Venticinque anni fa si suicidava il leader dei Nirvana. Il testimone più importante della generazione che è stata giovane tra la fine della guerra fredda e l’inizio del millennio. E che si è ritrovato nel bel mezzo di una verità insopportabile per ogni artista autentico: far parte del sistema che denunci. Complice del nemico

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Kurt Cobain è stato un testimone, forse il più importante, di una generazione e un disagio che ancora oggi faticano a trovare uno spazio e un ascolto nella storia recente delle nostra cultura. Certamente il leader dei Nirvana non è stato un eroe, perché non esistono eroi che non riescono a vincere i propri - pur devastanti - demoni e drammi personali in nome di ciò che amano. Non può essere un eroe chi lascia un figlio senza un padre, né può esserlo chi rinuncia a combattere le proprie piccole o grandi battaglie quotidiane soccombendo a se stesso.

Ma forse, con buona pace di coloro che lamentano la mancanza di eroi nella nostra epoca, non è di questo che aveva bisogno chi lo ha amato e lo ama ancora. Forse non di un eroe, né di un modello da seguire, avevano bisogno i giovani che si sono trovati a vivere la fine e l’inizio del millennio, in un periodo storico in cui - complice la fine della guerra fredda e delle “ideologie” - il mondo sembrava destinarli a una felicità (e a scelte di vita) talmente obbligate e a portata di mano da apparire quanto meno sospette. Bombardati da modelli culturali che transitavano in quel periodo (in Usa come in Europa) dal più becero clerico-conservatorismo di provincia verso i nuovi valori della cultura neoliberale, i primi giovani del “nuovo mondo” post-ideologico hanno visto in Cobain qualcosa di diverso dagli idoli m ainstream di fine anni Ottanta. Hanno visto un amico, una speciale disperata offerta di complicità, quella che - esponendosi - ti invita a condividere sensazioni e pensieri che, finché restano soltanto “tuoi”, ti fanno sentire pazzo, diverso, sbagliato.

Non di un modello, ma di questo particolare tipo di sincerità i giovani di allora - e chissà, forse anche quelli di oggi - sentivano il bisogno. Un amico che non si erge su un podio per dire come dovrebbero essere le cose, come dovresti essere tu, ma che in compenso ti schiude un’intimità che non credevi possibile condividere, che ti vuole (e si offre) qualunque cosa tu stia per essere. “Come as you are”.
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Allo spirito rabbiosamente libertario del punk dei primi anni Ottanta e alle sonorità noise dei Sonic Youth, che lo avevano formato umanamente e artisticamente, Cobain ha aggiunto istintivamente un’inedita nota di disperazione e apatica autoironia. Una lucida disillusione che - lungo tutti gli anni Novanta e fino ai primi Duemila - ha rappresentato un vero e proprio collante sociale per tutti i giovani “perdenti” che provavano a vivere deviando da quei valori consumistici e autoimprenditoriali ormai divenuti una seconda natura.

I fan dei Nirvana non hanno bisogno del bel documentario del 2015, “Kurt Cobain: Montage of Heck”, per conoscere le devastazioni emotive prodotte in Cobain dalla separazione dei genitori. Devastazioni aggravate dal fatto che, problematico e mal sopportato da tutti, egli abbia vissuto una post-adolescenza nomade rimpallata tra nonni, zii e vagabondaggio (raccontata nei versi di “Something in the way”).

Nella storia dell’adolescenza di Kurt, raccontata nei suoi “Diari”, si può ancora vedere in controluce non solo il rigetto dell’America reaganiana verso la fragilità e la diversità, ma anche il senso di abbandono e di non amore provato da molti giovani del tempo per lo sgretolarsi di famiglie che, nel dipanarsi delle loro nuove vite, tendevano a dimenticarsi troppo facilmente dei propri primogeniti. In questo spaesamento, politico e umano, è possibile leggere anche il desiderio di Cobain di ricreare a soli venticinque anni, con la moglie Courtney e la figlia Frances, una famiglia da cui si era sentito così miseramente rifiutato. Una responsabilità e un desiderio che, complice il vortice di celebrità e le dipendenze, egli non sarà purtroppo in grado di sostenere.

