Passione, dolore, estasi. Un rito che imprigiona e che supera i confini della fede di cui oggi i nazionalisti spagnoli cercano di appropriarsi in nome della retorica identitaria

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Lo scorso gennaio Vox, il partito sovranista dell’estrema destra spagnola, ha scatenato le sue ire contro il governo andaluso di centrodestra, reo di aver contestato la Semana Santa sivigliana. La retorica identitaria, in Andalusia, si era già fatta largo anche fra gli appassionati di tauromachia - qui ancora numerosissimi. Santiago Abascal, leader di Vox, aveva lanciato la sua campagna elettorale chiamando a sé toreri di grido, ma dopo il successo delle elezioni andaluse ha allargato le sue mire su ogni tradizione spagnola, pur di farsi rappresentante di quell’hispanidad profonda che a molti appare sempre più in declino, quasi un semplice scarto del Novecento. Dalla corrida alla festa Pasquale il passo è stato breve.

Del resto, non sarebbe la prima volta che i riti andalusi della Semana Santa si ritrovano ostaggio di una guerra politica. In un reportage del 1935, Manuel Chaves Nogales, reporter sivigliano morto in esilio a Londra nel 1944 e oggetto di una grande riscoperta negli ultimi anni, ci raccontò quel che accadde quando la Seconda Repubblica tentò di contrastare il dominio della Chiesa lottando anche - inutilmente - contro la Semana Santa. Il taglio delle sovvenzioni spinse le Confraternite che mettono in strada lo spettacolo delle celebri processioni a negarsi in ogni modo pur di mostrare a tutti cosa significasse vivere nella “Siviglia rossa”.
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Il fatto tuttavia è che, come racconta sapientemente Chaves Nogales, all’interno delle Confraternite non ci si riunisce soltanto per pregare o progettare riti religiosi. Accade altro piuttosto. Passioni laiche, amicizie, discussioni da bar. Tanto che immediatamente fu chiara una cosa anche ai più radicali fra i sostenitori della Repubblica: lasciare la Semana Santa in mano ai nemici politici sarebbe stato un gravissimo errore. Forse, ragionamenti analoghi si ripetono ancora oggi.

A più di ottant’anni di distanza, la festa che esalta i misteri della resurrezione ha ancora una portata che va ben oltre la sua origine religiosa. E tuttavia, come per la tauromachia, non esiste altro modo che viverla per sfiorare una minima comprensione del fenomeno.

A me capitò parecchi anni fa ma non ho dimenticato nulla.

Aveva piovuto senza tregua come raramente accade a Siviglia. Il meteo preannunciava cattivo tempo ma le previsioni non si vivevano ancora con l’ossessione di questi anni. Così, quando al mattino della domenica delle Palme, il sole spaccò il cielo, i sivigliani mi parvero improvvisamente folli di gioia.

Ignoravo ogni cosa, allora. Immaginavo che fosse il naturale entusiasmo di chi si prepara a una settimana intera di festa. Ma non avevo mai partecipato a quei riti e non capivo quale pericolo fosse stato scongiurato. La semplice possibilità di pioggia, infatti, può spingere i responsabili delle Confraternite a impedire che le statue di Cristi e Vergini nelle loro vesti finemente decorate affrontino intemperie potenzialmente distruttive.
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L’annullamento di una processione tuttavia non è un fatto che si possa vivere con tranquillità. È una festa che si aspetta per un anno intero. Cosa può accadere se invece di viverla si è costretti a chiudersi in casa? Era circa mezzogiorno quando mi affacciai sul quartiere del Porvenir dove sarebbe uscita in strada la prima processione. Lungo le vie, la gente sciamava vestita a festa. Un fermento che poteva ancora assomigliare a quello di qualsiasi Domenica delle Palme del mondo cattolico. Finché a calle Río de la Plata mi trovai di fronte a una folla impressionante. Genti di ogni età si erano assiepate da ore per accaparrarsi i posti migliori davanti al grande portone della chiesa di San Sebastián. I bar erano aperti e bicchieri di gin tonic, whisky e cola, Cuba libre tintinnanti ghiaccio si diffondevano di mano in mano. I venditori di mandorle sudavano gesticolando. Gusci di semi di zucca tostati e cocci di gamberi bolliti coprivano già l’asfalto mentre l’odore del fritto saliva in cielo mescolandosi al fumo di enormi sigari cubani. Piattini di tortilla, ali di pollo, crocchette, fritti di mare passavano di mano in mano. Si cianciava di ogni cosa ridendo. Si discuteva dello scampato pericolo.

