Nella strage di Christchurch c'è un messaggio di sangue: un Occidente in guerra contro i migranti

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Parlare di «follia omicida», «delirio fanatico», «violenza cieca» è un comodo alibi per ridurre il fenomeno complesso del nuovo terrore a una semplice patologia. Si afferma così nel discorso pubblico l’immagine satanica del terrorista, mutilato nel cuore, storpiato nella coscienza, che nella sua forsennata corsa verso la morte, nella sua navigazione al di là del bene e del male, è votato solo all’insensatezza distruttiva. Se questo sconcertante acrobata del nulla cade fuori dalla sfera umana, diventa allora inutile non solo ricostruire moventi e impulsi che ne hanno guidato l’itinerario, ma anche scorgerne il progetto ultimo. Eppure il terrorista resta legato agli altri umani da un filo, scabroso e imbarazzante, che nessuno può recidere e che, anzi, diventa la chance sia per sondare l’abisso attuale dell’umanità, sia per mettere a fuoco lo scenario politico globale.

L’attentato compiuto dall’australiano Brenton Tarrant a Christchurch, tranquilla cittadina della remota Nuova Zelanda, segna un prima e un poi nell’escalation del terrore planetario, dominato altrimenti dal jihadismo. Questa volta viene prepotentemente alla ribalta l’avanguardia armata dei sovranisti che si ispirano a un Occidente mitico, vedono nell’Europa il proprio avamposto, rilanciano lo scontro di civiltà in quella forma violenta e subdola, esasperata e inconfessabile che ha assunto di recente: nella guerra contro i migranti.

Noi e loro, bianchi e neri. La frattura è incolmabile. E il conflitto cosmico può accendersi ovunque. In questa visione manichea non stupisce che venga data una lettura esoterica della storia in cui si convocano all’unisono i nomi di condottieri cristiani, criminali di guerra e sterminatori dell’ultima ora: dal doge di Venezia a Radovan Karadžic, da Anders Breivik a Luca Traini. Il messaggio è la difesa a oltranza del leggendario, epico confine orientale. Non importa a quale prezzo - anche a quello del genocidio. Questa destra planetaria del terrore, che rispolvera rune celtiche e simboli nazisti, non è per nulla nostalgica. Si richiama piuttosto a quella intellighenzia iniziatica, sempre più efficace e aggressiva, che negli ultimi anni è riuscita a imporre il metodo complottista: dietro gli eventi che scandiscono il presente vengono denunciate intenzioni tenebrose, cospirazioni impenetrabili.
Basti citare Alain de Benoist, uno dei padri del sovranismo, e Renaud Camus, il teorico del grand remplacement. All’occulta alleanza tra «finanza globale» e «antirazzismo etico» risalirebbe il progetto criminale di eliminare, grazie all’immigrazione, il popolo europeo. In poco tempo la favola della «grande sostituzione», dell’invasione pianificata e sistematica, è assurta a mito cardine del neofascismo odierno. Del tutto sottovalutata, né davvero smentita o contestata, questa ideologia complottista, divenuta egemone perfino in ambiti della sinistra, ha finito per imporsi come unica narrazione del reale. Nel contesto italiano se ne sono fatti portavoce i leghisti che sono stati premiati con risultati eclatanti.

La cosiddetta «resistenza etnica» alla globalizzazione non deve però fuorviare. Se la religione gioca un ruolo secondario e, oltre la cristianità, vista nel modo più retrivo, aleggia un certo paganesimo, la bandiera dell’avanguardia sovranista non è tanto la protezione della «razza», la salvaguardia del sangue, quanto la difesa del suolo. La radicalizzazione, come quella vissuta da Tarrant, non è solo la spinta alla radicalità, ma è sempre anche un vagheggiato ritorno alle «radici». Mentre il jihadismo cerca un radicamento in cielo, tanto più ora che, sconfitto il modello dell’Isis, riemerge la violenza nomadica di Al-Qaeda, l’estrema destra, nelle sue molteplici ramificazioni, si abbarbica alla terra.

Solo saltuariamente risentimento, rabbia, odio vengono canalizzati nella politica tradizionale. Nel caso, tuttavia, di suprematisti, sovranisti, neofascisti, il legame resta più saldo di quanto si immagini. Le parole d’ordine di Vanguard America, gruppo di estrema destra che si erge a scudo della grande patria bianca, non sono poi così diverse dagli slogan di Trump contro latinos e musulmani. D’altronde il presidente non ha mai condannato a chiare lettere i ripetuti atti di violenza perpetrati dai suprematisti, come James Alex Field, che nel 2017 a Charlottesville lanciò la sua auto contro un corteo antirazzista, uccidendo una ragazza e ferendo venti persone. Bene Orbán, Le Pen, Salvini! Ma alla leader francese viene rimproverata un’eccessiva cautela. La cosiddetta «orbanizzazione dell’Europa» non basta. Troppo blanda è la reazione a quell’attacco senza precedenti sferrato contro il vecchio continente dalla lenta invasione dei migranti.

Ecco allora la necessità di un’avanguardia armata e la «logica» dell’attentato, inteso sempre come contrattacco. Il terrorista che, come molti altri si sente «vittima», è pronto ad allargare la zona del conflitto, a esasperare lo scontro. Il nemico non è più neppure un nemico: non si tratta di prenderlo prigioniero, di sconfiggerlo. L’altro diventa solo un ente da eliminare. Questo mutamento epocale sancisce il passaggio dall’ostilità tradizionale all’ostilità che diventa puro e semplice sterminismo. Così, seguendo una tattica inaugurata dai nazisti, mentre denuncia un «genocidio bianco» e punta l’indice contro la «sostituzione finale», il sovranista armato, ostenta il suo potere distruttivo proclamandosi sovrano nella zona mortale scelta come perimetro d’azione. Non si affida, però, del tutto all’arma della punizione sommaria, perché discrimina, com’è avvenuto nelle due moschee; uccide le vittime per ciò che sono, mostrando così un tratto genocidiario. Di qui la promessa – mantenuta – di non risparmiare i bambini che, un giorno, sarebbero stati a loro volta «invasori».

L’attentato è un tentativo: quello anzitutto di semplificare lo scenario globale, polarizzando lo scontro, forzando la mano alla politica tradizionale. Ma ha anche una carica dimostrativa che non può essere sottovalutata. Il messaggio di sangue vuole rafforzare la narrazione della patria bianca in pericolo e legittimarla nel futuro. Il manifesto di stampo fascista che Tarrant ha lasciato ne è la conferma. Ormai il sovranista armato sa di poter contare su una platea complice che va allargandosi sempre più.

Questo avviene grazie alla rete. Il terrorismo contemporaneo è pubblicitario, perché si rivolge all’opinione pubblica, cerca il luogo adatto per un’esplosione telegenica. Se non fosse disponibile la telecamera satellitare, l’alternativa è riprendere la mattanza e postare il video su Facebook da dove passerà rapidamente su altri siti. Ben più di ogni conquista territoriale, è l’invasione dell’infosfera a decretare il successo della galassia nera: oltre un migliaio di siti solo in Europa, per non parlare delle potentissime piattaforme americane. Prima sotterranea e nascosta, viene ora allo scoperto fomentando una spirale di violenza tra virtuale e reale. Per spezzarla serve con urgenza una contro-narrazione.