Francesco, 20 anni, aggredito brutalmente a Vittoria, nel ragusano. «L’ultima volta che sono stato in chiesa ho detto una preghiera per loro. Perché penso a quanto affetto gli manca per arrivare a picchiare un semplice passante per strada»

Francesco Tommasi
Una madre entra nel commissariato di Vittoria, comune del ragusano. «Voglio denunciare mio figlio», dice. Presenta il documento e indica le generalità. In quel commissariato sono in tanti, forse in troppi. C’è la vittima, un ragazzo di 20 anni linciato da un gruppo di quattro minorenni. Una madre, la sua, che segue con le dite gli ematomi lasciati sul volto. E l’altra, quella che ha chiamato al telefono il capo della banda, suo figlio, e ha saputo che era stato proprio lui a scatenare la follia contro Francesco Tommasi in pieno centro. «Perché? », ha chiesto. La risposta inattesa: «Ma’, perché era frocio». E allora ha posato il cellulare, è salita in auto ed è arrivata al commissariato. «È stato mio figlio». Non ha chiesto scusa a nessuno, neanche a Francesco che era poco distante da lei. Ha denunciato il fatto ed è tornata a casa sua. Senza aggiungere altro.

«Mi sputavano, mi urlavano, mi davano cazzotti e calci». Ride nervosamente, ride così tanto da non crederci. «Non ho mai nascosto la mia omosessualità. Il primo fidanzato risale a undici anni. A quindici sono andato da mamma e papà e ho detto tutto».

Prendere una mano, sfiorare le labbra, scoprire l’amplesso sconvolgente della prima volta, innamorarsi senza più avere fame: «Io sono un uomo, non solo un omosessuale, ma semplicemente un uomo». Sciorina la frase con i suoi 20 anni, tre più dei suoi aggressori, intreccia i piedi. Quel ridere nervoso scompare e inizia un racconto sincopato: «Era il 14 dicembre, le 14.40, ricordo con esattezza l’orario, stavo parlando al cellulare con Massi». Massi, l’amico che sentirà tutto al telefono, mentre Francesco viene picchiato e urla stordito parolacce. «Si sono avvicinati, erano in quattro, tutti minorenni, mi hanno chiesto il cellulare, ma io ho detto che era mio e che andavo di fretta». Arriva il primo insulto: «Pezzo di frocio, dacci il telefono, non ti facciamo niente».
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Lui continua a camminare, ma viene bloccato: «Ho reagito e ho cercato di rispondere per difendermi, ma un altro mi ha colpito forte alla testa». Poi il caos, il blackout di ricordi che arrivano a intermittenza: «Io devo aver detto qualcosa a uno di loro e poi mi hanno accerchiato». Si fermano solo un momento, quando un elettricista interviene: «Spostatevi da lì perché c’è un filo e rischiate di rimanere fulminati». Guarda dall’alto di una scala e lascia che tutta si compia. «Poi hanno ripreso a pestarmi, ma io non ho visto nulla, cercavo di coprirmi il volto».

Ride di nuovo: «Sarò pazzo, ma la mia paura più grande era che mi sfigurassero il viso». Le urla attirano l’attenzione, un pizzaiolo intravede un cerchio di persone intorno a una sagoma che viene strattonata con violenza: «Mi ha salvato la vita, sono andato a ringraziarlo qualche giorno fa». Negli occhi scatta qualcosa: «Ti fai una passeggiata e non ti aspetti che qualcuno ti picchi. Quando sono in tanti, poi, rimani sbalordito».
Francesco torna a casa: «Mi sono fatto una doccia, volevo pulirmi di dosso gli sputi, poi ho iniziato a vomitare, mi avevano picchiato in testa, penso sia stato quello». È questione di ore, a Vittoria già sanno tutto. Il linciaggio diventa una discussione da bar e nel comune siracusano si convincono dell’unica verità deformata. Il colpevole è già consegnato: «Un gruppo di immigrati ha pestato Francesco Tommasi». La voce si diffonde, fino a ipotizzare una spedizione punitiva. «Avevano incolpato degli extracomunitari, da non crederci». E pensare che lui di quegli immigrati è amico: «Passo alcuni pomeriggi alla casa famiglia dove vengono accolti, mi chiedono consigli, faccio le treccine alle ragazze». Rimane in silenzio, si contorce le dita: «Sai per me è un vero onore poter dare loro un po’ di conforto». Non c’è rabbia, ma una preoccupazione costante: «Siamo persone, tutto il resto dovrebbe essere un dettaglio».

Ma quel dettaglio Francesco lo ha sempre difeso, come quando pochi mesi prima del pestaggio, un altro ragazzino gli urlò in piazza: «Finocchio». «In quel caso sono andato verso di lui e l’ho abbracciato poi gli ho detto: “grazie mille per il riconoscimento” e sono andato via». Inanella una via crucis di riflessioni: «È tutto estremamente banale quando si condanna l’odio, è banale dire che non si dovrebbe fare, eppure succede ogni giorno». Inizia l’elenco di violenze, di offese, di insulti. E associa la sua situazione a quella di tanti altri. «Cosa dovrei dire? Cosa dovrei fare? Dovrei dire che non dobbiamo odiare, che non dobbiamo picchiare? Mi sembra un po’ scontato».
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Una mamma che sembra una sorella, 15 anni di differenza, un padre che quando ha saputo della sua omosessualità «era preoccupato perché nessuno mi avrebbe accettato». Il moto di orgoglio si affaccia immediato: «Sia chiaro, io non mi sono mai nascosto, non ho mai smesso di portare i tacchi o di andare in giro vestito in maniera bizzarra, mi piace e voglio esprimermi come meglio credo». Punto. E in quel punto c’è anche la storia dei suoi aguzzini: «Non ho più saputo niente di loro, ma ci penso spesso, vorrei abbracciarli». Parla della solitudine di una generazione senza sentimenti: «L’ultima volta che sono stato in chiesa ho detto una preghiera per loro, non perché dovessi perdonare qualcuno o qualcosa, ma perché penso a quanto affetto gli manca per arrivare a picchiare un semplice passante per strada». Un passante per strada con la colpa di essere troppo effeminato. La normalità torna: «Adesso vado a fare i ravioloni con Massi».