Di quell’anno in cui invece la Vergine non era uscita in tutto il suo splendore per non mettere in pericolo la statua intagliata nel legno da Antonio Illanes nel 1939. Fortuna che il sole oggi avesse convinto i “fratelli” della Confraternita che era possibile rischiare. Il Cristo e la Vergine della Paz, la prima a sfilare fra le sessanta Confraternite sivigliane (dico sessanta, ossia quasi dieci ogni giorno), sarebbero usciti trionfanti dalla chiesa nello splendore delle decorazioni floreali di garofani rossi e bianchi, avvolti dai candelabri opera di orafi come Juan Fernández e figli. Bevvi un vino bianco. Poi lasciai la strada e salii su.

I genitori di alcuni amici avevano casa proprio davanti all’ingresso della chiesa e una folla si era riunita a pranzo per l’occasione.

A Siviglia, in Semana Santa, le finestre che si aprono sui percorsi disegnati dalle processioni hanno un valore unico. Drappi di velluto rosso e oro vengono stesi sui davanzali e quando la processione compare, decine di teste si arroccano per seguire lo spettacolo. In casa giravano piatti di ogni genere. L’ensaladilla (una sorta di insalata russa) era la specialità della padrona di casa e io non resistevo al richiamo mentre bambini correvano per le stanze vestiti come principi. Poiché facevo domande su quello che sarebbe accaduto, venni presentato a un dandy omosessuale espertissimo di Semana Santa. Per una mezzoretta, Juan – così si chiamava – mi spiegò le prime cose fondamentali fra le infinite che sarei stato costretto a conoscere nei giorni seguenti.
Il cuore della processione ovviamente sono i due grandi palchi su cui passano fra la folla in delirio le statue del Cristo e della Vergine. Il turista ancora ignaro è portato a immaginare che lo spettacolo debba concentrarsi sulle statue. Errore. L’appassionato alle prime armi davanti al passaggio dei piedistalli di legno che in italiano sono detti fercoli, può pensare che lo spettacolo debba allargarsi alle decorazioni floreali, alle vesti ricercatissime e al contorno di ceri accesi, incenso inebriante e musica della banda. Errore.

Ci vuole tempo per capirlo, ma la grande potenza della processione non sta neanche nelle centinaia di uomini che sfilano coperti da tuniche, a piedi nudi o nascosti nei caratteristici copricapi conici. Il cuore della processione sta piuttosto nel passo con cui vengono mossi i fercoli. Juan cominciò a spiegarmi tecnicamente cosa intendesse. Si chiama paso qualsiasi grande palco portato per le strade perché ogni confraternita ha il suo passo. Sotto al fercolo, nascosti nel buio in cui sono costretti a raggrupparsi formando il corpo di una specie di testuggine, stanno i cosiddetti costaleros, ovvero i portatori che muovono i piedi seguendo le istruzioni del capataz che davanti al paso grida come procedere, in che direzione, a che velocità. Quel che ne risulta è un’andatura armoniosa, in alcuni casi solenne, in altri festosa, oppure austera, aggressiva, selvaggia, essenziale.

Ogni confraternita ha la sua tradizione e il paso si muove secondo le caratteristiche che storicamente la confraternita ha fatto sue. Per ammirare le peculiarità di quel movimento - mi spiegò Juan che era stato costalero nella confraternita de Los Estudiantes - dovevo scegliere per ciascuna processione un luogo adeguato. Inutile seguire il passaggio di un paso su un rettilineo qualunque. Il bello è vedere quel che capita in una curva stretta dove il paso sembra non poter passare che per millimetrici movimenti, oppure in una piazza particolare dove l’odore dei fiori d’arancio che infestano di sensualità Siviglia si unisce all’incenso e alla cera mentre le candele tremolanti squarciano il buio della notte, oppure di fronte a chiese dove il paso si produce in inchini artisticamente vertiginosi per omaggiare altri Cristi e altre Vergini in una sorta di politeismo pagano, oppure – molto semplicemente – all’uscita dalla chiesa o al ritorno. Juan aprì il libriccino che ogni giorno viene venduto in allegato con i due giornali di Siviglia. Mi mostrò come venisse introdotto ogni aspetto della Confraternita, dall’arte delle statue alle decorazioni floreali, dal numero dei nazarenos (i fedeli con il copricapo conico) a quello dei costaleros, fino a indicarmi la preziosa scansione delle tappe della processione.
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Ogni passaggio, infatti, è programmato perfettamente con ore e minuti per tutte le molte ore in cui la processione attraversa le strade della città. Molte ore, sì. Una processione breve non dura meno di sei ore. Una lunga supera le dodici. Mediamente ogni processione impiega a passare nello stesso punto da capo a coda almeno un’ora. Tempi che non immaginavo neppure lontanamente. Ero stupito. A un tratto, mentre Juan parlava, si sentì trambusto. Ci alzammo e ci avvicinammo alle finestre.

