
Il 12 dicembre 2018 la giunta guidata da Federico Sboarina ha approvato la convenzione con la Fondazione e Verona property per la trasformazione dei sette palazzi al centro della città. È sufficiente un passaggio, dall’esito scontato, in consiglio comunale e i cantieri potranno aprire.
«Il quadrilatero», si legge nel piano Folin, «è stato popolato da centinaia di utenti fino a pochi anni fa. Oggi appare come una piccola città fantasma, perfettamente pronta all’uso, quasi in attesa di un futuro prossimo venturo». Sono quasi 32 mila metri quadrati di superficie netta da valorizzare con un centro congressi, ristoranti, wine-bar, centri benessere, spazi dedicati alla gastronomia, un albergo di lusso da 140 camere, appartamenti e gli spazi museali con librerie sopravvissuti al progetto iniziale dove prevaleva la destinazione a direzionale pubblico.
In una città dominata dalla destra, dove il sindaco Sboarina minaccia di togliere la sede all’Anpi che ha organizzato un convegno di analisi storica sulle foibe, lo strumento normativo per accelerare l’arrivo del futuro prossimo venturo, ossia la partenza dei lavori, è il decreto Sblocca Italia varato nel 2014 dal governo Renzi.
L’obiettivo di ripensare il centro contro le logiche del “turismo ciabattone”, come le definisce il presidente della Fondazione Alessandro Mazzucco, potrebbe avere un impatto pesante. C’è chi teme che la modernità di pensiline e sottopassi cancelli l’impronta secolare di una città famosa per la signoria medievale degli Scaligeri, per i suoi contrasti con la Serenissima veneziana e per la sua abitudine a gestire il potere con un’impronta familistica dai tempi dei Capuleti e dei Montecchi.

Le maggiori perplessità del piano Folin sono proprio nell’intreccio di amicizie, parentele e possibili conflitti di interesse. La partita che ridisegnerà la nuova Verona si sta giocando in grande riservatezza. Ci sono pochi riflessi anche nelle cronache locali sebbene qualche forzatura normativa sia già finita all’attenzione della Procura della repubblica. È il caso della trasformazione dei vecchi Magazzini Generali, a sud della città, non lontano dalla Fiera, nota per accogliere Vinitaly.
L’ipotesi dell’indagine giudiziaria, ancora agli inizi, è che i Magazzini Generali siano stati un regalo del Comune cioè alla Fondazione Cassa di Verona che è un ente privato di interesse pubblico.
La zona, inizialmente assegnata a direzionale pubblico, è stata di fatto privatizzata senza che il Comune ne ricavasse granché. Per sfruttare l’area dei Magazzini generali con uffici privati invece di un museo, la Fondazione ha riconosciuto al Comune un contributo aggiuntivo di 202 mila euro su una superficie lorda di quasi 12 mila metri quadri (17 euro al metro) che a lavori finiti varrà almeno cento volte tanto.
Come nel centro della città, anche nell’area sud c’erano motivazioni sensate per una trasformazione urbanistica radicale. Il progetto e la direzione artistica dell’architetto ticinese Mario Botta stanno intervenendo in un contesto dove è molto forte l’emigrazione extracomunitaria. Secondo il racconto del consigliere comunale Michele Bertucco (Sinistra in Comune), «a Verona sud si sfratta anche chi paga l’affitto regolarmente, se è straniero, ed è difficile trovare una sistemazione dignitosa per le famiglie sinti italiane, nate e cresciute in questa città».
Anche a Verona sud gli attori protagonisti sono Comune e Fondazione, primo e secondo socio della Fiera (39,7 e 24,2 per cento rispettivamente). Da area con vincolo di archeologia industriale, i Magazzini Generali si apprestano a ospitare la prossima sede della multinazionale farmaceutica Glaxo, dell’istituto specializzato in crediti in sofferenza doBank (ex Unicredit e oggi gruppo Fortress). La ciliegina sulla torta sarà il più grande punto vendita di Eataly, realizzato dalla vicentina Icm (ex Maltauro) dentro la volta imponente dell’antica cella frigorifera.
Qualche cenno storico è indispensabile per raccontare una città che vive di storia. Senza tornare a Dante, rifugiato politico extracomunitario ai tempi di Cangrande, o a Shakespeare, che a Verona non ci mise mai piede, alla fine della Prima Repubblica la città è democristiana, dominata da un clero potente, sede della Nato e teatro del rapimento del generale Usa James Lee Dozier da parte delle Br (dicembre 1981). Nel 1993 una delle tante Tangentopoli italiane sbarca in riva all’Adige.
La versione veronese, condotta dal magistrato siciliano Guido Papalia, si fa apprezzare per alcune coloriture a luci rosse. Nel bianco Dc, c’è la Cassa di risparmio il cui presidente Alberto Pavesi viene arrestato (gennaio 1993). Al suo posto viene nominato un imprenditore termomeccanico locale, Paolo Biasi che alcuni considerano vicino all’Opus Dei. Biasi guida i vari passaggi che portano alla fusione della Cassa nel futuro gruppo Unicredit e si prende la Fondazione. Ammiratore di Enrico Cuccia, l’ingegnere veronese si guadagna il soprannome di “sfinge”. Come il numero uno di Mediobanca, parla pochissimo e comanda moltissimo. C’è ancora chi ricorda Fabrizio Palenzona, allora vicepresidente della banca, in attesa di Biasi sotto l’ingesso della Fondazione in via Achille Forti alle sette di mattina.
Cariverona, che per legge deve investire il rendimento del suo patrimonio su un territorio comprendente anche Belluno, Vicenza e Ancona, incomincia a comprare immobili dal Comune in panne di liquidità. Nel 2003 tocca ai Magazzini Generali (16 milioni di euro). Nel 2006 è il turno di Castel San Pietro (20 milioni di euro).
Già nel 2005 il patrimonio è così cresciuto che la Fondazione di Biasi e il Comune guidato da Flavio Tosi lo conferiscono a un fondo immobiliare chiuso, Verona property. Nel fondo finiscono anche le sedi in centro di Unicredit che Alessandro Profumo, al tempo amministratore delegato, ha deciso di valorizzare trasferendo in periferia i dipendenti.
In una prima fase Verona property viene gestito dalla Torre sgr, guidata dalla stessa Unicredit e amministrata da Fausto Sinagra, ex ufficiale della Guardia di finanza molto vicino a Biasi. Nella sgr c’è anche il gruppo Mediolanum di Ennio Doris e Silvio Berlusconi, che esce circa tre anni fa.
Fin dall’inizio la gestione del patrimonio immobiliare è un affare per pochi intimi. Ma non sempre gli stessi intimi. A partire dal 2016 il trio Biasi-Tosi-Sinagra viene sostituito. Il primo a uscire è Biasi, che ha superato il limite dei mandati. Inizialmente si pensa al notaio Maurizio Marino per la guida della Fondazione. Marino è il professionista che ha ratificato la convenzione a costruire in deroga a marzo del 2016. È proprio questa convenzione, approvata dalla giunta Tosi, a cambiare destinazione d’uso delle aree di Verona property da pubblico a privato con interesse pubblico.
Alla fine, passa un accordo per cui alla presidenza viene nominato Mazzucco, cardiochirurgo veneziano ed ex rettore dell’università di Verona, mentre il figlio del notaio Marino, Giacomo, viene rimpatriato dalla Londra post-Brexit e nominato direttore generale della Fondazione.
Il sindaco Tosi, espulso dalla Lega dopo un lungo conflitto, esce di scena a giugno del 2017 dopo che la sua lista civica viene sconfitta dall’alleanza Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia che sostiene l’avvocato Sboarina.
La successione morbida, pilotata dalla sfinge Biasi, prende presto d’aceto. Mazzucco mal tollera l’ombra del suo predecessore e vuole fare da sé. L’ex rettore boccia l’idea di Sinagra di puntare sul residenziale di lusso nel quadrilatero romano e fa fuori Torre sgr pagando una penale da 600 mila euro. Al posto di Torre, viene ingaggiata Patrizia che, a dispetto del nome romanissimo, è un colosso della gestione immobiliare (40 miliardi di euro di portafoglio) con quartier generale ad Augusta in Baviera e sede in Lussemburgo.
