Le abitanti di Jinwar vogliono ricostruire la loro esistenza dopo gli orrori perpetrati dall’Isis. Gli uomini sono ammessi se contribuiscono a migliorare le condizioni di vita, ma non possomo fermarsi per la notte. «Siamo qui per lottare. O per necessità. Ognuna ha il suo passato, nessuno giudica»

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«La rivoluzione è basata sulla terra. La terra è la base di tutta l’indipendenza». Lo diceva Malcolm X nel 1963. Lo dicono oggi le donne di Jinwar, il primo villaggio femminista nel nord-est della Siria. Tra questa cinquanta case costruite come si faceva un tempo - acqua, paglia e fango - vivono una ventina di donne che per necessità o per convinzione hanno deciso di ricostruire a Jinwar un pezzo della loro esistenza. Una nuova casa per lasciarsi alle spalle la guerra o una missione per rivoluzionare il futuro delle donne in Medio Oriente.

Jinwar come fuga o Jinwar come lotta. Jinwar accoglie tutte. La base è la condivisione. Pranzi e cene comunitarie dove dalla grande cucina escono cibi semplici come il pane cotto nel forno del villaggio, le zucchine coltivate nell’orto, tutte materie prime che seguono la stagionalità del raccolto. Chi cucina non lava i piatti, gli uomini sono ammessi nella misura in cui contribuiscono, lavorando, a migliorare il villaggio. Ma a nessuno è permesso di restare a dormire.
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A Jinwar vivono solo donne. Una scelta radicale che nasce dalla necessità di garantire un luogo sicuro dove potersi esprimere e realizzare in piena libertà senza dipendenze e condizionamenti.«Nella società per cui mi batto e che spero di vedere, non ci saranno più donne costrette in questi ruoli. Una donna che si trova a dipendere dai vecchi rapporti di potere fra i sessi non può che risultare perdente. Per me oggi una donna esiste solo nella misura in cui è libera. Se dipende dal suo uomo non può essere sé stessa. Secondo me una donna ha perso nel momento stesso in cui a proprio rischio si piega alla dipendenza e rinuncia a fare i conti con la questione della propria libertà personale. La donna è sempre stata idealizzata, ma l’ideale può realizzarsi solo nella libertà». Così scriveva Abdullah Öcalan. Le sue parole sono state fonte di ispirazione per questo progetto di vita alternativa.

Un impegno, quello del leader del Pkk oggi confinato sull’isola di Imrali in Turchia, che ha condizionato la stessa rivoluzione curda in Siria. Il confederalismo democratico di Öcalan - influenzato dal municipalismo libertario e dalla democrazia senza Stato orientata al femminismo e all’ecologismo di Murray Bookchin, dalla teoria del sistema-mondo di Wallerstein e dalle teorie del nazionalismo di Benedict Anderson - ha dato i suoi frutti proprio in Rojava.
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La guerra civile esplosa nel 2011, l’inasprimento del conflitto e il ritiro delle forze governative dal nord-est del paese nel 2012, ha permesso alla minoranza curda di ritagliarsi uno spazio di indipendenza che si è presto scontrato con la minaccia delle formazioni terroristiche. Sconfitto - almeno militarmente - l’Isis nella sua ultima roccaforte di al-Baghouz, nella provincia meridionale di Deir ez-Zor al confine con l’Iraq lo scorso marzo, le forze curde pagano oggi la minaccia del ritiro delle truppe americane.

Resta ancora da capire che destino avranno le centinaia di foreign fighters prigionieri nelle carceri curde, le migliaia di sfollati che gravitano intorno ai campi profughi e sistemazioni di fortuna, la ricostruzione di città come Raqqa rasa al suolo dai bombardamenti della coalizione. C’è poi un’intera società da rimettere in piedi, equilibri confessionali, di potere e influenze internazionali da gestire. I capitoli aperti sono tanti e quello della parità di genere tra i più delicati.
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«Jinwar è innanzitutto un atto politico», spiega Nujin, 28 anni, tedesca, arrivata qui tre anni fa. Come lei sono passate da Jinwar molte donne straniere ispirate dalla gineologia, il movimento femminista diffusosi anche in Europa che intende innalzare la coscienza di genere nelle donne mettendo al centro le loro esperienze, senza coinvolgere lo Stato, ma appoggiandosi unicamente alle proprie forze ed esperienze. In questo senso Jinwar è diventato un luogo di scambio dove il linguaggio dell’emancipazione si mescola a utopie libertarie.

Nujin accoglie comitati, delegazioni e persone curiose di scoprire il villaggio. Ci sono giorni in cui la piazza del villaggio si trasforma in un parcheggio. Il via via è ininterrotto. Ma Nujin è sempre sorridente, accomodante con la sua treccia bionda e i vestiti impolverati. Tra le poche cose che si è portata da Dortmund c’è un diario a cui sono seguiti molti altri. Vivere a Jinwar non è una vacanza, un vezzo o un ritiro sabbatico.

Per Nujin è un impegno pratico ma soprattutto di pensiero, nella convinzione che la rivoluzione, per durare, debba partire dal basso. «Questi proiettili li ho raccolti pochi giorni dopo essere arrivata a Jinwar. Non ci crederesti che anche qui c’è stata la guerra». E della guerra a Jinwar non c’è traccia. La rigenerazione ideologica ha coinvolto anche la terra. Fangosa quando piove, secca d’estate quando si dorme sotto alle stelle.
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Emira si sveglia all’alba e prepara la colazione per i suoi cinque figli. Con i suoi modi spicci «potrei fare la sindaca di Jinwar», ammette scherzando. «Sono arrivata qui con il cuore aperto al mondo. Quando chiudo gli occhi sogno un villaggio pieno di sorelle con cui lavorare e condividere idee mentre i nostri figli crescono, giocano e studiano insieme». L’anno scorso, quando la scuola del villaggio non era ancora stata inaugurata, Emira è tornata in città per far studiare i figli. «Mi è mancato il respiro. Davanti casa c’era solo strada e cemento. Così abbiamo caricato le nostre cose sulla macchina e siamo tornati qui».

