I riti vodoo per terrorizzare, i debiti del viaggio, i figli da mantenere in patria, le piazzole controllate dalla malavita, la polizia. Tre ragazze straniere raccontano perché sono finite a vendersi in Italia. E come provano a sfuggire

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La sera del 15 novembre, ogni anno, le unità dei servizi sociali anti-tratta scendono in strada in contemporanea in 63 città italiane. Da Asti a Catania, centinaia di operatori raccolgono elementi per disegnare una mappa nazionale del fenomeno. Durante l’ultima uscita hanno incrociato più di 2.800 persone che si prostituivano in strada. Tra loro ci sono rom bulgare che scendono ad aspettare clienti di fronte al portone di casa; signore cinesi di mezza età nelle vie di Mestre e Milano; minorenni nigeriane sulle strade provinciali piemontesi. Vengono dalle zone più povere dei rispettivi paesi: i villaggi rurali del Liaoning, Edo State, le città a cavallo tra Bulgaria e Romania. Sono vittime. Ma anche protagoniste di una guerra privata per l’emancipazione.

LA MALEDIZIONE
«Mi avevano detto di tagliarmi un dito per la cerimonia ma ho rifiutato e allora hanno usato un fantoccio di sabbia con le sembianze di una testa umana», racconta Loveth all’Espresso. «Mi hanno fatto giurare di ripagare il debito e che, se non lo avessi fatto, non sarei mai riuscita ad arrivare in Italia».

Loveth è una ragazza di 23 anni. Viene da Uromi, una città a cento chilometri da Benin City. Era una studentessa di Scienze che sognava di diventare infermiera. Non potendo continuare gli studi per mancanza di denaro, ha deciso di lasciare la Nigeria per lavorare in Italia come parrucchiera. Per raggiungere l’Europa ha affrontato un percorso drammatico tra Niger, Libia e Mediterraneo. Per il viaggio le hanno chiesto 20 mila euro. Un debito garantito dal rituale del juju.

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Poco più di un anno fa Ewuare II, Oba di Benin City, ha convocato i “native doctors”, i sacerdoti del voodoo. Nel corso di una cerimonia ufficiale, ha annullato tutti i giuramenti passati e futuri fatti dalle vittime di tratta. L’Oba è, nella cultura del popolo Edo, un capo religioso tradizionale e un re, sovrano dell’antico regno del Benin. La sua autorità è riconosciuta in ambito religioso e culturale. «L’Oba ha emesso l’editto perché è un uomo moderno, che conosce bene la tratta, ha studiato a Londra e nel New Jersey, è stato in Italia come ambasciatore», spiega un documento dell’associazione antitratta Piam di Asti, la stessa che ha accolto Loveth dopo la fuga dai suoi aguzzini.

«Ho lasciato la strada e la mia prigionia prima dell’editto dell’Oba ma con molta paura per il mio futuro e la mia vita in quanto avevo fatto il giuramento juju», ricorda la ragazza. «Poco dopo, ho saputo dell’editto. Il mio cuore si è sollevato tantissimo. Dobbiamo far conoscere l’editto il più possibile perché in questo modo tante ragazze lascerebbero le loro aguzzine. Se credo che serva? Ne sono certa».

Sembra però che l’editto abbia avuto più effetto in Africa che in Italia. «C’è stata una enorme riduzione della tratta nell’Edo State», ci spiega Stella Odife, presidente dell’ong di Abuja Wogi (Women’s Organization for Gender Issues). «Ora siamo al livello più basso di sempre, non siamo più un terreno fertile per i trafficanti, che però si sono spostati nel Delta State, il distretto confinante».
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Ancora sospesa tra liberazione e schiavitù, Loveth rivive il percorso per l’Europa. «Se nella foresta in Niger cadi dalla moto che va all’impazzata con altre due persone a bordo, non si fermano a raccoglierti», racconta. «Ho fatto il viaggio a occhi chiusi, stringendo forte la persona in sella di fronte a me. Sono stata nel deserto per tre mesi con i trafficanti aspettando il momento propizio per entrare in Libia. Lì le donne nigeriane devono stare molto attente. Ci mettevamo un niqab che lasciava solo scoperti gli occhi perché altrimenti gli uomini ci avrebbero rapito e violentato. Non siamo nulla per loro».

