Guardateci, siamo i figli degli stupri etnici. E non vogliamo più nasconderci
Hanno tra i 23 e i 27 anni, non conoscono i padri criminali di guerra. Per la prima volta parlano e raccontano la loro vita. Di vergogna e rifiuto
Il giorno in cui sono andato a bussare alla porta di mio padre e l’ho visto per la prima volta è stato come avere davanti il mio riflesso. Non serviva alcun test del Dna per capire che ero davvero suo figlio. Abbiamo la stessa corporatura, lo stesso colore degli occhi, dei capelli. Solo che io, al contrario di lui, non sono un criminale di guerra».
Alen Muhi ? ha 25 anni, vive a Goražde, città della Bosnia a una manciata di chilometri dal confine serbo. Prima di conoscere personalmente il padre sul ciglio di una porta, se lo è immaginato attraverso la lettura delle dichiarazioni in tribunale, dove è stato condannato per i reati commessi durante il conflitto degli anni Novanta. Tra le atrocità di cui si è macchiato, anche lo stupro che ha generato la vita di Alen. «Ai giudici mio padre diceva di essere pentito, prometteva che si sarebbe preso cura di me. Ma quando ci siamo incontrati mi ha chiesto di non farmi più vedere, perché aveva già una famiglia. La mia madre biologica invece vive negli Stati Uniti: ci siamo incontrati una volta, ma adesso non siamo più in contatto».
Abbandonato dopo la nascita, Alen è uno dei bambini nati dalle violenze sessuali avvenute tra il 1992 e il 1995. Un capitolo doloroso e mai del tutto affrontato, che negli ultimi mesi sta tornando alla ribalta attraverso la voce di coloro che, come Alen, si considerano Zaboravljena Djeca Rata, letteralmente figli dimenticati della guerra. Questo è anche il nome dell’associazione che riunisce i ragazzi frutto degli stupri e delle relazioni che emersero tra le maglie del conflitto. Ne fanno parte uomini e donne tra i 23 e i 27 anni, abitanti di una Bosnia che fatica a fare i conti con la loro esistenza.
«Ho saputo di essere frutto di stupro nel 2002. Andavo alle elementari, stavo giocando a calcio quando cominciai ad azzuffarmi con un altro bambino, che a un certo punto mi gridò: “Tu sei un bastardo dei cetnici”. Quando rientrai a casa chiesi ai miei genitori adottivi cosa significasse quella frase. Mi dissero tutta la verità. Il ragazzetto che mi aveva insultato non aveva colpe. Ripeteva soltanto quel che aveva sentito raccontare dai suoi familiari. Ma è l’esempio di come il senso di vergogna e di rifiuto perseguiti i ragazzi come noi».
La donna che ha lasciato Alen nell’ospedale di Goražde subito dopo il parto e non ha più voluto sapere nulla di lui, non è che una delle donne (tra le 20 e le 50 mila, le statistiche sono incerte) stuprate durante un conflitto che ha visto serbi, croati e musulmani bosniaci scontrarsi in un intreccio di rivendicazioni identitarie e interessi politici. In quegli anni, lo stupro veniva usato come arma di annientamento. Nella logica dei militari, l’aggressione sessuale, condotta in campi di concentramento femminili, era sia un modo per umiliare il maschio nemico sia un’efficace strategia di pulizia etnica.
I nati da quegli stupri, però, sono solo una delle categorie rappresentate dall’associazione Zaboravljena Djeca Rata, che offre sostegno anche a ragazzi i cui padri erano, per esempio, soldati nei reparti internazionali, volontari, turisti di guerra, uomini di passaggio poi spariti nel nulla. In alcuni casi si trattò di relazioni d’amore dove non ci fu alcun elemento di costrizione o violenza. In altri furono effetto della disperazione, che portò tante donne bosniache a prostituirsi pur di ottenere un pacco di pasta o qualche soldo da spendere al mercato nero.
«Eravamo riusciti a metterci in contatto con alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite. Avevano promesso che ci avrebbero finanziati. Ma quando hanno scoperto che offrivamo appoggio anche a chi è nato dai rapporti con militari internazionali hanno ritirato il loro sostegno», spiega Alen. «Facciamo fatica a ottenere aiuti dall’estero e neanche il nostro Paese ci ha mai concesso sconti, agevolazioni. Perfino riuscire a registrarmi con il cognome dei miei genitori adottivi e annullare quello della mia madre naturale è stata una battaglia. Finché il nazionalismo governerà la Bosnia Erzegovina, dovremo continuare a chiederci: a quale categoria apparteniamo noi? Perché non ci riconoscono?».
