Hanno finito per imporre un modello plebiscitario di democrazia all’interno del partito, dove conta l’autorizzazione al comando più di ogni altra cosa e reso sempre meno importante la cultura politica rispetto alla personalità del leader.

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«Si direbbe che il più bel giorno di un uomo non possa essere un giorno che sia stato bello solo per lui». Elio Vittorini chiariva questa sua affermazione chiedendosi se fosse la felicità «che si pensa di dividere con altri, con un gran numero di altri, quella che può rendere eccezionale per la nostra memoria, malgrado l’egoismo che ci provvede di energia, una delle nostre giornate?». La risposta, netta, era: «È unicamente da giorni di partecipazione ch’io conservo un ricordo inconfondibile. Del 25 luglio, per esempio. Del 25 aprile (…)».

Nel 1954, quando scrisse queste parole, Vittorini era uno dei più noti e influenti intellettuali italiani. Dopo aver militato nella Resistenza, e aver aderito al Partito Comunista, ne era uscito perché il suo eclettismo, e soprattutto quello della rivista che dirigeva, “Il Politecnico”, era stato oggetto di critiche durissime da parte di Palmiro Togliatti. A leggerle oggi, le riflessioni di Vittorini ci colpiscono per la sicurezza con cui egli afferma la superiorità della gioia condivisa rispetto al piacere individuale. Si intuisce che sullo sfondo ci sono le assunzioni di una cultura che attribuisce un valore molto alto alla dimensione collettiva dell’esperienza: alla politica intesa come partecipazione, impegno in vista della realizzazione di ideali.

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Noi che viviamo in un’epoca di scetticismo nei confronti della politica fatichiamo a riconoscere la buona fede di quelle assunzioni. Più che i nipoti di Vittorini siamo eredi di Longanesi e Flaiano. Al solo sentire la parola “impegno” in relazione alla politica cominciamo a sospettare la fregatura. Ci si impegna nello sport, oppure nel lavoro, nella misura in cui esso ci consente di avere una carriera, di emergere, di diventare un’eccellenza.

L’impegno buono è solo quello della formula della meritocrazia di Michael Young (una satira che anni fa l’autore di un libro molto popolare nel nostro paese aveva preso sul serio: quale migliore illustrazione della tesi di Young?). Eppure non ci vuole molto per rendersi conto che per la generazione di Vittorini l’impegno politico era una cosa seria. Qualcosa per cui tanti scelsero di rischiare la vita, combattendo nella Resistenza, e di mettere in gioco il proprio talento nel dopoguerra. Non per fare carriera, ma per ricostruire il Paese, nella speranza che diventasse meglio di quello che era stato nel ventennio precedente. Ovviamente c’erano anche allora gli opportunisti e i farabutti, e anche quelli che non lo erano qualche volta saranno venuti meno ai propri princìpi.

Ma non è guardando soltanto dal buco della serratura che si comprende la storia. L’Italia della seconda metà del Novecento, il suo straordinario progresso economico e sociale, non si spiega soltanto richiamando la comprensibile e legittima voglia di arricchirsi. L’energia dell’egoismo, per riprendere l’espressione di Vittorini, si accompagnava alla motivazione degli ideali.

Credo che questa affermazione valga non solo per la sinistra. La Democrazia Cristiana aveva i suoi ideali, come li avevano i partiti laici e, bisogna riconoscerlo, anche la destra, persino quella estrema. Ideali criticabili, in qualche caso inaccettabili, ma questa era la politica al tempo delle “ragioni calde” dell’impegno. Alla fine del Novecento grandi cambiamenti sociali sembrano affermare l’avvento di una diversa concezione della politica, basata sull’idea che le “ragioni fredde” e impersonali dell’interesse siano sufficienti a tenere insieme la società.