Patrizia, che eredita anche il business dei Magazzini Generali, si mette all’opera in perfetta affinità di intenti con la nuova giunta comunale e con la Fondazione anche grazie a un consulente, l’avvocato Giuseppe Perini, già al lavoro per conto della Fondazione e di Torre sgr. Perini ha sposato una figlia di Mazzucco.
Un altro consulente della Fondazione e di Patrizia, l’urbanista Folin, viene nominato da Mazzucco nel consiglio generale dell’ente, da non confondere con il consiglio di amministrazione. Sui possibili conflitti di interesse, Mazzucco taglia corto. «Folin prima ha avuto l’incarico di consulente dalla Fondazione e da Patrizia e solo dopo l’ho proposto come consigliere».
Mazzucco respinge ogni critica anche su un argomento un po’ più tecnico ma non meno delicato. Il testo unico della finanza concede agevolazioni fiscali ai fondi immobiliari e alle sgr che li amministrano purché non vi siano sospetti di eterogestione. In altre parole, chi ha sottoscritto le quote del fondo, cioè la Fondazione, non deve intromettersi negli aspetti gestionali, riservati a Patrizia, pena l’intervento della vigilanza del Mef e la perdita di benefici fiscali già acquisiti per una decina di milioni di euro.
«È un tema che risale all’amministrazione Tosi», dice l’ex rettore. «Comunque non so nulla di quello che Patrizia sta facendo con l’ex sede di Unicredit». In realtà Patrizia è ben lieta di assecondare il progetto di Folin che è anche suo consulente. Per ironia della storia, anche Folin è veneziano ed ex rettore allo Iuav. I suoi amici sono Arrigo Cipriani, Paolo Baratta della Biennale, i Coin, i De Michelis.
Coetaneo di Mazzucco (1944), l’urbanista ha sempre avuto un debole per le fondazioni bancarie e le ha già conosciute dall’interno come consigliere della fondazione Venezia guidata da Giuliano Segre, sposato con Laura Fincato, sottosegretario nell’ultimo governo Andreotti e nell’esecutivo guidato da Carlo Azeglio Ciampi. Innamorato della Cina, che visita spesso per lavoro, Folin ha anche ristrutturato il caffè Quadri di piazza San Marco e si sta battendo per la sopravvivenza del mercato ittico di Rialto.
Fra i segnali di discontinuità con la gestione precedente lanciati da Mazzucco c’è un indubbio attivismo anche sul piano finanziario. La Fondazione investe nelle azioni della veronese Cattolica (3,4 per cento) con discreti risultati e di doBank del gruppo Fortress (2 per cento). Il problema principale è il pacchetto Unicredit che scende dal 2,7 all’1,8 per cento attuale con una minusvalenza potenziale superiore al 30 per cento. Non poco per un investimento di 1,07 miliardi di euro.
Il cardiochirurgo veneziano che ha abbracciato la causa di Verona ex capitale longobarda porta a un conflitto duro con il trevigiano Enrico Marchi, numero uno della Save che gestisce fra gli altri gli aeroporti di Venezia e il Catullo di Verona Villafranca.
Mazzucco accusa Marchi di privilegiare Venezia e di non investire abbastanza nel Catullo, che si porta dietro la zavorra dello scalo merci bresciano di Montichiari, in gravi difficoltà finanziarie. Marchi replica a Mazzucco di non insegnargli il mestiere di gestore aeroportuale come lui non insegna a Mazzucco la cardiochirurgia.
La replica della Fondazione è stata di rivolgersi ad altri azionisti pubblici del Catullo per sostituire Save con F2i (Cassa depositi e prestiti). «I 60 milioni di euro promessi da Save», dice Mazzucco, «sono troppo pochi e Verona non deve essere un’appendice di Venezia. F2i è una realtà pubblico-privata che ha in mano diversi aeroporti ma non c’è nulla di deciso».
Nello stesso modo non ci sarebbe nulla di definitivo nell’ipotesi di trasferire le partecipazioni finanziarie del Comune alla Fondazione accrescendo il ruolo già da protagonista dell’ente. Su questo argomento Mazzucco non commenta. «Verona è una città tendenzialmente assopita», conclude. «Del resto, sul piano Folin non ha protestato nessuno».