A Torino, Loveth trova il suo contatto, una connazionale. «All’inizio era gentile, mi dava cibo, ospitalità, poi al momento in cui pensavo di lasciarla per iniziare a cercare lavoro come parrucchiera, mi ha detto: “Dove stai andando?”. Da quel momento ha iniziato a seguirmi, a chiudermi in casa. E poi a mettermi in strada per ripagare il debito».
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Il lavoro in strada è terribile. Si sta in un “joint”, una piazzola di sosta lungo le provinciali. Ogni joint è strettamente controllato dall’organizzazione criminale. «Lavoravo tutte le notti offrendo prestazioni tra i dieci e venti euro», dice Loveth. «Questo incubo è andato avanti fino a quando l’anno scorso la mia sfruttatrice si è allontanata per andare ad una festa. Sono scappata: ho finto di andare a lavorare come al solito e, per evitare sospetti, ho portato con me solo una piccola borsa, lasciando tutti i miei beni nel suo appartamento».

IL MURO BLU
Quando Maria ha lasciato Vidin, una città al confine tra Romania, Bulgaria e Serbia, pensava al nome del suo quartiere: “New Path”. Una definizione ironica per quell’enorme insediamento di baracche e grandi palazzi grigi dell’era comunista, dove le tubature dell’acqua esplodono periodicamente accentuando il degrado tra pozze e cumuli di spazzatura. Con la scusa di proteggere i bambini dagli incidenti ferroviari, anni fa hanno costruito un enorme muro blu che circonda il ghetto.

Secondo il censimento dell’Istituto nazionale di statistica bulgaro, risalente al 2011, ci sono 325.343 rom nel paese, pari al 4,9 per cento della popolazione. Il Consiglio europeo invece stima circa 750.000 persone. La forbice si comprende considerando che essere rom è soprattutto uno status sociale basato sulla discriminazione e sulla segregazione. È rom chi vive nei ghetti. Un circolo vizioso tra disoccupazione, povertà e, molte volte, disprezzo.

Dopo aver perso un lavoro da sarta, Maria ha deciso di partire. Il tasso di disoccupazione in Bulgaria è alle stelle e per i rom è ancora più alto. I figli sono rimasti in patria. Vuole che frequentino la scuola privata perché nella pubblica possono essere discriminati. È il suo obiettivo principale. Adesso lavora sotto casa, a Marghera. Venezia è a due passi ma la zona è divisa tra un quartiere residenziale, un porto commerciale e la zona industriale. Si organizza come se avesse un orario d’ufficio, dalle 15 alle 20, mai di domenica, mai di notte. È pericoloso comunque, ma almeno è protetta dai mariti delle sue amiche. Sono loro che l’hanno introdotta al lavoro in strada.
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Le donne dell’Est sono tipicamente circondate da una rete di parenti, amici e fidanzati. «Le dinamiche tra loro sono molto complesse e non dettate solo dalla costrizione», ci spiega Elsa Lila, cantante albanese che vive da anni in Italia. «Il legame può essere un accordo d’affari così come l’innamoramento».

Il viaggio, almeno, è stato semplice. Il suo fidanzato di Vidin l’ha accompagnata alla stazione degli autobus di Sofia, dove partono le linee internazionali. Poi circa venti ore per arrivare in Italia. Qui ha ritrovato le sue amiche, quelle del quartiere. Adesso vive in un appartamento a Marghera, 400 euro divisi tra cinque persone. Con i soldi guadagnati Maria mantiene tutta la famiglia: il compagno in Italia, i tre figli in Bulgaria tutti avuti dal suo ex marito, la sorella più piccola, i genitori che si occupano dei figli e i genitori dell’ex.

