
A Livorno c’è, oltretutto, Gennaro De Tommaso, detto “Genny ’carogna”, condannato a 18 anni per traffico di droga, capo dei Mastiffs, frangia ultrà del Napoli, diventato famoso perché nel 2014 trattò con le autorità le modalità di svolgimento della finale di Coppa Italia tra la sua squadra e la Fiorentina, dopo gli incidenti e il ferimento di un suo compagno di fede, Ciro Esposito (spirerà in seguito).
E io voglio raccontare delle curve degli stadi jugoslavi, degli hooligan trasformati in zelanti miliziani dediti agli stupri, alle carneficine e alle esecuzioni sommarie. Non solo Genny, c’è anche Giovanni Mercadante, 70 anni, radiologo e docente universitario, 10 anni e 8 mesi di pena per associazione mafiosa, l’accusa, che ha sempre negato, di essere il medico del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano durante la lunga latitanza. E poi pluriomicidi, trafficanti internazionali di eroina e cocaina, camorristi, mafiosi. Molti di loro si sono laureati in galera, seguono gruppi di lettura, impiegano il tempo sui libri.

Sono stato per lavoro in altre prigioni, erano sempre edifici ben che vada ottocenteschi, scuri, tetri, l’architettura stessa che implacabilmente suggerisce di lasciare ogni speranza a chi ci entra. Alle Sughere, costruito nel 1984 dove la città muore nella campagna, la luce vince sulle comunque solide sbarre perché filtra da ampie finestre.
Non un luogo ameno, ovvio, ma senza l’oppressione aggiuntiva del buio perenne. La sala dove mi aspettano è gremita. Oltre alla sessantina di detenuti che hanno deciso di partecipare all’incontro, la giudice di sorveglianza Valeria Marino, il direttore Carlo Mazzerbo, qualche educatore, qualche guardia. Nessuna tensione, sembra la normale presentazione di un volume in un posto solitamente deputato. Ci sarebbe una sorta di cattedra, decido di mettermi in piedi, davanti a loro, per abbattere le barriere. Fuori si sente il rumore sordo di un pallone che sbatte contro il muro, stanno giocando al calcio, sarà la colonna sonora adatta e in sintonia col tema.
Visti da questa prospettiva i prigionieri sembrano tutti uguali o quasi. Scarpe da ginnastica, tute dal colore dominante blu. Spiccano alcuni ragazzi neri, uno in particolare dai capelli rasta, ben integrati sembrerebbe, laggiù verso il fondo della sala. Hanno volti ma non hanno nomi. E si faticherebbe a riconoscere quelli noti alle cronache, così diversi ormai dalle foto pubblicate sui giornali o sui siti Internet. La cella non ne ha stravolto i connotati, questo no, però ne ha mutato nel profondo le espressioni.
Dov’è lo sguardo truce e sfidante di Genny? Dov’è la posa sicura di sé del Giovanni Mercadante primario radiologo sempre ritratto in inappuntabile giacca e cravatta? Solo l’accento tradisce l’origine ed è una prevalenza di napoletano. Fin da prima che cominci il racconto. «Dicci di Maradona». Ed era la domanda attesa, magari non così presto. L’esergo del libro, in diversi lo hanno già letto, è una frase che Diego Armando Maradona mi disse nel lontano 1986 su un volo Milano-New York come risposta a una mia domanda di intervista: «Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria». Un evidente aforisma per rendere esplicita una verità che a lui, dio del football, sembrava chiara. Il calcio non è solo un gioco ma una partita che lo trascende perché investe l’economia, la finanza, la politica, la guerra persino.
Il napoletano che per primo ha rotto il ghiaccio mi fornisce l’assist per la narrazione del mio Faruk. Faruk Hadzibegic è stato il capitano dell’ultima nazionale di calcio della Jugoslavia. Al mondiale italiano del 1990 sbagliò il rigore decisivo contro l’Argentina di Maradona nei quarti di finale. È rimasto a lungo convinto che se avesse fatto gol, se i plavi avessero vinto la Coppa del Mondo, non ci sarebbero stati i conflitti balcanici degli Anni ’90, perché l’euforia collettiva nelle sei Repubbliche che formavano la Federazione sarebbe stata il collante contro l’implosione. Un’illusione. Lo stesso Faruk tempo dopo ha capito che il suo Stato si sarebbe sfasciato ugualmente. E tuttavia oggi i suoi ex connazionali gli rimproverano quell’errore fatale dal dischetto, lo considerano la causa finale scatenante. Un capro espiatorio, perché a noi umani piace semplificare vicende complesse: un rigore che causa una guerra è di immediata comprensione, ha persino un velo di romanticismo.