I membri dell’associazione sono per adesso una quindicina, anche se i sommersi degli anni Novanta sono in realtà molto di più: tra i 2 mila e i 4 mila secondo le ultime stime, anche se avere un dato certo risulta impossibile. Nell’atmosfera di omertà che domina l’argomento, però, perfino decidere di uscire allo scoperto e far parte del gruppo rappresenta una rivoluzione. Tanti si vergognano e preferiscono non parlare dello stigma che si portano sulle spalle, temendo di peggiorare la situazione.
Anche all’interno dei Zaboravljena Djeca Rata la maggior parte dei ragazzi continua a mantenere l’anonimato. Oltre ad Alen, l’unica ad aver scelto di esporsi pubblicamente è Ajna Jusi? . Cresciuta con la madre naturale, è lei alla testa dell’associazione. Ha venticinque anni e vive da sola a Sarajevo, dove studia psicologia. Qualche tempo fa è stata contattata da Amra Deli ? , una dottoressa che raccoglie da anni i dati sui bambini nati dalle violenze durante il conflitto. Da allora si batte per i diritti dei cosiddetti figli della vergogna. La sua espressione di sfida è diventata l’immagine simbolo di una lotta che mira a scardinare silenzi e tabù disseminati lungo il più recente passato bosniaco. La contatto attraverso la loro pagina Facebook e riesco a fissare l’intervista a Sarajevo, dopo qualche settimana di corrispondenza andata avanti a singhiozzo. Ci troviamo al Caffè Tito, poco lontano dal viale dei tigli. Al momento dell’incontro, Ajna non si preoccupa di mostrare la sua diffidenza. «Per me è una scocciatura dover parlare con i giornalisti e raccontare la mia vita. Ma so che devo farlo, perché la visibilità mediatica ci aiuta a portare in superficie il nostro dramma e a dare uno scossone alle autorità bosniache. Nessuno, dalla fine della guerra, ha mai affrontato pubblicamente l’esistenza di noi, nati dagli stupri. Non esistono registri o elenchi ufficiali. Ma tenerci nell’ombra non fa che rendere più dolorosa la discriminazione che subiamo ogni giorno». Avere l’attenzione di televisioni e giornali è anche un modo di chiamare all’appello altri dimenticati della guerra, ragazzi dispersi in tutta la Bosnia e ancora oggi obbligati ad accontentarsi di un’identità dimezzata. «Il mio certificato di nascita è compilato solo per metà, perché non ho le informazioni del mio padre biologico. Nel nostro Paese, la prassi vuole che sui documenti si scrivano nell’ordine nome, nome del padre, cognome. Non è possibile usare quello della madre. Così, quando negli uffici gli impiegati vedono i campi rimasti vuoti, io sono costretta a dare spiegazioni, a ripetere che mia mamma è stata stuprata e che sono frutto di una violenza».
In realtà, il campo da compilare con il nome del padre si trova anche sui documenti richiesti per aprire il proprio conto in banca o su una semplice multa per eccesso di velocità. Si tratta di un escamotage per non inciampare in casi di omonimia, spiegano alcuni. Il riferimento all’uomo di casa per confermare la propria identità, invece, ha piuttosto a che fare con gli ingranaggi di una società profondamente patriarcale. E che, a oltre venticinque anni dal conflitto bosniaco, tenta di sommergere i cittadini che non hanno mai conosciuto il volto paterno.
«Ho scoperto di essere figlia di stupro appena adolescente. Un pomeriggio ho trovato alcuni documenti dell’ospedale, dove era descritto tutto quello che mia mamma aveva subito, le ferite che aveva riportato», racconta Ajna Jusi ? , presidentessa dell’associazione. «Ho cercato di affossare quella scoperta dentro di me. Finché sono esplosa. E insieme a lei ho iniziato un percorso psicologico. Non avrebbe mai voluto dirmelo, ma da allora si è sentita sollevata, perché abbiamo cominciato a portare quel peso insieme. Per la prima volta mia madre ha avuto la sensazione di poterne parlare con qualcuno». Con gli accordi di Dayton del 1995 viene sancita la fine delle ostilità e si pianifica la divisione della Bosnia Erzegovina su base etnica: nasce così la Repubblica serba, separata dalla Federazione croato-musulmana. La firma dei trattati metterà termine a un massacro durato oltre tre anni. Ma finisce per cristallizzare un equilibrio precario, minacciato tutt’oggi da un clima di risentimento tra le parti e di responsabilità mai confessate. Un panorama controverso, dove essere figlio di stupro, figlio del nemico, rappresenta un peccato originale che striscia nelle vene. E da cui si genera una disparità di trattamento, che filtra dal banco informazioni delle segreterie scolastiche ma non risparmia nemmeno il cortile domestico.
