy) è stato riconfermato nelle - pacifiche - elezioni del 2015. Da allora il Paese ha vissuto un periodo di ritorno, seppur relativo, verso una maggiore stabilità. Lo stesso Ouattara ha cercato di favorire un processo di riconciliazione, anche se nelle carceri restano centinaia di oppositori.
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La crescita economica nel Paese è notevole (attorno al 7-8 per cento) ma più del 40 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Inoltre è stridente il contrasto tra il miglioramento avvenuto nelle città - Abidjan in testa - e la vita nelle zone interne di campagna, specie al nord, dove scoppiano ciclici conflitti tra pastori e agricoltori.
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I circa 22 milioni di abitanti della Costa d’Avorio, inoltre, sono divisi in una sessantina etnie diverse, il che rende facile lo scoppio di guerre locali di cui spesso in Europa non arriva nemmeno l’eco. Non a caso questo è il quarto paese per provenienza dei migranti che sbarcano sulle coste del Mediterraneo e più di 30 mila persone sono già arrivate in Italia, quasi tutti giovani e giovanissimi.
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L’anno prossimo in Costa d’Avorio si tornerà alle urne e il possibile rientro in patria di Gbagbo avrebbe pesanti conseguenze: la sua influenza sulla politica ivoriana è ancora forte e la coalizione di Ouattara nel tempo si è indebolita. La situazione è tesa soprattutto al Centronord, dove scoppiano frequenti disordini, che spesso si concludono a colpi di pistola.
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È in queste regioni che si concentrano anche le attività della cooperazione internazionale, compresa quelle di Ong italiane. A Bouaké, nella valle del Bandama, da dieci anni c’è la fondazione Avsi, con il suo programma per l’educazione e la nutrizione dei bambini ma anche con interventi nei settori della salute (specie Aids), della formazione professionale e del sostegno alle microimprese. In rete con 50 organizzazioni locali, quelli di Avsi hanno anche avviato il progetto Triangle Pacific per sradicare le cause dei conflitti in 45 villaggi nella regione di Gbeké: centinaia di allevatori e agricoltori - che si sono fatti la guerra tra loro per anni - vengono coinvolti ogni giorno in momenti di formazione, training e attività socioculturali per costruire passo passo le premesse di una pace dal basso.
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Una particolare attenzione nei progetti viene dedicata alla prevenzione della migrazione, sia in termini pratici (la ricostruzione di quel minimo di economia che consenta di non avere bisogno di provare a scappare verso l’Europa) sia attraverso il racconto alle popolazioni delle reali difficoltà del viaggio attraverso il deserto e il mare: più di cinquemila chilometri separano la Costa d’Avorio dalle coste libiche.
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Un lavoro non secondario, in una zona del mondo dove la narrazione sull’emigrazione è spesso lasciata ai trafficanti, che hanno interesse a minimizzare le difficoltà del viaggio per aumentare i loro fatturati illegali. Dare ai locali la possibilità di non andarsene e dire loro la verità su quello che li aspetta nel deserto e in mare: una strategia non solo più umana ma anche più efficace di quella dei muri, dei porti chiusi, dell’accanimento contro chi è già arrivato e spesso non può più tornare.
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