Fino a qualche mese fa vicino a casa di Emira viveva Sadiha, divorziata e per questo ripudiata dalla famiglia, con i suoi due figli. Per tre anni non ha visto il figlio più grande che il marito aveva portato con sé in Turchia. «Quando l’ho preso tra le braccia non mi ha riconosciuta. Spero si ricorderà di me quando diventerà adulto e avrà una famiglia sua». Prima di arrivare a Jinwar Sadiha aveva vissuto per strada chiedendo l’elemosina. Poi aveva sentito dell’esistenza del villaggio e aveva fatto domanda per esserne ammessa. Se ne è andata pochi mesi più tardi per arruolarsi nelle Ypj, i battaglioni femminili delle forze curde, lasciando i figli con i nonni. Anche quando viveva a Jinwar la sua casa era vuota. La cucina era vuota. Solo un paio di cuscini appoggiati sulle stuoie in salotto.

«Ho preferito dimenticare la mia vita di prima», diceva davanti allo specchio mentre dipingeva una striscia di sopracciglia. A 15 anni aveva fatto un’operazione per eliminarle definitivamente ma non aveva abbastanza soldi per tatuarle. Così ogni giorno, più volte al giorno, le rimpiazzava con una pennellata dritta e sicura. E nonostante le altre donne del villaggio le dicessero che «make up non è bello» lei non ascoltava nessuna. Era il suo modo per sentirsi bella.
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Come Sadiha hanno lasciato Jinwar anche Sabah e Hanan. Madre e figlia erano arrivate da Deir ez-Zor portando con loro il frigorifero, le mucche, i piccioni e le galline. Dopo aver vissuto per quasi tre anni sotto l’Isis, volevano essere indipendenti. Un’indipendenza materiale almeno, dal momento che il dolore del passato lo avevano inchiodato all’ingresso. La foto del figlio Sultan, morto a Raqqa a 19 anni, troneggiava sul fratello più giovane appoggiato al muro a cavalcioni. Saddam, 15 anni, i baffetti appena accennati, fumava con le movenze di un anziano capo villaggio. Mamma Sabah gli lanciava occhiate rancorose.

Quel figlio le ricordava il marito dal quale era stata abbandonata. Stessa sorte accaduta alla figlia Hanan. L’ex marito si era risposato e i due figli vivono oggi col padre a Deir ez-Zor. «Cosa dovrei dire. Mi mancano, ma cosa posso fare? Chi se n’è andato dalla Siria dice che in Europa è tutto più bello, che i bambini vanno a scuola, che tutto questo, lì, non può succedere».

Il posto di Hanan e Sabah lo hanno preso mamma Fatima con le sue sette figlie. Nassrin, la più grande, ha un sogno: suonare il violino. Ma la famiglia del padre è sempre stata contraria perché - dicevano - non è cosa per donne. «Il suono del violino esprime il mio dolore. È così che me ne libero, facendolo arrivare a chi mi ascolta». La sofferenza di Nassrin è legata alla perdita del padre, colpito dalla scheggia di una mina durante l’assedio di Kobane.
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Dopo la sua morte, non avendo fratelli, lo zio l’ha obbligata a sposare il cugino. Lei si è rifiutata, ma è stata costretta a vivere a casa sua subendo ogni tipo di vessazione. Finché Fatima non ha capito la situazione e ha portato tutta la famiglia a Jinwar. «A Kobane vedevo papà in ogni angolo. Non avremmo potuto vivere lì a lungo». Con il tempo quel ricordo è destinato ad affievolirsi, merito anche delle donne di Jinwar che «lavorano sodo e io potrò finalmente ricominciare a studiare».

Lutti, solitudine, abbandoni. Destino, colpa o merito. Non importa. A Jinwar la base comune è l’assenza di giudizio. «Siamo tutte donne - spiegano durante una riunione - a prescindere dall’etnia e dalla religione. L’unica differenza è quanto il sistema capitalistico ci abbia contaminate e quanto dobbiamo aiutarci l’un l’altra per fare pulizia». In quest’isola di derive e approdi, nessuna giudicherebbe Melka per esempio, sordomuta, che ha perso la carta d’identità e non ricorda quanti anni ha. Berivan, la figlia, ha 12 anni e non ha mai visto il padre. Dal miglioramento interiore e collettivo passa anche l’accettazione del prossimo. Il messaggio che Jinwar vuole dare alle donne del mondo è che non esiste una donna giusta o sbagliata, ma solo donne consapevoli.

In cielo sfrecciano le rondini. Badra rientra dal pascolo e a casa l’aspettano i suoi sette figli. In ciascuno rivede l’amore della sua vita, quel soldato morto in guerra a Shaddadi. «Sono ancora magra nonostante 14 gravidanze», ride. «Se non fosse stato ucciso avremmo continuato». Gli altri sette figli sono morti di parto e degli altri sette cinque vanno a scuola e due «giocano a fare le scimmie». Per loro vorrebbe solo che trovassero la propria strada, «per me», conclude, «non ho desideri. Mi basta aver conservato il cellulare di mio marito, così ogni volta che squilla è come se lui fosse ancora qui con me».