«Quando ho cominciato l’università avrei voluto ottenere una borsa di studio come chi è rimasto senza uno dei due genitori durante la guerra. Ma per riceverla gli impiegati vogliono vedere il certificato di morte del padre, che io ovviamente non ho. È solo un esempio. La discriminazione parte dello Stato, ma è vissuta anche all’interno della stessa famiglia. Chi di noi ha la madre che si è sposata e ha avuto altri figli viene spesso maltrattato dal resto dei parenti, messo da parte».
Ajna racconta le sue ragioni quasi con distacco, senza incertezze e senza rivelare dettagli drammatici. Perché teme che portare alla ribalta i dimenticati della guerra possa consegnarli a un’altra forma di discriminazione: la compassione nei loro confronti. Lei e i suoi compagni, invece, ci tengono a ribadire che non vogliono suscitare pietà negli altri, perché sarebbe un altro modo di percepirsi come diversi.
«Vogliamo ricordare alla società bosniaca che noi esistiamo e che siamo uguali ai nostri coetanei. Ma per avere le stesse garanzie è necessaria una legge che ci identifichi come categoria protetta. Prima, però, serve che le autorità dichiarino vittime di guerra le madri violentate. In tantissime aspettano questo riconoscimento, che garantirebbe loro aiuto psicologico ed economico».
Sul profilo facebook di Ajna ci sono scatti che la ritraggono in momenti di vita quotidiana trascorsi con la madre. Viaggi insieme, feste di compleanno, tenerezze tra le mura di casa. Nelle fotografie appaiono come due donne qualunque. Nella realtà, sono una mamma e una figlia che sono state in grado di trasformare la radice del loro trauma in una lezione d’amore da diffondere, per spronare altre donne violentate a confidarsi con i propri ragazzi. Ma quando chiedo ad Ajna di farmela conoscere ricevo in risposta un secco no, che suona come il suo tentativo di volerla proteggere da ogni possibile scossa esterna. «Sono grata a mia madre perché mi ha insegnato che non valgo meno degli altri solo perché sono nata da una violenza, anche se il governo cerca di convincerci del contrario. Intanto, troppe persone continuano a insultare le nostre mamme, dicono che se la sono cercata. Quando senti queste parole devi continuamente ricordare a te stessa che tua madre non ha nessuna colpa».
I Zaboravljena Djeca Rata non sono l’unica realtà a voler scomodare la polvere nascosta sotto il tappeto. Diverse sono le associazioni impegnate a chiedere alle autorità bosniache di affrontare gli strascichi che impediscono al Paese di ripartire. L’attivista Bakira Hase ? i ? spiega che, tra i nodi irrisolti, c’è anche quello dei criminali ancora impunti: «Molti delinquenti sono scappati in Serbia, dove sono protetti dalla doppia cittadinanza. Un altro ostacolo alla riappacificazione è la mancanza di protezione per chi sceglie di testimoniare. Io stessa, quando torno a Višegrad e cammino per strada o salgo sull’autobus, sento alle mie spalle minacce e insulti».
Bakira è stata più volte stuprata nell’aprile del 1992, a conflitto appena esploso. La stessa sorte è toccata a una delle sue figlie e tra i loro carnefici c’era anche un vicino di casa. Oggi Bakira ha 65 anni e non smette di investire energie nell’associazione “Donne vittime di guerra”, da lei fondata nel 2003 per dare un senso alla rabbia che quei giorni le hanno lasciato in eredità. «Non smetterò di perseguitare i delinquenti che hanno distrutto migliaia di donne. Ci hanno lasciato dentro una cicatrice che non guarirà mai. A tanti anni di distanza, penso ancora che sarebbe stato meglio perdere un braccio o una gamba in guerra, piuttosto che avere memoria di quanto ho subito. Ma quegli stupri hanno distrutto anche migliaia di famiglie. Dopo le aggressioni ci sono state mogli abbandonate dai mariti. Perché il compagno, alla donna violentata, ha sempre posto una domanda che qui in Bosnia è considerata normale: “Come ti sei permessa di farti stuprare?”».