
Chiuso con gli ultimi ballottaggi il turno elettorale, quell’aria da «poteva andare peggio, poteva piovere» alla quale Zinga, eletto a febbraio a furor di popolo dem, ha improntato il suo incipit di segreteria affrontando la paurosa tornata di europee più amministrative - la sconfitta di Ferrara e la riconquista di Livorno, i 41 comuni persi e il sorpasso sui Cinque stelle, fino ai rocamboleschi casi di Potenza e di Avellino - ecco improvvisamente tutto il credito è arrivato ad esaurimento.
A funzionare è quasi solo il filo di dialogo con il sindaco di Milano Beppe Sala - a proposito di apporti esterni e “campi larghi” - mentre quello con Carlo Calenda, passato il guado delle europee, già zoppica: l’ex ministro e neo eurodeputato continua a giurare di non voler fare un partito tutto suo, taluni ben informati ritengono invece ci abbia ripensato e un partito voglia farlo eccome. Nel Pd invece, come per un tacito accordo, la pax zingarettiana, comunque il più lungo periodo di relativa tregua di cui si abbia avuta notizia almeno dal 2011 ma forse da sempre, ha avuto di botto termine. «Si sapeva che l’incarico di Zingaretti sarebbe cominciato davvero soltanto dopo le europee, il problema è che stenta a cominciare», raccontano dall’interno, nelle stanze nelle quali con il consueto garbo da sinistra borghese si è coniato per Zinga il soprannome di «bello addormentato». Endiadi in cui l’aggettivo conta meno del participio passato - più addormentato che bello - e l’imperativo è conseguente: si svegli.

Mero risorgere delle correnti? In parte sì, figuriamoci. Non per caso, un esperto del genere come Walter Veltroni si è deciso a mettere in guardia il successore dal «correntismo esasperato», il che equivale a metterci sotto la firma. E, non per niente, stile Pd in tour estivo, dopo la riunione ad Assisi degli affiliati di “Sempre avanti” (Roberto Giachetti-Anna Ascani), settimana prossima è prevista a Marzabotto la Summer school di “Fianco a Fianco” (Maurizio Martina), per l’inizio di luglio l’appuntamento di Br a Montecatini (Br sta per Base riformista, è il duo Lorenzo Guerini-Luca Lotti), fino all’apice - per così dire - previsto per il 12 luglio con i Comitati civici di Renzi che parleranno di fake news, nientemeno. A fianco di tanto fervore, si diceva, per quel che riguarda la leadership si è affacciato pure un dubbio che sin qui non aveva pesato poi così tanto. Il fratello del commissario Montalbano è all’altezza del compito immane che gli si para davanti?
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Che il compito sia immane, intanto, nessuno lo nega. A partire dal fatto che i gruppi parlamentari sono stati disegnati a immagine del duo Renzi&Boschi: a Nicola Zingaretti non somigliano per niente. Anzi quotidianamente gli fanno la guerra. Talvolta neanche gli rispondono al telefono, come ad esempio è accaduto davvero nei giorni dell’affaire leghista Armando Siri, quando il presidente dem al Senato, Andrea Marcucci, si volatilizzò al telefono per oltre ventiquattro ore. E in genere tendono a essere centrifughi, come accade alla Camera là dove Graziano Delrio fa il capogruppo esattamente come ha fatto il ministro: nella fantasmaticità delle decisioni, quando non nella franca assenza delle medesime.
Una difficoltà di controllo della truppa destinata a creare più di un problema, se come pare la legislatura proseguirà, nonostante tutto. E a maggior ragione più perigliosa perché nello stesso tempo Zingaretti la nega e la conferma. Come quando intervistato da Bianca Berlinguer ha definito «un palese errore e una gaffe» il sì del gruppo Pd alla mozione a favore dei mini-bot approvata alla Camera, per poi concludere: «Con quel sì non c’entro niente e me ne scuso». Bell’assunzione di responsabilità, entusiasmante esercizio di leadership.
È chiaro, d’altra parte, che questa leadership Zingaretti fatica ad esercitarla. Così come nei video racconta dell’entusiasmante Piano per l’Italia, e lancia novità che bucano lo schermo tipo «rivoluzione verde, meno tasse sul lavoro, più fondi per scuola, università e ricerca», nello stesso modo il presidente della Regione Lazio non riesce a scansare, nelle interviste, le domande sul fratello attore o sul ritorno a sinistra di Fiorella Mannoia. Quesiti ai quali infatti puntualmente risponde, come fosse predestinato a un patibolo fosforescente per tutti e invisibile a lui soltanto.