Come può uscirne? «Nessuno stipendio è in grado di competere con quello che guadagna, il benessere che può assicurare ai propri figli in Bulgaria non può raggiungerlo con nessun lavoro “normale”, per cui rinuncia al nostro aiuto», spiega Gianfranco Della Valle del Numero verde antitratta. «Le storie delle rom bulgare a volte sono paradossali, sembrano quasi vicende di emancipazione sociale. Sui loro profili Facebook mostrano le foto delle vacanze oppure le loro nuove abitazioni in costruzione».

Nonostante le difficoltà, il modello italiano di intervento anti-tratta è considerato un’eccellenza a livello europeo. L’articolo 18 si basa sulla concessione del permesso di soggiorno per chi denuncia gli sfruttatori, a cui segue un programma di inserimento. Le donne comunitarie però non possono accedere a nessun “premio” particolare, come il permesso di soggiorno, quindi difficilmente vengono intercettate dai programmi di reinserimento. E, come abbiamo visto, per loro la denuncia è più difficile: si tratterebbe di mettersi contro la famiglia, gli amici o il fidanzato.

LA SECONDA POSSIBILITÀ
Yuyuan è una signora di mezz’età molto curata, parla un italiano migliore delle altre sue connazionali che lavorano nello stesso tratto di strada in via Paganini, a due passi da Piazzale Loreto. Vive a Milano da vent’anni. «Ho lavorato in una fabbrica e poi come cameriera. È passato solo un anno da quando ho iniziato a stare in strada», racconta. Sta comprando casa, altri due anni per pagare il mutuo e poi pensa di fare ancora la cameriera. «È un lavoro più tranquillo. Ho una figlia di dieci anni in Cina. Va a scuola e vive con la nonna. Non voglio portarla qui. La Cina è meglio dell’Italia adesso. L’economia italiana è diventata pessima».

Il percorso di Yuyuan è quello di tante cinesi. «In fabbrica ci si ammala di stanchezza. Salvo rare eccezioni le operaie dormono e mangiano all’interno della fabbrica. Allora la prostituzione in appartamento o in strada diventa una seconda possibilità». Martina Bristot, esperta di Cina ed ex-ricercatrice presso l’Università di Hong Kong. «Le donne con cui ho parlato non pensavano che avrebbero fatto le prostitute», ci dice. Ma quando chiedi il perché, rispondono che “almeno quello è un lavoro”».

Nonostante siano quasi sempre vittime di doppio sfruttamento, lavorativo e sessuale, le donne cinesi rimangono fuori dal circuito dell’accoglienza e spesso passano dalla reclusione delle fabbriche a quella dei Cpr, i Centri di permanenza per il rimpatrio. Si tratta di strutture pensate per espellere gli stranieri senza documenti. Ma, nella maggior parte dei casi, al termine di sei mesi di detenzione, viene semplicemente consegnato un foglio di via.

La storia di H., tratta dal rapporto “Interrotte”, è esemplare. Il 23 febbraio, giorno del capodanno cinese, va a festeggiare con gli amici. «Abbiamo bevuto molto e la polizia ci ha fermati. Era la prima volta che mi controllavano, ero sempre chiusa in fabbrica, non uscivo mai». La portano alla questura di Prato, nessuno le spiega nulla. Dopo 36 ore la rinchiudono a Ponte Galeria, il Cpr nei pressi di Roma. «Le donne cinesi vivono la reclusione come un’ingiustizia e un torto inflitto dallo Stato italiano», dicono le attiviste di BeFree.

La testimonianza è stata raccolta nel 2015, ma la situazione rimane identica. La Prefettura di Roma, tuttavia, ci ha negato la possibilità di visitare il centro, con la seguente motivazione: «Dietro conforme parere del ministero dell’Interno, non si ritiene opportuno, per il momento, consentire visite».

* I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità delle donne