M5S, rivoluzionari addio. E Luigi Di Maio disse: «Non è questione di teste da saltare»

Peggior risultato della storia grillina (17,1 per cento), ma il capo politico spiega che non si dimetterà: «Grillo, Casaleggio, Fico e Di Battista non me lo hanno chiesto». Avanti dunque, M5s come una palude: tutti nelle mani della Lega di Salvini. Dalla flat tax alle Autonomie, passando per la Tav

«Nessuno ne ha fatto una questione di teste da saltare». Eccola qua la fine della rivoluzione. I giacobini a Cinque stelle - i grillini che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e mandare a casa la vecchia politica - adesso le teste non ne fanno saltare più. E se ne compiacciono, come di un assunto rassicurante per tutti. «Nessuno ne ha fatto una questione di teste da saltare», annuncia dal parlamentino del Mise Luigi Di Maio, con le consuete sgrammaticature, seduto allo stesso tavolo, sulla stessa poltrona dalla quale Claudio Scajola, suo predecessore, si dimise pronunciando, a proposito dell'acquisto agevolato della casa al Colosseo, la locuzione che l'avrebbe reso immortale («a mia insaputa»).

Finalmente a confrontarsi in una conferenza stampa, a quattordici ore dalla chiusura delle urne europee, il vicepremier e capo politico dei Cinque stelle sa bene che a peggiore sconfitta in assoluto della breve storia grillina (quasi dimezzato il 32,7 delle politiche 2018) è tutto tranne che avvenuta a sua insaputa, eppure s'atteggia nel celebrare la perfetta mimesi con un grande classico della vecchia politica: la palude. Nel suo breve discorsetto ci sono in effetti tutti i topos da recitare, in caso di sconfitta, quando non si voglia tuttavia lasciare il posto, né fondamentalmente cambiare linea: «Impegnarci per realizzare le promesse fatte agli elettori», «avanti con la riorganizzazione», «più vicini al territorio», «ascoltare tutti», meno tasse, più soldi alle famiglie, «fare». Parola di Di Maio: ma poteva essere De Mita.
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Lontanissimi i tempi in cui, per significare l'allora deludente 21,5 per cento alle Europee 2014, Beppe Grillo mostrava d'aver preso il Maalox e trasformava lo slogan «vinciamo noi», in «vinciamo poi» (è avvenuto, in effetti). Adesso il capo dei Cinque stelle, ancora frastornato da una nottata nella quale nessun grillino ha messo la faccia sulla sconfitta del 17,1, si presenta in pubblico ostentando – ma non spavaldo: a disagio – il destino a proseguire dritto. «Tra tutti coloro che ho sentito stamattina», dice Di Maio citando esplicitamente Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Roberto Fico, Alessandro Di Battista, «nessuno ha chiesto le mie dimissioni. Si vince e si perde insieme». Insieme: perché nel Movimento nessuno vale uno. Tutti insieme: anche perché altrimenti chi potrebbe contendere all'attuale capo politico la leadership del Movimento? Per portare avanti quale visione? Per questa via tutti i nodi tecnocratici e impolitici di M5S vengono improvvisamente al pettine, ma per la verità nessuno ci bada.
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Nel parlamentino del Mise accanto a Di Maio, come a dire della compattezza, ci sono i dioscuri dei momenti difficili, il duo ministeriale Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, eppoi l'onnipotente Pietro Dettori, e appena dietro il duo dei comunicatori Rocco Casalino e Augusto Rubei, entrambi visibilmente tesi e scuri in volto. Più in là, sparsa tra la folla, la ministra Laura Castelli, che ieri alle due di notte uscendo dalla Camera ridacchiava, forse per l'imbarazzo.
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Il futuro prossimo appare abbastanza misero, con risvolti surreali. All'orizzonte, dal punto di vista del Movimento, dovrebbe esserci una assemblea nella quale i parlamentari dovrebbero confermare la fiducia al loro capo – un capo che del resto per statuto non hanno il potere di sfiduciare. Dal punto di vista del governo, invece, qualcosa ha fatto capire già Di Maio. La Tav? «È nelle mani di Conte». Le Autonomie? «Mai fatto una questione di “se”, ma di “come” si scrive». I rapporti di forza? «Non cambia niente». Insomma: siamo in zona resa assoluta alla volontà della Lega, una resa travestita opportunamente da sinfonia di sì. «Sì alla flat tax», ha già detto giubilante Di Maio, assai più vago su un ritorno del dimissionato Armando Siri («se ci sono richieste da parte della lega, mi auguro che siano di persona, e non via giornali»). Certo: bisognerà vedere se, per caso, in Parlamento i grillini continueranno ad eseguire gli ordini impartiti dalla Casaleggio, o se vista la debolezza dei vertici si metteranno in testa di negoziare ogni sì. Ma bisogna dire che, con queste carte, nuove grandi speranze per i Cinque stelle, almeno per il momento, non se ne vedono.  

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