Intervista a tutto campo al nuovo segretario generale del sindacato. Che spiega le sue strategie. "C’è un problema di ribellione collettiva e solidale che dobbiamo costruire nel mondo del lavoro, tornando alle radici del sindacato"

Maurizio Landini
La domanda di un cambiamento che arriva dalla società, il ruolo centrale che il mondo del lavoro vuole riconquistarsi, l’opposizione al governo gialloverde, il giudizio sul nuovo Pd di Nicola Zingaretti. Ma anche i ripensamenti sulla Tav e le difficoltà di aprire il sindacato ai più giovani.

Il nuovo segretario generale della Cgil Maurizio Landini, eletto il 24 gennaio scorso, è venuto nella redazione dell’Espresso per sottoporsi a una lunga intervista incrociata da parte dei nostri giornalisti. Landini spiega le prossime operazioni dell’organizzazione e le sfide, anche culturali, che intende affrontare. Con una parola d’ordine che torna spesso: unità. Tra i sindacati, nel mondo del lavoro, nel Paese che rischia di vedersi diviso dalla cosiddetta e ancora oscura “autonomia differenziata”.

La manifestazione dei sindacati del 9 febbraio in piazza San Giovanni a Roma, il corteo delle associazioni a Milano, le primarie del Pd. Nuovi leader e un nuovo movimento nelle piazze. È la chiusura di una fase complicata, un tentativo di ripartenza, di ricucire alcune fratture: come leggere quello che sta succedendo?
Sono tre manifestazioni diverse, ma credo ci sia un tratto comune, la necessità di opporsi alle politiche economiche e sociali che il governo sta mettendo in campo. Un governo che ha fatto della parola cambiamento addirittura un contratto tra forze politiche contrapposte alle elezioni. Il cambiamento non sta avvenendo. Il tratto comune è una nuova domanda di partecipazione, di farsi protagonisti. Poi ci sono anche delle differenze.

Iniziamo da Piazza San Giovanni.
La manifestazione sindacale è stata unitaria dopo anni di divisioni che hanno impedito di fare argine all’arretramento di diritti. Ma nella manifestazione c’erano anche proposte su come uscire da questa crisi. Idee discusse al nostro interno e poi avanzate al governo che non ha mai accettato di aprire un confronto su questi temi. Siccome non ci ha ancora risposto, non finisce qui. Nelle prossime settimane avremo scioperi nazionali di categoria già previsti e un crescendo di mobilitazioni. Dopo anni arriveremo, a giugno, a una grande manifestazione nel Mezzogiorno, perché crediamo che serva un grande piano di investimenti sul Sud per far ripartire il paese.

Intanto però il governo sta cercando di “farsi sindacato” sia su pensioni che su reddito di cittadinanza. Dice: quello che non riescono a fare le parti sociali lo facciamo noi e non abbiamo bisogno di loro.
C’è questa idea, non nuova, della disintermediazione. Far credere che non sia utile fare sindacato per risolvere i problemi, non convocare nessuno al ministero oppure chiamare tutti i sindacati, compresi quelli con quindici iscritti. Ma è un’idea sbagliata, perché in un Paese democratico la complessità la affronti dando rappresentanza a tutto ciò che è rappresentabile. Su questo vedo una continuità tra gli ultimi governi: stanno sbagliando, come Matteo Renzi con il Jobs Act. Ma la disintermediazione, dopo dieci anni in cui è stata di moda, ora sta mostrando la corda: c’è una tale complessità di problemi che non è più possibile semplificare. Chi semplifica sta raccontando balle alle persone e usa una logica un po’ autoritaria del potere.

