Inchiesta
La destra trionfa anche sui social network, mentre la sinistra non ha capito nulla
Matteo Salvini pigliatutto. Luigi Di Maio insegue. Giorgia Meloni in crescita. Invece il Pd, Nicola Zingaretti e tutto il mondo riformista (con minime eccezioni) sembrano indietro di decenni. Dossier su strategie, guru e fallimenti dei leader sul web. Con tutti i numeri a 40 giorni dal voto
Per fortuna del Pd, c’è un mondo fuori dalla rete. Se per le prossime elezioni europee ci si dovesse attenere a quello che accade sul web, il partito guidato da Nicola Zingaretti avrebbe problemi pure a superare la soglia di sbarramento. La storia e i perché partono da lontano, affondano nelle radici culturali delle varie formazioni, nelle personalità dei loro leader, ma anche, come si vedrà, nelle caratteristiche di coloro che tirano i fili della web-propaganda. Per avere una prima idea bastano alcuni numeri.
La tabella che classifica i primi quindici politici italiani per potenza social, elaborata dall’Espresso sulla base dell’attività dell’ultimo mese, è spietata: Matteo Salvini domina la scena, senza discussioni. Con oltre 11 milioni di interazioni (la somma di commenti, like, condivisioni), 3,5 milioni di follower e quasi 17mila like per post, da solo il leader leghista totalizza le interazioni di tutti gli altri politici messi insieme. In questa classifica Nicola Zingaretti arriva tredicesimo. Dopo Gianluigi Paragone, dopo Luca Zaia. In pratica, il segretario del Pd se la batte con Marco Furfaro, il coordinatore di Futura. E con questo forse s’è detto tutto.
Dell’intero mondo della sinistra, nelle prime posizioni, oltre e meglio di loro ci sono Laura Boldrini, ex presidente della Camera eletta con Sel (oggi in avvicinamento al Pd) e, più in alto, l’ex premier Matteo Renzi. Fine. È sorprendente anche quel che accade a destra: a guardare la faccenda dal punto di vista del web, risulta infatti chiaro che Giorgia Meloni sta prendendo la rincorsa. La leader di Fratelli d’Italia, un partito che alle politiche del 4 marzo 2018 ha preso il 4,3 per cento e alle scorse europee non ha eletto parlamentari, risulta infatti adesso terza per interazioni (1,8 milioni), subito appresso a Salvini e Di Maio, in un mondo nel quale Lega e Cinque stelle marciano a braccetto, vincenti.
MARCIARE DIVISI, COLPIRE UNITI
Nella realtà della rete corre infatti un sistema parallelo, che in qualche punto si discosta da ciò che accade nella realtà vera, quella che si vede e si tocca. Lo si capisce bene nel caso di Luigi Di Maio. Il leader dei Cinque stelle, infatti, non attacca la Lega sul web. Per strano che possa sembrare – vista la battaglia politica non propriamente d’assalto svolta dall’opposizione – il ministro del Lavoro attacca il Pd. Su dieci post, otto di media sono dedicati alle «cose fatte» da governo e maggioranza, gli altri due, a scelta, parlano del neo tesoriere Luigi Zanda o dei consiglieri regionali del Pd che vogliono il vitalizio.
[[ge:rep-locali:espresso:285330007]]
Con un deciso cambio di passo, invece, il vicepremier se la prende con la Lega sui media tradizionali: telegiornali e quotidiani. Ad esempio, nel giorno in cui Di Maio diceva in favore di telecamere e taccuini che «i campi rom li hanno aperti i leghisti», sulla pagina ufficiale del Movimento campeggiava il seguente post: «La grande ammucchiata. Il Pd torna al passato». Sotto, modello bolliti-ma-inquietanti, le foto di Giuliano Pisapia, Carlo Calenda, Roberto Speranza e Simona Bonafé. Contro Salvini, nulla. Non è un caso che la combo Lega- Cinque stelle sia diventata una cosa sola persino a livello degli scherzi on line: l’altra settimana, per qualche giorno, digitando www.m5s.it si finiva dritti dritti sul sito ufficiale della Lega. In prospettiva, il massimo della svolta concepibile - ma giusto perché ci sono le europee - è che i due partiti di governo si mettano d’accordo per far finta di odiarsi.