La stessa dipendenza dall’eroina, così invincibile per Kurt, andrebbe forse ricollegata a questa drammatica, irricomponibile doppia ferita. L’eroina è infatti una droga diversa da tutte le altre, e non per caso è la più pericolosa. Si tratta di una sostanza in grado di riprodurre, di ricreare artificialmente, chimicamente, quelle sensazioni di calore umano, di amore, di agio, di pace con se stessi e con il mondo che spesso le infanzie spezzate - e le vite umiliate, sfruttate, risentite o colpevoli - non riescono proprio più a rivivere altrimenti.
A distanza di un quarto di secolo, con l’estremismo di cui è stato capace e di cui è rimasto vittima, Cobain ci insegna anche che sarebbe sufficiente per molti di coloro che, volenti o nolenti, diventano dei modelli, provare solo un millesimo della vergogna e della responsabilità che lui si sentiva addosso. Da ragazzo delle pulizie, figlio drogato ed emarginato di una famiglia spezzata che viveva tra i boschi dello Stato di Washington, nel giro di tre anni Kurt è diventato la rock-star più famosa del pianeta. E non ne ha retto il peso.
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Da venticinquenne tossico e fragile, ma anche perfezionista e geniale, Kurt si è trovato - dopo l’incredibile successo pop dell’album “Nevermind” - nel bel mezzo della più devastante verità che un giovane artista sincero potrebbe mai realizzare: scoprirsi parte del sistema che si denuncia, un complice semi-consapevole del nemico che si crede di combattere. Nonostante la fiera e lucida reazione artistica a questa amara presa di coscienza, incarnata nell’ultimo album “In Utero” - e in particolare in quel vero e proprio testamento spirituale che è “All apologies”, il senso di colpa resterà una delle parole più ricorrenti nell’ultimo periodo di Kurt. La sua devastante lettera d’addio racconta tra le righe proprio di questo doppio senso di colpa: per non riuscire a smettere con l’eroina, che minava il rapporto con la figlia e la moglie, e per essersi lasciato sfruttare da un’industria discografica senza scrupoli (certamente poco sensibile alle istanze politiche e umane che egli incarnava), che lo aveva lasciato in pasto alla gogna mediatica di una stampa scandalistica criminale.

La notte del 5 aprile di venticinque anni fa, per queste e chissà quali altre ragioni, Kurt Cobain, strafatto, dopo aver tentato un mese prima il suicidio a Roma ed essere fuggito dal rehab in cui cercava di disintossicarsi, si spara un colpo di fucile in faccia nella sua casa di Seattle.

Molte dietrologie sono state elaborate negli anni sulla sua morte, ma quello che oggi dovrebbe farci più riflettere è come Kurt abbia potuto perdere di vista, complici l’eroina e il senso di colpa per il successo, il significato profondamente metaforico della fiera autodistruttività che emanava dalla sua arte e dalla sottocultura grunge. Una sottocultura che per prima, con quasi due decenni di anticipo, ha intravisto dietro il tramonto delle ideologie l’oscura alba di una nuova devastante forma di pensiero unico, quello neoliberale. Un “pensiero” talmente pervasivo e omologante che tende a confondersi dolcemente con le certezze più radicate e coi valori più sacri. Un “pensiero”, il nostro, che può essere combattuto su di un unico campo di battaglia: quello del nostro corpo, delle nostre scelte di vita, dei nostri rapporti umani più intimi.

Una parte del nemico, la più invisibile e la più pericolosa - quella che alimenta involontariamente i macroscopici nemici del razzismo, dell’omofobia e delle multinazionali - è dentro di noi. Per combatterla non possiamo evitare di rivolgere metaforicamente “la pistola” contro noi stessi, contro la parte di noi che tutt’ora viene modellata, teleguidata, dalla seduzione dell’auto-sfruttamento e dall’imperativo al massimo sviluppo del nostro “capitale umano”.

La cosa più preziosa che la tragica fine di un antieroe come Kurt Cobain può insegnare oggi a tutti coloro che sentono l’urgenza reale di combattere una così difficile e rischiosa battaglia, è allora proprio l’importanza di non perdere di vista il suo senso metaforico. «Rivolgere la pistola verso di sé» è - e deve restare - una metafora: bellissima, felice. Non significa uccidere la vita biologica, né quella di relazione e degli affetti: non significa rivolgere davvero un’arma contro se stessi perché ci si vergogna di ciò che si è (o non si è) diventati. Significa, esattamente al contrario, uccidere i sensi di colpa che proviamo per non riuscire a coincidere con quell’immagine impossibile di noi stessi a cui sentiamo di dover corrispondere per poterci sentire finalmente amati e accettati.

Significa liberarsi da quei valori assurdi che scandiscono ciecamente le nostre vite al ritmo alterno di invidie e frustrazioni, sentimenti che fanno girare senza sosta la ruota di un mondo che non cambieremo mai senza prima cambiare quella parte di noi che ne è il segreto motore.

In questo anniversario riascoltiamo i Nirvana, la voce penetrante e intima di Kurt Cobain, restituiamogli il ruolo che avrebbe voluto e dovuto avere. Non un modello, né un vate, ma l’amico fragile che possiamo ancora essere gli uni per gli altri. Anzi, che non dobbiamo più avere paura di essere, gli uni per gli altri.