Quel che capita quando esce il paso dal portone di una chiesa può essere paragonato soltanto a un parto. Questo capii immediatamente, quando la magnifica Vergine de la Paz cominciò a brillare sotto il sole e i costaleros invisibili si producevano in mostruosi invisibili sforzi perché il baldacchino coperto da un tessuto bianco di sobrietà e ricchezza iperboliche non toccasse i battenti superiori del portone. Fu un’agonia lunga e spaventosa e quando finì e la musica della banda cominciò a suonare mentre un applauso scrosciante compattava la folla e petali di fiori bianchi volavano giù dai tetti delle case, io scoprii che stavo piangendo.

Ero percorso da brividi estatici e mi pareva di non aver mai vissuto un travaglio e un’esplosione di vita così capaci di atterrirmi e esaltarmi. Non feci in tempo a pensarci che già la folla taceva di nuovo. Il capataz aveva fermato il paso e, nell’immobilità solenne, da una finestra, una donna cominciò a cantare. Era una di quelle saetas flamenche che nei giorni seguenti avrei cercato ovunque. Saette svociate e piene di passione, dolore, estasi. Saette musicali che entrano nell’anima e non la mollano più. Come tutti gli infiniti particolari di un rito assolutamente unico nel nostro vecchio continente. Un rito che mi aveva intrappolato, imprigionato, irretito. Gli anni seguenti non ho mai smesso di viaggiare alla ricerca del mistero della Semana Santa. Un mistero che supera i confini della religione stessa e che oggi, più che mai, si rivelerà decisivo per capire fino a che punto i venti identitari che soffiano sull’Europa siano capaci di approfittare di ogni tradizione locale che è anche miniera politica.

Per ora, dopo gli attacchi dei mesi passati, sembra che le cose vadano avanti come sempre. E che la mantilla, il velo di pizzo nero che le donne indossano il giovedì santo, non sia un segno di tradizioni da superare o difendere, da mettere sotto accusa o utilizzare a fini elettorali. Ma sarà a lungo così? Forse per evitare che Abascal o chi per lui approfitti di passioni antiche, l’unica possibilità è continuare a viverle e tentare di comprenderle. Nel caso della Semana Santa, al di là della partecipazione religiosa o estetica, sarà difficile dopo giorni di immersione profonda, negare che tutto qui ha a che fare con una lotta tipicamente spagnola.
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Come nella tauromachia, è la sfida alla morte il sottofondo esplicito di questi riti. La voglia, tutta spagnola, di annichilire la “grande puta” come la chiamava, spagnolissimo, Hemingway. Perché Cristi e Vergini nel delirio del loro passaggio per le vie della città tornano davvero in vita. Vivono una giornata di vera resurrezione e lasciano intendere che nulla ha maggior valore di queste nostre esistenze corporee, di queste nostre prospettive terrene. Vivi di una vita reale, sotto i petali dei fiori, avvolti da un tripudio cristiano e pagano, grida, pianti, invocazioni e amore, i Cristi e le Vergini hanno un’unica morte, durante la Semana Santa. Ovvero il momento in cui rientrano nelle loro chiese per restare immobili, al buio dei loro templi, un anno intero.

È allora, in quei minuti di tetra cupezza, che si capisce come mai nei bar di Andalusia sia possibile trovare placche che indicano ogni giorno dell’anno quanto manchi ancora alla prossima Semana Santa.
Lontano da ogni retorica politica, c’è solo l’estasi per la vita che abbiamo a nostra disposizione. Da vivere come possiamo. Ciascuno con la propria religione, la propria coscienza laica, il proprio credo politico, la propria idea di futuro.