GIALLO VERDI, UNA RETE SOLA
Non si può escludere che accada. Il modo di muoversi sulla rete è del resto tutt’altro che casuale, e anzi corrisponde a una precisa disposizione non solo politica, ma anche antropologica. Non è solo questione di linea, ma di forza lavoro. Anche (e forse soprattutto) sul fronte della comunicazione, c’è infatti un mondo che si muove a cavallo fra i due partiti. Fatto di attivisti poi diventati membri di staff, anche a partire dal vasto mondo delle pagine unofficial, così come di professionisti trasversali che imparano da una parte, e poi mettono a frutto il loro sapere dall’altra. Sotto i vasti ombrelli capitanati lato leghista da Luca Morisi, che adesso è consigliere strategico per la comunicazione per il ministro dell’interno (65 mila euro l’anno), e lato grillino da Pietro Dettori, che ora guadagna 130 mila euro l’anno come responsabile social ed eventi del vicepremier M5S: due protagonisti sottotraccia di questa epoca che per età, sommati, non arrivano agli anni di Berlusconi. Lega e Cinque stelle sono del resto mondi che si toccano a vari livelli: accade anche in questo. Lo storico social media manager della Casaleggio Associati, Pietro Dettori, per dirne una, considerava il giornalista Marcello Foa un «amico», già nel 2014, molto prima cioè che questi diventasse presidente della Rai giallo-verde. E suo fratello Marcello Dettori, anima del sito Silenzi e falsità, collaborava con lui già nel 2016. Prima cioè che il figlio di Foa, il venticinquenne Leonardo, andasse a lavorare con Morisi (adesso è nell’ufficio stampa di Salvini al Viminale, per 42 mila euro l’anno).
La casistica di questo mondo di mezzo è varia. L’esempio paradigmatico è quello di Marco Mignogna, imprenditore di Afragola che, come scoprì il debunker ed ex dipendente di Casaleggio David Puente, risultava intestatario di siti web legati sia ai grillini, sia a Noi con Salvini: sotto i riflettori a fine 2017 perché rappresentava plasticamente la contiguità tra i due mondi, se la cavò dicendo che era passato da una passione all’altra, dai grillini ai leghisti, che nel passaggio aveva «lasciato la gestione dei siti dei Cinque stelle ad altri pur essendone ancora il proprietario», e che aveva poi costruito il sito Noi con Salvini con gli stessi codici Adsense usati per i grillini per una mera «svista». Più di recente, c’è un fenomeno leggermente diverso, esemplificato con il caso di Claudio Messora: grillino ante litteram, tra il 2012 e il 2013 divenne uno dei punti di riferimento e poi il capo della comunicazione al Senato, per essere nel 2014 spedito a Bruxelles e poi allontanato anche da lì. Ebbene adesso Messora è rientrato nell’area della maggioranza, segmento “no-euro”. Le ultime interviste della sua web tv Byoblu – peraltro elogiata dal direttore di Raidue Carlo Freccero durante l’audizione alla Camera- sono fatte alle seguenti persone: il turbo-cantore del sovranismo Diego Fusaro, il sottosegretario euroscettico agli Affari europei Luciano Barra Caracciolo, l’onnipresente saggista economico Antonio Maria Rinaldi.
E ALLORA IL PD?
Una cosa è certa. Alla rete Lega-Cinque stelle, comunque i suoi intrecci siano configurati, continua a convenire parecchio attaccare il Pd: lo dice, prima di tutto, il successo che ottiene in rete. La vera tragedia – anche per una questione di equilibri complessivi - è che il Pd ancora non ha capito come reagire. E forse, tolti la predisposizione social di Matteo Renzi e, più di recente, l’arruffato protagonismo di Carlo Calenda, non è nemmeno sicuro di volerlo fare davvero. Lontano anni luce dall’invasione dei social nella vita reale, rifiuta di affrontarla: tende a considerarlo un universo cheap e violento, troppo lontano dai propri standard, e lo respinge d’istinto. Un esempio su tutti. Appena insediato il neo segretario Zingaretti è stato capace di dare la delega della comunicazione social ad Andrea Martella. Un ex parlamentare che in pratica non usa i social: quando fu nominato, a metà marzo, non twittava da luglio, e non aggiornava il profilo facebook da agosto. Avvedutosi della gaffe, dopo qualche ora il neosegretario lo ha sostituito con Marco Miccoli, 58 anni, ex sindacalista e deputato di una qualche fama per avere, nel 2014, presentato una interrogazione sull’arbitraggio Roma-Juve, che adesso, volenterosamente, esibisce sulla foto profilo di Facebook il logo Pd per le europee (un logo così brutto che persino la pagina ufficiale dei dem non fa altrettanto).