Non è un caso che proprio in quegli anni si affermi anche da noi un nuovo modo di concepire il partito politico, di cui il Pd fu qualche tempo dopo l’esemplificazione meglio riuscita, e forse l’unica, per via della “discesa in campo” di Berlusconi. Nel nuovo tipo di partito, la vecchia idea di impegno, quella dei militanti delle Feste dell’Unità su cui si è fatta tanta ironia (ma anche quella degli intellettuali, dei professionisti, dei quadri aziendali che offrivano le proprie competenze al servizio di una causa), veniva messa in secondo piano, e poi tacitamente abbandonata, per sostituirla con una partecipazione “light”, di cui le cosiddette “primarie” sarebbero state il fulcro. Come ha spiegato nei giorni scorsi Arturo Parisi, la cosa appariva del tutto ragionevole a quel tempo. Gli elettori, in particolare quelli delle nuove generazioni, si stavano allontanando dalla politica, che oltretutto appariva in crisi grave per via di Tangentopoli, e quindi era necessario trovare un modo per riavvicinarli. Specie per via della novità della proposta: quando nacque, il Pd non poteva contare su simboli e parole d’ordine ben rodate. Bisognava ripartire da un insieme di principi condivisi, ma non si poteva specificarli troppo nel timore che questo mettesse in crisi l’equilibrio precario tra componenti diverse che si stava tentando di costruire. Le primarie sembravano la soluzione giusta per questo problema, e in effetti funzionarono.

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A una settimana dalle primarie che hanno portato all’elezione di Nicola Zingaretti come leader del Pd sono in molti a sostenere che il metodo è ancora buono. Non sono d’accordo. Che in questo caso la scelta sia caduta sulla persona che appare più adatta a guidare il partito in un momento difficile, tirandolo fuori dal vicolo cieco in cui lo aveva cacciato Matteo Renzi, non è una buona ragione per ritenersi soddisfatti. Anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno. La verità è che le primarie si sono rivelate un metodo profondamente disfunzionale per la selezione di un leader, come hanno sostenuto diversi studiosi di queste cose, da Piero Ignazi a Antonio Floridia (vedi il suo libro recente sul Pd: “Un partito sbagliato”, Castelvecchi 2019).

Le primarie hanno infatti finito per imporre un modello plebiscitario di democrazia all’interno del partito, dove conta l’autorizzazione al comando più di ogni altra cosa. Hanno disincentivato la partecipazione dei militanti (perché dovrei partecipare alla vita del partito se alle primarie il mio voto conta quanto quello di un passante che versa i suoi due euro per acquisire il diritto a esprimere una preferenza?). Hanno reso sempre meno importante la cultura politica rispetto alla personalità del leader. Tutte tendenze che hanno reso negli ultimi anni il Pd un partito a rischio di deriva populista.

Da dove ricominciare allora? Io credo che più che alle primarie dovremmo pensare alla manifestazione di sabato 2 marzo a Milano. Un atto politico, di partecipazione gratuita, su base ideale, che ha spinto tante persone a impegnarsi scendendo in strada. Certo quello non è stato che un primo passo, e non possiamo immaginare che sia sufficiente. Ma la strada per ricostruire dal basso forme di azione collettiva che gratifichino la disponibilità a partecipare (la gioia di cui parlava Vittorini), per mobilitare i cittadini in difesa di una causa, mi sembra quella giusta. Come mostrano anche le esperienze del Regno Unito e degli Stati Uniti, la sinistra democratica deve riappropriarsi della propria tradizione solidarista se vuole opporsi con la forza necessaria al nazionalismo populista.

Michael Walzer, uno dei pensatori più acuti della sinistra statunitense, ha scritto che «nessuno che sia stato attivamente coinvolto in politica può credere che l’accordo razionale o il calcolo degli interessi esauriscano l’idea dell’impegno politico». Avremo quindi bisogno di simboli e parole d’ordine, di una lingua che sappia scuotere le coscienze, e di facce credibili che imparino a usarla. Tutte cose che non si imparano solo frequentando un master (anche se studiare serve, e Zingaretti farà bene a circondarsi di persone competenti in tutti i campi, non solo quello economico). La strada è lunga, e la meta è lontana. Ma solo se sapremo trovare dei compagni di strada potremo trovare il coraggio di affrontare il viaggio. L’alternativa è accettare che non c’è alcuna prospettiva di miglioramento delle cose che passi attraverso una riscoperta della gioia condivisa. Rassegnandoci, se siamo fortunati, a essere felici soltanto ognuno per conto suo, compiaciuto della propria autosufficienza.