Spiego che il mio intento è stato quello di usare la vicenda per riflettere su cosa è la responsabilità individuale. Si può addossare al calciatore la colpa di 150 mila morti, tanti ne fece quella guerra, perché il portiere gli ha parato il tiro dal dischetto? L’uditorio è attentissimo. Intuisco che, nelle loro teste, Faruk è trasvolato. Fino a che punto lo scopro da quella che non è una domanda ma un’accorata perorazione. Un uomo sulla cinquantina, segaligno, capelli neri, barba sfatta, campano si è sentito toccato nel profondo. Attacca: «Questo Faruk avrà pur fatto qualcosa di buono, no? Ha giocato in nazionale, ha vinto dei campionati. Eppure sarà ricordato per quell’errore. È un po’ come noi. Se siamo qui dentro è perché abbiamo sbagliato e giustamente paghiamo. Ma siamo marchiati per sempre, noi siamo la nostra colpa e basta, non è giusto. Anche noi abbiamo fatto qualcosa di buono prima, lo faremo anche dopo».
Gli educatori mi confideranno che alcuni condannati hanno espresso amarezza perché all’epoca del delitto commesso c’era il loro nome e cognome a nove colonne sulla stampa, mentre quando si sono laureati, magari con 110 e lode, nell’ambito di articoli sul recupero e la rieducazione in carcere sono diventati anonimamente “un detenuto che ha ottenuto il massimo de voti”.
Continuo a non capire quale sia Mercadante. Genny forse si appaleserà adesso che affronto il tema degli ultrà. Come il serbo Zeliko Raznjatovic detto Arkan, peraltro passato anche dal penitenziario di San Vittore a Milano dove fomentò una rivolta, trasformò dei violenti supporter della Stella Rossa di Belgrado in assassini, feroci strumenti della pulizia etnica. Come gli hooligan della Dinamo Zagabria si arruolarono nella milizia neo-ustascia degli Hos. Come a Sarajevo per difendere la città assediata assoldarono curvaioli e persino galeotti. Come in generale il potenziale esplosivo delle curve sia servito, nell’ex Jugoslavia e altrove, al potere. In Russia ad esempio dove un boss dello stadio è uno degli amici della ristretta cerchia di Vladimir Putin. Sugli spalti sono state sdoganati simboli fascisti e nazisti, si sentono cori antisemiti, il razzismo è diffuso e sempre più spesso si fa il verso delle scimmie contro gli atleti di colore, di recente è avvenuto a Cagliari con Moise Kean, peraltro centravanti degli azzurri oltre che della Juventus. Del resto le curve sono una cartina di tornasole della società. I detenuti neri annuiscono. Qualcuno dice «è colpa di Salvini».

Osservo che sarebbe utile ripristinare tabù che sono caduti in disuso, non si può scherzare sull’Olocausto, l’accoglienza è un valore, la vita umana è sempre sacra, non si può assistere inermi alla trasformazione del Mediterraneo in un cimitero. Allo stesso modo che per Faruk e la responsabilità individuale, anche questo ragionamento produce un cortocircuito. Ho detto «la vita umana è sacra» riferendomi ai migranti ma sono davanti a diversi assassini persino seriali. Gli educatori la interpretano come una involontaria provocazione che può produrre un’eterogenesi dei fini, indurre a una riflessione su se stessi e il proprio passato. Non ho strumenti per capire se succederà, magari è già successo, impossibile indagare in così poco tempo nel profondo l’animo umano. Capisco però che ogni argomento in carcere si coniuga nell’ autoreferenzialità, si riduce al confronto con se stessi e il proprio ambiente chiuso.
Le mani si alzano di continuo per chiarire un dettaglio, chiedere una spiegazione. È anche, credo, il tentativo di prolungare un momento inedito o quasi, una piccola vacanza, uno scacciapensieri. Pensieri che, però, tornano ossessivi. Il comandante delle guardie avverte che il tempo a disposizione è scaduto, ci sono le regole, la scansione uguale della giornata deve riprendere il suo corso. Un signore brizzolato con una tuta chiara che lo distingue dagli altri chiede: «Ma lei è il Gigi Riva dell’Espresso?». «Sì». «Sono tanti anni che la leggo». «Grazie dell’attenzione».
Poi c’è un capannello che mi travolge, non vogliono tornare in cella, ancora un minuto per favore. Un cinquantenne basso e tarchiato mi sussurra abbracciandomi: «Dopo questa giornata guarderò il calcio in modo diverso». È già un risultato. Quelli che stanno più indietro nel mucchio alzano un braccio in alto per “darmi in cinque”. Rispondo come posso ai sorrisi e alle pacche sulle spalle. Genny non l’ho individuato. «Ma se è uno di quelli che ti ha dato il cinque», mi informa una guardia. «Ed era piuttosto compiaciuto».
Stando ad alcune cronache si sarebbe pentito e starebbe collaborando con la giustizia. Qualcuno mi passa una penna per la dedica su un libro. È del signore brizzolato con la tuta chiara che precisa: «L’ho già letto e tra quattro giorni esco, ho scontato la pena, sono libero». «Come si chiama a chi lo devo dedicare?». «Mi chiamo Giovanni». Giovanni Mercadante. Ora che avete davanti questo articolo, è già tornato a Palermo.