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Quindi c’è un bisogno nuovo di “corpi intermedi”?
Assolutamente sì. Non ho mai visto il mondo del lavoro così diviso e frantumato come adesso. La gente si sente sola, ha paura. Il sindacato deve tornare a fare il sindacato, ritornare alle origini, alla fine del 1800 quando nascevano le camere del lavoro dove andavano tutti, anche chi non sapeva leggere. Abbiamo fatto cambiamenti importanti, su altri stiamo lavorando e discutendo al nostro interno. Uno degli obiettivi deve essere costruire una nuova unità del lavoro e sindacale. Ora che non ci sono i partiti storici, le ragioni partitiche che giustificavano questa divisione (tra le tre grandi sigle sindacali ndr) non ci sono più. E poi oggi il problema non è solo aumentare salari e orari, che sono comunque temi importanti visto quanto sono bassi i salari nel nostro Paese: bisogna aprire una discussione anche su cosa fai, cosa produci e con quale sostenibilità ambientale. Un cambiamento radicale, un processo che ha bisogno di una mano pubblica che indichi la via e faccia le regole, ma anche del coinvolgimento dei lavoratori. Troppi oggi vogliono negare al mondo del lavoro una soggettività non solo sindacale, ma anche politica più generale.

Tornare a fare il sindacato, lei dice. Quando ha smesso di farlo?
C’è stata una divisione che ha portato agli accordi separati che ci hanno indebolito. C’è stato un cambiamento del lavoro che si è evoluto e c’è stato un ritardo da parte nostra nel recepirlo. La carta dei diritti che abbiamo approvato per noi è un cambiamento culturale e un modo per ammettere questo ritardo. Oggi non chiediamo più di eliminare il Jobs Act per tornare allo statuto del 1970, ma chiediamo un nuovo statuto in cui i diritti siano in capo alla persona, indifferentemente dal lavoro che fa, e che i contenuti dell’articolo 18 vadano sì ripristinati, ma anche estesi.

A proposito di Jobs Act, una delle critiche che più spesso viene mossa alla Cgil riguarda la sua morbidezza al momento del passaggio della legge del governo Renzi.
Noi abbiamo fatto uno sciopero generale con la Uil il 12 dicembre 2014 e il giorno dopo Renzi disse che se ne sbatteva e andava avanti. Le leggi le fa il Parlamento, non il sindacato, che quelle leggi subisce. In più ci sono state tante altre mobilitazioni. E dopo abbiamo deciso di raccogliere firme per il referendum abrogativo: siamo arrivati a questo e non è il nostro mestiere. Aggiungo un’ultima cosa: Renzi ancora pensa di aver perso le elezioni per colpa nostra. C’è chi si chiede dove eravamo e chi ci accusa di averlo fatto cadere. Si mettano d’accordo.

Passiamo da Renzi e dal suo governo al nuovo esecutivo con Luigi Di Maio ministro del Lavoro. Non vi convoca, su Ilva si è intestato il successo della trattativa, con il reddito di cittadinanza sembra dire “il lavoro lo creo io”, ora c’è il caso Alitalia. Come giudica la sua attività?
Su Ilva c’è stata una trattativa sindacale in cui il ministro ha svolto un ruolo positivo per raggiungere l’intesa, in particolare sugli investimenti per la sostenibilità e sulle assunzioni. Quell’accordo però non lo ha firmato il ministro, ma i sindacati, i commissari e l’impresa. Gli riconosco dei meriti, ma ricordiamo 5 anni di lotte dei lavoratori grazie ai quali oggi puoi parlare di un’azienda siderurgica che investe miliardi nell’impatto ambientale come non c’è da nessun’altra parte al mondo. Su Alitalia ci hanno appena comunicato che si rafforza la presenza pubblica dentro l’azienda. Ma questo, in sé, non è che cambi molto. Se è pubblica è meglio, ma se non hai un piano industriale e non fai investimenti, poi abbiamo da gestire dei licenziamenti. Cosa cambia? Pubblica per fare cosa?
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Come valuta le soluzioni proposte per l’uscita dalla crisi economica?
Il governo ci riconosce un ruolo solo se c’è una vertenza sindacale. Noi chiediamo di essere ascoltati anche su altro ma non accetta che tematiche fondamentali come la politica industriale possano essere discusse con il sindacato. Ci sono due argomenti su cui l’esecutivo sta lavorando e che fanno capire come stia sbagliando nell’affrontare la crisi: il codice degli appalti e l’autonomia differenziata. Sugli appalti, dicono che devono sbloccare i cantieri. Ma invece di tagliare la burocrazia e accelerare i tempi intervengono su quella norma che impedisce di cedere in subappalto più del 30 per cento dei lavori, per arrivare al punto in cui si potrà dare tutto in subappalto. E sempre su questo tema vogliono modificare le norme che prevedono l’applicazione del contratto prevalente più vantaggioso per il lavoratore: così permetterebbero all’impresa di fare come vuole. Se passano logiche di questo genere vuol dire che è solo il mercato a decidere. E poi c’è l’autonomia differenziata che per noi è proprio sbagliata. Non mettiamo in discussione l’autonomia prevista anche dalla Costituzione. Ma il Paese è uno: il diritto allo studio, alla salute, all’ambiente deve essere uguale in tutta Italia. Ci sono dei diritti minimi che devono essere garantiti a tutti prima di parlare di autonomia. Di più: proclamare che così ogni regione si tiene i suoi soldi è una presa in giro. Perché chi paga le tasse continua a pagarle, chi non le paga continua a non pagarle, chi paga il 10 e chi il 40 per cento e i grandi patrimoni che non vengono toccati. Serve invece una grande riforma fiscale.

