Kashmir, i giorni dell'odio nel Paradiso che diventato un inferno
Era la "Svizzera dell'India". La contesa con il Pakistan ne ha fatto una terra povera e militarizzata. Tra Jihadisti e trame dei servizi segreti (Foto di Cedric Gerbehaye)
Quando arrivavi a Srinagar, una volta, i cartelli dicevano “benvenuti nel Paradiso in terra”. Un paradiso, il Kashmir, fatto di laghi annidati tra vegetazione e foreste, di alberi di mele che profumavano l’aria. Un paradiso di montagne e valli e pianure, di zafferano e uva passa, di scialli ricamati, di lana pregiata. Un paradiso cantato fin dall’antichità da poeti e scrittori, definito “la Svizzera dell’India”, location prediletta per anni dei numeri di canto e danza in molti film di Bollywood. Meta prediletta per le vacanze estive di re e usurpatori, di turisti e viaggiatori, di hippy e cercatori spirituali.
Quando arrivavi a Srinagar, una volta, andavi a fare il bagno nel Dal lake, a vivere in una house boat, a fare compere al mercato galleggiante di shikara, le tipiche barche locali. In città, potevi andare a cercare pandit induisti che ti spiegavano il Tantra o potevi invece sedere con i devoti musulmani dentro a una moschea ad ascoltare sermoni. Potevi andare a visitare quella che, secondo una leggenda, è la tomba di Cristo: venerata e riverita da tutti, accanto alla tomba di un santo sufi locale.
Quando arrivi a Srinagar adesso, nei giorni dell’odio, ti chiedi se il paradiso tornerà mai più e dubiti perfino che sia mai esistito. I pandit non ci sono più, «cacciati negli anni Novanta dai terroristi che cercano da anni di islamizzare uno stato fondamentalmente laico: centomila persone sono state costrette a fuggire dalle loro case date alle fiamme; molti sono stati uccisi, le donne stuprate, i bambini terrorizzati portano ancora i segni, dopo anni, della persecuzione», racconta il giornalista Aditya Raj Kaul. Le house boat cadono in rovina per mancanza di clienti. Per strada, più che bancarelle, vedi filo spinato e sacchetti di sabbia.
Quando arrivi a Srinagar adesso, nei giorni dell’odio, ti sembra una città diversa. Il coprifuoco ha svuotato le strade e sigillato le saracinesche dei negozi, i cancelli di case e villette sono sbarrati. Agli angoli delle strade soldati in tenuta da combattimento presidiano il vuoto che da un momento all’altro potrebbe ancora una volta risuonare di urla ed esplosioni. Sui muri, scritte nere campeggiano invocando la libertà: “We want freedom”, e dichiarando “We are not with India”. Le strade si riempiono soltanto a tratti: non di bambini che giocano, di fedeli che vanno alla preghiera o di donne che affollano il mercato, ma di dimostranti. Si riempiono di sassi e grida d’odio, che diventano a volte un tutti contro tutti che non lascia scampo a nessuno. Perché il Kashmir, la regione immensa che era un tempo e che orgogliosamente riuniva dentro a una cultura laica comune appartenenti a religioni ed etnie diverse, è stato frammentato e smembrato sia politicamente che geograficamente per essere ridotto, nell’immaginario collettivo, alla sola valle di Srinagar e a una “questione” di natura geopolitica: la cosiddetta “questione del Kashmir”. Che risale al 1947, all’epoca della Partition da cui sono nate India e Pakistan. Quando Hari Singh, il maharaja induista che deteneva il potere su tutto il territorio kashmiri a maggioranza musulmano, decise per l’annessione dello Stato all’Unione indiana.
Immediatamente, un contingente di truppe pakistane attraversò il confine con l’intento di annettere con la forza il territorio al neonato Stato islamico. Scoppiava così il primo conflitto indo-pakistano per la sovranità sul territorio del Kashmir, e si apriva uno dei conflitti più sanguinosi e duraturi della storia. Il cessate il fuoco imposto dalle Nazioni Unite nel 1948 riusciva a far cessare il primo conflitto imponendo la Line of Control, ordinando al Pakistan di ritirare le truppe dalle zone che aveva occupato e all’India di indire un referendum di autodeterminazione.
Il Pakistan non si ritirava dalle posizioni conquistate: si annetteva invece anche i distretti del Gilgit e del Baltisan creando così il cosiddetto “Azad Kashmir”, cedendo anche un ulteriore frammento di Kashmir alla Cina. L’India, di conseguenza, si rifiutava di indire il plebiscito. Da allora, India e Pakistan hanno combattuto tre guerre più il cosiddetto “conflitto di Kargil”, una guerra non dichiarata, e Srinagar e dintorni sono diventate terreno permanente di guerriglia e di scontri. Da allora, il Kashmir è di fatto un territorio occupato in permanenza da decine di migliaia di truppe indiane, nonché sede privilegiata di organizzazioni jihadiste finanziate e manovrate dai Servizi pakistani che combattono contro il governo indiano. Islamabad non ha mai accettato la sovranità indiana sul Kashmir e, grosso modo dagli anni Ottanta, invece che alla guerra convenzionale è ricorsa al terrorismo infiltrando jihadisti nella regione per soffiare sul fuoco del separatismo e dello scontento di natura politica o socieconomica, dando vita a gruppi di guerriglia locale e a una stagione nera di lotta armata. L’India ha reagito in modo malaccorto e miope, inviando l’esercito senza pensare a una strategia politica. La repressione brutale messa in atto dalle truppe indiane ha fomentato lo scontento e ha anche spinto più di una volta le organizzazioni internazionali a denunciare apertamente l’India per le violazioni dei diritti umani compiute ai danni dei propri cittadini.