Per uno che ha uno dei suoi migliori talenti nel confezionare coalizioni e nell’affrontare le elezioni (un capolavoro fu riagguantare la Regione Lazio l’anno scorso, in pieno tonfo del Pd), l’allontanarsi del voto anticipato è una iattura. E invece la gestione del quotidiano è quanto mai difficile. Lo si è visto nella micidiale triade che l’ha impegnato nell’ultimo mese: il caso di Catiuscia Marini; quello di Luca Lotti; quello di Cosimo Ferri. Con le dovute differenze, in tutte e tre le situazioni Zingaretti ha faticato ad imporsi. Persino nel meno complicato, quello della (ex) presidente della Regione Umbria che, indagata a Perugia per abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio e falso, ha avuto bisogno di due richiami prima di decidersi a rendere effettive le proprie dimissioni (la prima volta, inaudito, aveva finito per votare in Regione contro la mozione che la dimissionava).
Non molto felice la gestione del caso Lotti: nel pieno della bufera su Csm, incontri a cena e nomine incrociate, Zinga ha voluto vedere l’ex sottosegretario proprio al Nazareno, ma non ha vegliato a sufficienza sulla comunicazione di quel gesto tanto denso di significato. E così, magia della notizia e abilità della controparte, si è ritrovato a dover smentire di aver dato solidarietà al renziano – insomma se l’è dovuta giocare tutta in difesa.

Ingenuità o approssimazione? «Non si sa quale delle due ipotesi sia peggio», rispondono sconsolati dal partito. Cresciuto nell’universo assai più ordinato del Pci, nutrito di un fare più gerarchico, a tratti impiegatizio, Zinga fatica a stare dietro alla lotta senza guanti dei Lotti&C, o forse non ci si prova nemmeno. «Non è vero che ho chiesto a Ferri di dimettersi», è l’ultima smentita del segretario, che segnala l’ennesima doppia debolezza: non essere riuscito a portare a casa l’uscita dalla commissione Giustizia da parte del deputato Pd, ex sottosegretario dell’epoca Letta-Renzi-Gentiloni, e non essere riuscito a tenere nascoste le (ovviamente indirette) pressioni per ottenerla. Il peso sgocciolato di tutta questa fatica è poi una paradossale opacità: finisce, Zingaretti, per apparire un sostenitore di manovre oscure, proprio perché non riesce ad allontanarle da sé.
Nello stesso modo, dopo aver consegnato con gli ultimi ballottaggi Potenza alla Lega di Salvini con uno scarto di soli 200 voti (c’era al ballottaggio un civico di sinistra, ma nella domenica del voto il segretario dem cittadino ha invitato ad andare al mare), dopo aver consegnato Piombino a Fratelli d’Italia (ha vinto col 64 per cento), dopo aver perso 5 comuni su 9 proprio nel Lazio di cui è governatore, dopo aver insomma guidato come poteva una eredità non sua, Zingaretti è chiamato adesso a dare un profilo al Pd.
Un partito che nel prossimo anno, a partire dall’Emilia, fino alla Toscana, e passando per regioni di peso come la Campania, finirà di perdere gli equilibri che conquistò nell’età d’oro del renzismo. E che, con il suo segretario, sta in un guado: tra il rinnovamento e la fine. Come ha annunciato un trasloco dalla sede del Nazareno che però stenta a concretizzarsi, così Zingaretti giura di voler cambiare tutto, ma sembra prigioniero dei soliti equilibri, peraltro più romanizzati, più rinchiusi nei confini del Grande raccordo anulare.
Per la segreteria prossima ventura, a proposito di novità, circolano ad esempio i nomi dell’ex vicepresidente della Camera Marina Sereni, l’ex sindacalista Marco Miccoli, l’ex responsabile scuola Francesca Puglisi, il veltroniano Roberto Morassut, nonché quello di Andrea Martella, già nominato responsabile social per qualche ora, prima che si scoprisse che non usava i social. Massimo della new entry da sinistra: Massimo Furfaro, ex Sel. Siamo solo all’inizio, si dirà. Bisogna ancora capire cosa intende fare Pier Ferdinando Casini.