Sta invocando una patrimoniale?
Chiamiamola come vogliamo, non mi impicco a nessuna parola. Lo dice perfino il Fondo Monetario che le disuguaglianze stanno mettendo a rischio il nostro modello di società, e una certa tassazione determinerebbe la possibilità di avere risorse per fare investimenti. I provvedimenti per contrastare la povertà o modificare il sistema pensionistico, senza intervenire sulle entrate significano solo che sempre gli stessi pagano. Va messa in campo una riforma fiscale degna di questo nome che da un lato riduca la tassazione tra quelli che pagano già, ma che intervenga anche su tutte le forme di ricchezza che oggi esistono, da reddito e non solo. Ma è un problema che va affrontato anche in Europa, solo che il governo ha fatto una finta discussione. Non la cambi da solo, ma con le alleanze. E non ti allei con quei Paesi che ora in Europa fanno i muri e prima hanno preso i soldi europei per delocalizzare il lavoro o fanno leggi per rendere obbligatori gli straordinari. Anche le elezioni europee possono essere importanti e infatti stiamo lavorando a una manifestazione dei sindacati europei il 26 aprile a Bruxelles.

Europa vuol dire anche Tav. Lei in passato si era espresso negativamente ma ora ha rivisto la sua posizione.
Se uno è segretario generale della Cgil deve presentare il pensiero maggioritario della Cgil, anche contro il suo pensiero personale. Bruno Trentin era contrario all’aumento uguale per tutti nel contratto del 1969, ma è stato lui a battersi per ottenerlo. La discussione della Cgil indica una cosa molto precisa, che non c’è una contrarietà. Non dimentichiamo però che il governo italiano non ha ancora espresso la sua posizione. E intanto oltre alla Tav sono bloccati tutti gli altri cantieri, non solo le grandi opere e in questi anni si sono persi 600 mila posti di lavoro tra gli edili.


Restando in tema Tav, come valuta la scelta di Nicola Zingaretti, come primo gesto, di andare a Torino per parlare di Alta velocità.
Non mi metto a giudicare gli atti politici che fa un segretario di partito, è una sua valutazione. Mi limito a osservare che quando sono diventato segretario generale io, le prime cose che ho fatto sono state andare al congresso dell’Anpi per dire che vengo da lì e che il tema dell’antifascismo andava affrontato, e al Cara di Bari per dire che chiuderlo e mandare per strada chi ci vive e a casa chi ci lavora era sbagliato. Però credo che dividere il mondo tra chi è pro Tav e chi è contro sia una di quelle semplificazioni che non serve a nulla. Zingaretti nelle prime interviste ha parlato anche di tanto altro.