«Si è innescato ormai un letale circolo vizioso», dichiara un personaggio molto vicino al governo della regione, «l’esercito e la polizia non sono addestrati al controllo della folla e non hanno neanche l’equipaggiamento adatto. Combattono jihadisti da trent’anni, tutto ciò che sanno fare è reagire aprendo il fuoco». Ogni volta che qualcuno muore per mano della polizia durante gli scontri, si innescano altre proteste. E c’è un nuovo coprifuoco, che significa scuole e negozi chiusi. Così, invece che a scuola si va in madrasa, quelle integraliste finanziate con denaro saudita e pakistano, che da qualche tempo sorgono come funghi in un luogo tradizionalmente culla di un Islam liberale e illuminato. Cambiando lentamente il tessuto culturale profondo della regione.
Trent’anni di questo mix esplosivo di repressione, violenza e integralismo, di guerriglia urbana, di attentati ai danni dell’esercito, di proteste e scontri tra separatisti e governo, hanno lasciato non poche cicatrici. Il numero delle vedove è impressionante: donne i cui mariti sono morti, per mano della jihad o dell’esercito poco importa, abbandonate con i figli da crescere e senza mezza di sussistenza. Orfani allevati nel risentimento e in cerca di vendetta o di riscatto, famiglie che di commercio vivevano e il cui commercio è morto. Negli anni, Srinagar e tutta la valle sono stati sostanzialmente tagliati fuori dallo sviluppo. Per combattere i guerriglieri sono stati limitati o sospesi per lunghi periodi Internet e le reti dei cellulari. Mentre i portatori del verbo integralista hanno cominciato a far chiudere i cinema, a minacciare musicisti e cantanti, a prendersela con le biblioteche, le librerie e le accademie d’arte.
A farne le spese è stata soprattutto la nuova generazione. Ragazzi in jeans e maglietta, che fino all’altroieri erano molto più interessati a telefonini, connessioni Internet, alla possibilità di fare acquisti in shopping mall o ad avere discoteche, cinema e ristoranti che alla guerra santa contro l’invasore indiano. La rabbia di questi ragazzi, bloccati “di qua dal Paradiso” da una classe politica sostanzialmente incapace quando non in malafede, si è tradotta in una specie di islamismo di ritorno: inneggiare alla jihad è diventato un modo per esprimere la rabbia contro il governo. E poco importa che la jihad sia portatrice di valori antitetici allo stile di vita auspicato dai ragazzi. I nuovi jihadisti sono giovani o giovanissimi, appartenenti a famiglie, benestanti, istruiti; e usano la Rete per reclutare militanti e diffondere il verbo della guerra santa. Sono quelli a cui i membri delle organizzazioni terroristiche oltre confine raccontano che saranno liberi quando si libereranno dall’India.
Quelli, come il ragazzo che ha compiuto il 14 febbraio scorso l’attentato suicida di Pulwama in cui sono morti quaranta soldati dell’esercito indiano, a cui è stato raccontato che morire da eroi per la libertà è meglio che vivere. E poco importa che non ci sia nulla di Azad, di libero, nel cosiddetto “Azad Kashmir”, e che gli abitanti del Gilgit-Baltisan siano vittime da anni di un genocidio culturale ed etnico. Poco importa della maggioranza silenziosa, di quella maggioranza che vorrebbe soltanto vivere in pace.
Quello che conta davvero, per i jihadisti e i loro padroni, è che non finiscano i giorni dell’odio. Che Srinagar non torni mai più a prosperare se deve farlo continuando a essere parte dell’India. Per i jihadisti i kashmiri sono soltanto una “questione”, da non risolvere mai. Ogni volta che India e Pakistan hanno povato a risolvere il problema c’è stato un attentato ai danni di New Delhi. E ogni presidente pakistano che ha provato a mostrare un’apertura sul Kashmir, ha pagato l’idea a caro prezzo. La guerra in Kashmir è essenziale alla sopravvivenza dell’esercito di Islamabad, che costituisce da sempre il vero governo del paese. Un governo che permette a Mohammed Hafiz Saeed, terrorista protetto dall’esercito e dall’Isi, di tuonare in ogni suo sermone: «La questione del Kashmir non si risolverà con i colloqui, non con l’arbitrato degli americani, non con una divisione stabile, ma soltanto in un modo: jihad, jihad, jihad». E di trasformare ancora e sempre il Paradiso in un inferno.