Nel suo complesso, l’episodio chiarisce la linea oltre ogni dubbio. Il nuovo Pd crede talmente nei social che Zingaretti pubblica due post e mezzo al giorno, mentre Salvini ne totalizza quindici, cinque volte di più. Lo stessa proporzione si rispecchia nei partiti: il Pd come partito ne produce 6, i Cinque stelle 16, la Lega 75. Non si tratta di una gara: il fatto è che più post si fanno, più gente si raggiunge. Sui social il volume conta, e tanto. Ma i numeri dicono che sinora il nuovo segretario del Pd non ha neanche deciso di giocarla, la partita. Il che è particolarmente significativo, visto che la campagna elettorale è alle porte.
Sembra tuttavia dimenticata l’autocritica svolta durante le primarie, quando intervistato da Fanpage Zinga disse: «Servono nuove idee e nuove formule per contrastare l’egemonia che i populisti sono stati capaci di costruire nell’uso della rete. A questa nuova realtà digitale noi democratici abbiamo risposto in modo contraddittorio e perdente». Parole al vento, per ora almeno. A seguire sulla rete il neo segretario continua a essere Carlo Guarino, che c’era già prima, mentre al partito il team-web è composto da cinque persone, non specializzate, in cassa integrazione all’ottanta per cento. Non risulta sia stato sostituito Alessio De Giorgi, il tuttofare web che Renzi aveva assunto sei mesi prima della tragedia del referendum costituzionale. «Ringrazio il cielo di non aver dovuto gestire le due shitstorm autoprodotte del “balzo in avanti” in Basilicata e dell’aumento dello stipendio dei parlamentari. No, non ce l’avrei fatta», scrive adesso De Giorgi su Facebook. A testimoniare non solo la solita ariaccia da coltellate che tira nel Pd, ma anche un ulteriore limite che ne zavorra l’immagine e, quindi la capacità espansiva. Una occasione dolosamente mancata, anche per li rami: non è stato rinnovato neanche il contratto del quarantenne Daniele Cinà, uno degli influencer più noti di sinistra, con una pagina Facebook da oltre 100 mila fan, in forze al Pd della camera nella scorsa legislatura.
Sono del resto gli stessi maggiorenti a guardare il mondo dei social con diffidenza: detentori magari di un potere misurabile nella realtà fisica, non sopportano che la questione «quanto sei radicato sul territorio» sia sostituita da «quanti follower hai». Anche perché follower ne hanno pochini. Leggendario, in questo senso, fu il giorno in cui Dario Franceschini decise di intervenire per denunciare la campagna renziana del #senzadime (cioè no all’alleanza con M5S): l’ex ministro della Cultura disse esplicitamente che un pezzo del Pd utilizzava strumentalmente i social per attaccare i capi del partito. Il capo-corrente si sentiva minacciato dai capi-hashtag.
A mala pena capace di diventare trend, bravissimo invece a farsi beccare subito quando prova a truccare la partita (da record il caso dei cosiddetti «zingabot»: beccati al sesto tweet), pur avendo triplicato i contatti negli ultimi due anni il partito democratico non riesce nemmeno a dotarsi di una comunità digitale.
Costruire una identità social che superi le singole personalità e la guerra tra le correnti. Utile il raffronto coi Cinque stelle, struttura multipla e più paragonabile rispetto a quella della Lega, che è tutta accentrata sulla figura di Salvini. Nel Movimento il consenso digitale viene palleggiato abilmente tra i singoli, e la presenza social viene strutturata come una rete in cui ogni nodo rafforza gli altri, ma nessuno è in grado di indebolire la struttura: al momento, ad esempio, le pagine di grillo e di Di Battista sono in «stand by», o comunque sono diventate non organiche al partito, ma la galassia cinque stelle non ha per questo subito particolari contraccolpi (Beppe Grillo ha perso 7mila fan su Facebook, Di Battista ne ha guadagnati 12mila. Per fare un confronto: Salvini ne ha guadagnati 1.2 milioni e Di Maio 400mila). Nel Pd, invece, si sta in una specie di deserto: l’unico big è Matteo Renzi, che tutt’ora nonostante si trovi in una fase da panchina resta il leader più social, e si colloca decimo con 350 mila interazioni al mese: il doppio di Zingaretti, e con il quadruplo dei fan. E la sua è una base personale, pronta a trasferirsi appresso al leader nel caso decidesse di formare un nuovo partito.
È questa dote, d’altra parte, che sta facendo la fortuna (relativa) di Laura Boldrini. L’unica donna di sinistra che sia riuscita a salire così in alto in classifica, è all’avanguardia perché, in pratica, ha dovuto affrontare la questione social dalla notte dei tempi, essendo diventata il perfetto capro espiatorio dei difetti della sinistra sin dalla sua elezione nel 2013. Passata la spinosa fase della presidenza della Camera – un ruolo decisamente non nelle sue corde – da un anno Boldrini è sotto le cure di Flavio Alivernini, l’unico collaboratore che ha conservato insieme con Carlo Leoni, il suo ex consigliere politico. Trentanovenne, ex collaboratore di Limes e della Stampa, Alivernini in maniera più artigianale ha pian piano capovolto gli equilibri social della ex presidente. Nelle scorse settimane è riuscito persino a togliere per un momento lo scettro social dalle mani di Salvini. «Sconfitta la Bestia», ha titolato qualcuno con eccesso di entusiasmo. Prevedibile la vendetta della Bestia.
BESTIOLINA
«Bestiolina» è invece il soprannome di Tommaso Longobardi, il social media manager che è alla base del successo di Giorgia Meloni. Un caso da tenere sott’occhio. La leader di Fratelli d’Italia, pur guidando un partito che non sfonda sui social, ha alzato molto il suo livello. In un mese ha pubblicato 103 video, sfiora i due milioni di interazioni e, addirittura, è terza in classifica dietro a Luigi Di Maio. Il merito è soprattutto di Longobardi, appunto. Ventisette anni, detto la Bestiolina perché da quelle parti il caso di Luca Morisi e della cosiddetta Bestia fa scuola, velocissimo sulla rete e assai conteso, dal 2018 segue la leader di Fdi dopo aver passato un paio d’anni alla Casaleggio Associati, a lavorare cioè per uno degli incubatori principali di talenti social. Fa base alla Camera, così come anche i tanti della nidiata grillina, ma in realtà è un prolungamento della Meloni.
Con lui, da qualche settimana, lavora sempre ai social anche Alberto Danese, 29 anni, militante di Fdi. Non è fuori dalla cerchia Matteo Montevecchi: 25 anni, 86 mila follower, sovranista e tradizionalista, in passato consigliere Fdi a Sant’Arcangelo di Romagna, già un anno fa trollava il cardinal Ravasi contestandogli citazioni del Vangelo con tweet del tipo: «Usare il Vangelo per legittimare il business dell’immigrazione non è da cattolico. È da politicante». Da fine marzo è stato assunto dal senatore leghista Simone Pillon, autore dell’omonimo ddl che vuol riformare l’affido. Anche così, comunque, Meloni si è dotata di una rete social che può competere con quelle di Salvini e Di Maio. A questo proposito, per la serie “posizionamenti ante-litteram”, non va dimenticato che nell’ormai lontano 2015, per la corsa al Comune di Roma, Meloni formò proprio con Salvini la prima alleanza che teneva lontano Silvio Berlusconi.
MENO TASSE PER TUTTI
Proprio il Cavaliere, invece, resta abbastanza al palo per quel che riguarda l’universo social. Dei profili social di Forza Italia, per dire, si sta occupando Emanuele Ranucci, che di base lavora per il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ed è colui che lo ha convinto a postarsi su Instagram con un uovo in mano, agganciandosi così al fenomeno di Egg Gang e al trend topic del momento al solo fine di criticare il governo italiano («Non basta ricevere milioni di mi piace per saper governare, anche un uovo ci è riuscito. Andiamo oltre! #liketheegg», era il testo). Un utilizzo abbastanza advanced dei social, se misurato con la media degli azzurri, partito il cui sito è ancora nelle mani di Antonio Palmieri, che lo cura sin dai tempi di «Meno tasse per tutti», e il cui leader Silvio Berlusconi preferisce tutt’ora affidarsi ai manifesti 6x3. Ne ha appena inondato le città, a farci caso.