Il grande giornalista festeggia i novantacinque anni con un libro di componimenti in versi. Un nuovo modo di raccontarsi, ma senza rinunciare a parlare di Salvini e Di Maio. E con un sogno su Mattarella

Eugenio Scalfari
Il tavolino basso e lungo è ricolmo di libri meticolosamente impilati. Libri anche sul vicino divano, e sulle sedie, e qua e là appoggiati dove possibile. Filosofia, scienza, e soprattutto poesia. A portata di mano, accanto alla poltrona più grande, l’“Alcyone” di Gabriele D’Annunzio. E più in là ecco Montale, Saffo, Catullo. Su un panchetto, il pacco dei giornali, le buste di “Repubblica”, il blocco degli appunti. «Questi sono i libri più importanti», dice Eugenio Scalfari indicandoli.

Nella mansarda del suo appartamento nel centro di Roma, in fondo convivono, anche nella sistemazione accorta delle suppellettili, le due anime del padrone di casa che qui legge, studia, scrive: il grande giornalista inventore di settimanali e quotidiani, editorialista di “Repubblica” ed “Espresso”; e l’intellettuale che appassionatamente riflette sull’etica, indaga sulla natura umana, si interroga sul tempo che fugge. Con articoli e saggi. Ora anche con la poesia.

L’occasione di questo incontro è appunto l’uscita della sua prima raccolta di versi (“L’ora del blu”, Einaudi, 96 pagg., euro 14) che svelano uno Scalfari in buona parte inedito, forse mai così sincero, sorprendentemente perfino timoroso e incerto, ma sempre alla ricerca del senso ultimo di un’esistenza lunga e ricca. Che gli ha consentito di vivere appieno fino ai 95 anni appena festeggiati (auguri!).

scalfari-libro-jpg
Ne è nata una lunga chiacchierata a ruota libera. In cui Scalfari ha parlato di amore e di morte, di speranze e delusioni. Naturalmente anche di politica. E di un sogno che ha per protagonista Sergio Mattarella…

Pochi immaginavano l’esistenza di uno Scalfari poeta...
«In realtà scrivo versi da cinquant’anni, all’inizio molto di rado, poi di recente questa vena si è imposta. Così mi è venuta un’idea stramba. Siccome non scriverò mai un romanzo su me stesso, su quello che sento e penso, ho deciso di farlo attraverso le poesie. Ero arrivato a raccogliere 74 componimenti, ne ho scelti 56 per questo libro. Che si chiude con un’antologia dei poeti che più amo».

La forma romanzo - lo dici tu stesso - comporta inevitabilmente una certa dose di falsità, la poesia invece è più sincera.
«La poesia scioglie l’anima, lascia fluire liberamente pensieri e sensazioni, e la secchezza dei versi costringe all’essenza. Anche nella poesia, è l’Io a guidarti perché ha consapevolezza degli istinti che si fanno sentimento, ti rappresenta e decide cosa vuole, ma vede e valuta anche gli errori compiuti, ne dà consapevolezza. È da questo processo che si alimenta la vita, con le sue gioie e i suoi tormenti. Che la poesia rappresenta».

Non è dunque una passione recente.
«La poesia mi è sempre piaciuta moltissimo, fin da bambino. Quando avevo otto-nove anni mio padre voleva che ogni tanto passassi una notte con lui: mamma andava in un’altra stanza e io mi sistemavo nel lettone con papà. Che prima di dormire mi leggeva D’Annunzio, Carducci, Dante, Petrarca… Poi chiudeva il libro, si girava su un lato e mi chiedeva di spingere i piedi con tutta la forza contro la sua schiena dolorante. Diceva di trarne grande beneficio».

Un tipo singolare.
«Era un uomo di pensiero e di azione. Pur innamorato di mia madre, era un irrefrenabile “tombeur de femmes”; aveva scritto un libro di storia e di letteratura - è là, sul tavolino - ma aveva anche partecipato all’impresa di Fiume con D’Annunzio. Un’esperienza che lo aveva segnato. Quando ero un po’ più grande, voleva che la domenica assistessi alla sua rasatura. Quando aveva finito si guardava allo specchio e ci sputava sopra. Era antifascista, ma il Regime lo aveva iscritto d’ufficio al partito, addirittura retrodatando l’iscrizione al 1919, cioè alla prima ora, all’adunata dei sansepolcristi e alla nascita dei fasci italiani di combattimento. Trovava quella condizione contraddittoria e insopportabile».

Anche tu, e ne hai scritto, sei stato fascista.
«Sì, da giovanissimo, poi nel 1943, universitario, fui espulso per un articolo su “Roma fascista” che aveva fatto andare su tutte le furie i maggiorenti del regime. Mi convocò il vicesegretario del Pnf, Carlo Scorza, mi chiese conto di ciò che avevo scritto e strappandomi le mostrine dalla divisa mi espulse dal Guf. Aggiunse che non mi aveva fatto cacciare da tutte le università del Regno solo per l’intercessione del segretario generale, Aldo Vidussoni, che era stato a Fiume con mio padre. Conclusi che se il fascismo mi rifiutava, allora non ero fascista. Tornai a casa, mi tolsi la divisa e decisi che da allora mi sarei vestito da vero borghese: camicia e cravatta, pantaloni con risvolto, giacca con gilet e scarpe con le ghette. Poi venne il bando Graziani».