Torniamo così all’ultima delle tre piazze, quella delle primarie.
Che un milione e seicentomila persone, la maggioranza delle quali neppure iscritta a una partito, decida di andare a votare e far prevalere il candidato che più di tutti si pone il tema di discontinuità rispetto al passato recente di quel partito, mi pare anche questo parte di quella domanda generale di cambiamento di cui abbiamo parlato. Ripartire da un’idea di rappresentanza del lavoro e di ricostruzione dei diritti è necessario e importante, per i lavoratori innanzitutto e per quella stessa forza politica, se vuole rappresentare quel mondo che non è più rappresentato. In fondo è questa una delle cause della crisi della sinistra, In Italia e in tutta Europa.

La sinistra, appunto. Sta davvero rinascendo come alcuni segnali potrebbero far pensare oppure ci stiamo solo illudendo?
È cambiato il significato della parola sinistra: negli anni ’70 significava speranza, e ora è diventata la causa del problema. Chi era precario con la destra lo è rimasto con la sinistra e quando Renzi era al governo diceva che la cosa più di sinistra che aveva fatto era il Jobs Act. Lo ripeto, si è rotta la rappresentanza del mondo del lavoro proprio ora che il numero di persone che ha bisogno di lavorare per vivere non è mai stato tanto grande. Ma a questa domanda di partecipazione si può rispondere nello stesso modo e nelle stesse formule del passato? Forse no.

A proposito di sinistra e lavoro, Di Maio ha proposto al leader del Pd di firmare la legge 5 Stelle sul salario minimo.
Non siamo contrari al salario minimo come concetto, ma visto che tra l’80 e il 90 per cento dei lavoratori italiani è coperto dai contratti nazionali, noi proponiamo di rendere quei contratti “erga omnes”, che valgano cioè per tutti. In questo modo oltre al salario anche altri aspetti come le ferie diventerebbero per legge i minimi sotto cui non si può andare, minimi non fatti dal Parlamento ma dalla contrattazione tra le parti. Basterebbe recepire gli accordi interconfederali. Se invece il Parlamento stabilisce un salario che prescinde dalla contrattazione e che può essere persino più basso dei limiti contrattuali, diventa una norma di legge che contrasta la contrattazione collettiva. E proprio in un’ottica di rafforzamento della contrattazione che abbiamo anche chiesto di misurare la rappresentanza dei sindacati così che che gli accordi abbiamo validità generale. Eravamo d’accordo tutti, sindacati e confederazioni. Il governo doveva fare la convenzione con l’Inps per accedere ai dati che certificassero iscritti al sindacato e contratti applicati dalle aziende. Ma l’esecutivo ha bloccato tutto. E poi viene a raccontare che ci sono privilegi e non c’è rappresentanza.

Parliamo di rappresentanza allora. Per chi è più giovane o ha contratti precari la Cgil e i sindacati vengono percepiti spesso come forze che hanno tutelato solo chi il contratto lo ha.
Questo problema c’è tutto. Quando io a 15 anni sono andato a lavorare, mi sono ritrovato assunto con contratto da apprendista e ad avere dei diritti. Non li avevo conquistati io, e quando ho capito che lo avevano fatto quelli prima di me, anche per me, ho trovato naturale iscrivermi al sindacato. Oggi a un giovane, per lavorare, chiedono di chi sei figlio, e quanto sei disposto a spendere? Le forme di lavoro sono quelle precarie, se ti va bene passi anni prima di essere stabilizzato, non hai diritti, ferie e malattia. Questi giovani vedono chi ha diritti e pensano sia un loro concorrente. Allora io mi devo battere e fare scioperare anche quelli che hanno diritti per estenderli a chi non li ha. Ma la storia ci dice anche che chi era senza diritti si è ribellato per conquistarli. I driver di Amazon che hanno scioperato a Milano la scorsa settimana hanno dovuto bloccare le consegne per due giorni altrimenti non li ascoltava nessuno: ora però c’è un tavolo con le aziende. C’è un problema di ribellione collettiva e solidale che dobbiamo costruire nel mondo del lavoro, tornando alle radici del sindacato, pensando anche a forme di mutualismo come ai tempi delle camere del lavoro. La risindicalizzazione è anche una conquista culturale perché se la singola persona non decide che è meglio organizzarsi insieme ad altri per affrontare i suoi problemi, il sindacato non esiste.