Che fissava la pena di morte per i renitenti alla leva.
«Un mio zio che amministrava i fondi dei gesuiti chiese loro di aiutare me e i suoi figli. Così fummo accolti nella sede della Compagnia, in via della Conciliazione. A una finestra sventolava la bandiera del Vaticano segnando l’extraterritorialità del palazzo. Furono tre mesi di oratorio, preghiere e meditazioni. Poi a giugno arrivarono al Sud gli americani e fummo assunti come operai in Vaticano: dovevamo verniciare con i colori pontifici i camion requisiti che entravano e uscivano perché fossero ben visibili in caso di bombardamenti, americani o nazisti. Appena fu possibile, ci rifugiammo con la famiglia nel sud liberato, in Calabria, nella casa di mio nonno. Fu un anno e mezzo di serenità: mi dividevo tra un saggio sulla politica finanziaria della Destra Storica e qualche fidanzata. Poi finalmente il ritorno a casa, la laurea, l’assunzione alla Bnl e, su mia scelta, la sede di Milano: a Roma una storia d’amore stava diventando troppo ingombrante…».

Cominciava una vita che sarebbe stata piena, ricca, di successo. Eppure da questi versi traspare una certa malinconia, e ti interroghi perfino sulla noia.
«Non ho mai conosciuto la noia vera, quella esistenziale che si manifesta con forme di apatia profonda, che ti assale quando non hai scopi da raggiungere, nemmeno la voglia di vivere la tua vita il più a lungo possibile. Stai al mondo e basta. In alcuni momenti, questo sì, ho vissuto una certa forma di noia, quella che si manifesta per esempio quando non riesci ad appagare sentimenti profondi. Quando si è presentata l’ho combattuta».

E la malinconia?
«“Ma la Menacolìa venne e s’assise/in mezzo a noi tra gli oleandri, muta/ guatando noi con le pupille fise…”. Ho studiato la malinconia (questi sono versi di D’Annunzio), è un sentimento che mi affascina, mi attira: emerge in qualche mia poesia nel ripercorrere il mio passato. Però non credo di essere malinconico. Anche se anni fa, ogni tanto, me ne andavo da solo nella casa di Velletri, mi chiudevo in una stanza con una bottiglia di whisky e un pacchetto di sigarette e mettevo su della musica jazz. Dalla finestra vedevo in lontananza il Circeo e Ponza e vicino la campagna. Passavo così ore di solitudine. Durante le quali non ero assalito da pensieri, piuttosto pervaso da un sentimento di dolcezza corretto da una punta di amaro. Un sapore che ricordo. Come quello di certi cocktail».

Alcune tue poesie sono dedicate alla “signora velata”. Pensi alla morte?
«Be’, certo che sì. Penso anche all’aldilà. Vedi, non posso definirmi ateo, non penso come gli atei che dopo la morte ci sia il nulla. Sono piuttosto un non credente, cioè non credo in Dio, nel paradiso, nell’inferno, quelle cose lì. Credo però in un aldilà, in qualcosa nell’universo che non muore mai, credo in un’energia che dopo la morte si raccoglie in un qualcosa, in un essere che posso chiamare energia caotica. È uno degli argomenti di cui ho parlato a lungo con papa Francesco partendo dai “Saggi” di Montaigne e dal modo di intendere la pienezza della vita, la conquista della saggezza, l’attesa serena della morte. Da quelle pagine comincia la modernità».

Novantacinque anni vissuti da protagonista, tra speranze, illusioni, delusioni. Che cosa è rimasto del mondo che immaginavi?
«Poco, molto poco. Mi sono affacciato alla politica innamorandomi del Partito d’Azione e del suo liberalismo democratico. Per molti anni ho votato Pri, poi dopo la morte di Ugo La Malfa, il Pci di Berlinguer che definisco il Partito d’Azione di massa: difesa delle libertà borghesi e vasto seguito popolare. Anche il Pd è nato dall’incontro dei liberali di sinistra con i comunisti democratici, ma è stato travolto dall’irrompere della crisi economica che ha compreso in ritardo e alla quale non ha saputo rispondere con proposte convincenti. Ho ancora negli occhi la diretta streaming dei grillini in colloquio con Bersani. Poi è arrivato Renzi, e cosa penso di lui l’ho scritto e riscritto. E oggi assistiamo a una travolgente ondata di destra».

Interpretata da Salvini e Di Maio.
«La paura delle ondate migratorie, fenomeno incontenibile, ha gonfiato, e gonfia ancora, le vele della Lega di Salvini: identificare nell’immigrato, nel diverso il nemico da sconfiggere solletica quel tanto di combattività che ancora si annida nel popolo».

E il Movimento Cinque Stelle?
«Per anni Beppe Grillo ha infiammato le piazze predicando la distruzione delle classi dirigenti, di destra e di sinistra. Solo così, diceva, sarà possibile dare tutto il potere al popolo. Già, ma per farne che? Deciderà il popolo, rispondeva. Come, con la piattaforma Rousseau? Di Maio, invece, è il contrario di Grillo: non ha il popolo, raccoglie solo un esercito di scontenti, ma è destinato a perdere consenso e voti».

Che però rischiano di andare verso Salvini o verso l’astensione.
«In tanti hanno lasciato il Pd per i Cinque Stelle stufi delle derive dittatoriali di Renzi e degli accordi sotterranei con Berlusconi. Eppure il Pd di Renzi aveva superato il 40 per cento dei voti. Dunque una parte di questi elettori possono tornare a casa, a patto che accanto al Pd nasca un nuovo movimento che con il Pd, la sua nomenklatura, le sue leadership non abbia niente a che fare, ma che combatta sullo stesso fronte».

Quando arriverà il momento di misurarsi? Insomma, quanto reggerà ancora l’alleanza gialloverde?
«Penso che Salvini voglia andare al redde rationem presto, finché è forte e ha il vento in poppa».

E Mattarella sarebbe pronto a uno scioglimento anticipato delle Camere?
«Questo non lo so. E tra non molto il suo mandato scade… Però coltivo un sogno: che Mattarella venga rieletto. In fondo è già successo, c’è un precedente, si può fare, no?».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso