
È un quadro che coincide largamente con i miei sentimenti. Da me percepito con l’urgenza di corrispondere, anche personalmente, alla fiducia così ampia che mi è stata accordata alle primarie e alle conseguenti responsabilità che mi premono nell’animo in ogni momento della mia attività.
Nei tre mesi dopo il congresso, il nuovo gruppo dirigente cosa è riuscito a realizzare? La domanda è sulla bocca di tanti.
Cerco di riassumere con il massimo dell’onestà.
Intanto, un confronto interno più decente e costruttivo. Il partito si sarebbe letteralmente spezzato se non si fosse recuperato un minimo principio di responsabilità comune, di rispetto nel dialogo e nel confronto reciproco.
Rivendico questo risultato, seppure esso ha imposto la fatica di ricostruire una rete, piuttosto che la soddisfazione di realizzare strappi brillanti (spesso destinati a produrre effetti effimeri).
Inoltre, siamo riusciti ad arrestare una possibile e assai probabile vorticosa discesa elettorale. Ci siamo assestati. Anzi, a guardare bene i risultati europei e amministrativi, il Pd accenna ad una ripresa e ad una inversione di tendenza. Che sono state colte dalla maggioranza dei commentatori e dai nostri elettori e militanti, convinti di essere di nuovo in cammino, dopo la lunga stasi vissuta dopo le elezioni politiche del 4 marzo.
Oggi il Pd è la seconda forza politica italiana. Era scontato? No. È stato il frutto del caso? No. Ci sono state scelte e comportamenti politici.
Infine, abbiamo posto i primi, ma significativi, mattoni di un nuovo indirizzo politico e programmatico, tanto più decisivo in quanto le condizioni politiche attuali hanno rimesso con i piedi per terra il bipolarismo italiano, in un confronto tra destra e centrosinistra; ed impongono al Pd di essere il pilastro dell’alternativa a questo scellerato governo.
Eppure, come dicevo, avverto una insufficienza e l’esigenza di una migliore qualità del nostro agire.
Non ci possiamo dare troppo tempo.
Il problema, ridotto all’osso, è che mentre la destra ha trovato il suo dominus, forte e coeso, nella Lega ormai padrona del campo a noi avverso (con i 5Stelle confuse comparse della strategia di Salvini, che governa il suo partito da sei anni) il campo democratico è ancora fragile e informe, abitato più da velleità che da realtà, con il solo Pd a farsi carico di una resistenza necessaria e di una voglia di riscossa che a macchia di leopardo si sta manifestando anche nella società italiana.
Come procedere?
Cacciari invoca una radicalità nel pensiero, come volontà e capacità di andare alla radice delle cose.
Dov’è la radice dei nostri mali e dunque delle correzioni da fare? Trattando l’essenziale di questo argomento, spero di rispondere anche ad alcune delle tante domande specifiche che mi sono state poste.
I rapidissimi processi globali degli ultimi due decenni hanno migliorato il reddito e le condizioni di vita di miliardi di persone, in particolare nel continente asiatico. Anche lì sono aumentate le distanze, tuttavia le fasce più povere sono diventate meno povere e si sono aperte ad una prospettiva di ulteriori passi in avanti.
In Occidente non è stato così. I ceti più forti economici e finanziari, internazionalizzati e sfuggenti ai loro doveri nei territori di origine, hanno realizzato immensi guadagni, i poveri assoluti sono aumentati (in Italia fino a 5 milioni) e il ceto medio è precipitato nella precarietà, privato di quello status di sicurezza e di relativo benessere conquistato, anche nel nostro Paese, dopo la guerra.
La sinistra non ha visto in tempo questa tragedia sociale. Non si tratta affatto solo degli ultimi anni. E non l’ha vista in Italia, ma anche in Francia, in Inghilterra e, soprattutto negli Stati Uniti, che alla fine hanno partorito Trump.
Il pensiero progressista si è illuso che l’innovazione e l’accumulo di ricchezza avrebbero portato giù per li rami un vantaggio per tutti. Scambiando a volte il nuovo che avanzava, con il vecchio che ritornava a vincere, imponendo squilibri e nuove ingiustizie.
La politica ha messo in ombra il tema delle vittime della globalizzazione, dei tagli dello stato sociale e dei servizi, della contrazione dei salari, di lavori incerti e sottopagati; i quali si sono sentiti abbandonati, ignorati dal dibattito pubblico, pezzo morto in una società che cambia, che ha nuovi protagonisti e nuovi paradigmi.
Un maggiore equilibrio sociale invece non può essere smarrito, è giusto in sé, perché toglie dalla sofferenza milioni di persone e rappresenta anche il vero antidoto al dilagare di una classe dirigente illiberale, autoritaria che ha un profilo popolaresco ma un cuore vecchio, duro e, alla fine, classista.
Ripeto la vera e propria emergenza dell’aumento delle disuguaglianze è stata considerata marginale; da affrontare in termini di assistenza piuttosto che come leva e paradigma per ridisegnare una democrazia migliore e più funzionante.
Se non si rimuove questo “macigno” ideologico secondo il quale è vecchio tutto ciò che affronta i nodi strutturali e la concretezza degli interessi in campo, la stessa parola “riformismo” diventa astratta, manipolabile, disincarnata. Una sorta di preghiera domenicale per tacitare la coscienza progressista nel mentre la vittoria sul campo sarà delle forze imponenti del nuovo capitalismo che domina il mondo; in un comando talmente solido da rifiutare persino gli ultimi residui di un possibile compromesso sociale e non accettare alcun contrappunto politico.
Ma da tale macigno ci si può liberare solo a condizione che la lotta per la giustizia diventi realmente un nuovo principio ordinatore dell’insieme della società che vuole crescere, produrre, innovare e complessivamente civilizzarsi.
Questo nesso la sinistra non è riuscito a illuminarlo e a farne il motivo di una unità larga del popolo italiano.
E, invece, le esperienze parlano chiaro. Una maggiore coesione civile, la partecipazione e la corresponsabilizzazione dei lavoratori, una riduzione dello scontento, dei conflitti, delle divisioni, una promozione dei servizi e degli investimenti per migliorare le infrastrutture del territorio, un sostegno alla creatività, all’ingegno italiano, alla innovazione e alla ricerca sono le condizioni affinché le stesse imprese possano produrre meglio, di più e in modo competitivo negli agguerriti mercati mondiali.
O vince la fiducia in questa visione, o inevitabilmente emergeranno l’egoismo dei forti e la disperazione dei deboli, a quel punto stabilmente trasformati in una subalterna e illusa massa di manovra della destra risorgente.
D’altra parte anche nel passato le classi dirigenti italiane più lungimiranti si sono mosse all’altezza di questo pensiero. Dal banchiere cattolico Bazoli, a grandi imprenditori come Olivetti o Ferrero per ricordarne solo alcuni.
Naturalmente il patto fiscale è fondamentale per orientare le politiche e lo sviluppo. E misura il grado di civiltà di un Paese. Ecco la nostra lotta contro la flat tax, irriducibile e intransigente. La flat tax è esattamente il contrario di quello che serve. Una tassa, lo dice la parola, piatta in una società a gradini, con differenze di ricchezza abissali e con sbalzi di condizione che sembrano “montagne russe”. Tutte le simulazioni circa la proposta del governo dimostrano che essa produrrà fortissimi vantaggi ai ceti più abbienti. Denaro pubblico che se ne va, malamente sprecato, per consolidare le distorsioni più preoccupanti della comunità nazionale.
Ho detto più volte che non mi pare opportuno introdurre una “patrimoniale”.
Il Pd propone, tuttavia, come prevede la nostra Costituzione, un fisco progressivo. Delle aliquote proporzionate alla ricchezza del contribuente. Chi ha di più deve dare di più, chi ha di meno deve essere liberato da una imposizione fiscale spesso insostenibile.
Per certi aspetti è persino avvilente discutere di queste ovvietà. Ma non si avverte uno sdegno adeguato, anche da parte dei media, attorno alla proposta del governo sul fisco.
È questa una visione pauperistica, di decrescita, chiusa nei confini degli interessi di alcuni ceti, o, se ancora esistesse, di una classe omogenea e antagonista?
Esattamente il contrario.
Proponiamo, infatti, una riduzione drastica del prelievo sul lavoro, che pesa sui dipendenti e sui produttori. Vanno sostenuti i lavoratori e le imprese, per rendere sempre più forte la nostra capacità di innovare ed esportare. La riduzione del cuneo fiscale, secondo le nostre previsioni, può garantire uno stipendio in più all’anno a tutti gli occupati.
Le risorse si debbono trovare certamente nell’abbattimento dell’evasione fiscale, nel taglio agli sprechi, ma soprattutto nella montagna di denaro che si accumula improduttivamente: le transazioni finanziarie e speculative, i profitti sfuggenti delle grandi multinazionali, a partire da quelle del web, la remunerazione scandalosa di manager talvolta bravi, ma spesso falliti e dannosi.
Potrei continuare.
Ma penso sia chiaro: il Pd deve chiamare a raccolta l’Italia sana che produce e che lavora. E, al medesimo tempo, bonificare le rendite, le ricchezze che si autoalimentano, tutto quel mondo speculativo, ampiamente emergente di intermediazioni affaristiche e lobbistiche, di corporazioni professionali forti dei rapporti con la politica e la grande impresa pubblica, a scapito dei tanti giovani professionisti sfruttati, precipitati in una condizione semiproletaria anche tra le nuove figure professionali e creative.
Accanto al mondo che produce e che va sostenuto e premiato, in questi ultimi tempi si è allargato l’esercito dei disoccupati. D’altra parte il governo gialloverde ha generato sfiducia negli investimenti, le esportazioni sono calate, il Pil è fermo.
Per questo motivo siamo favorevoli, in attesa dei frutti di un auspicabile processo riformatore, ad un sostegno diffuso a chi non ce la fa. Solo una sprezzante sinistra elitaria non comprende il dramma di tante famiglie italiane, che letteralmente stentano a vivere e nelle quali si condividono i redditi. Avremmo dovuto con il nostro governo sostenere con assai più forza il Rei. Oggi il reddito di cittadinanza è un provvedimento indistinto, confuso, mal gestito. Una mancia, che non dà prospettive a coloro che lo percepiscono.
Ma la vera questione è la mancanza totale di una prospettiva di investimenti, di crescita, di riforma economica, di sviluppo nei settori strategici del futuro.
In questo modo la condizione dei giovani disoccupati diventerà un destino inamovibile, una zona permanente di abbandono, di rinuncia, di vuoto di senso. E l’Italia si spaccherà ancora di più tra chi potrà cogliere le occasioni globali per diventare sempre più forte e una massa estesa e inerte, da mantenere eternamente in una condizione di miseria.
Il Pd, dunque, non ragiona in alcun modo sul bilancio pubblico come fosse un guardiano protervo che giura sul limite di deficit del 3 per cento , ma domanda a quale scopo questi margini maggiori di spesa vengono richiesti.
Per elemosine elettorali, in chiave populistica, che non produrranno alla lunga niente di buono, o per un potente programma di investimenti per l’innovazione, la ricerca, la nuova economia verde, e per il rafforzamento della competitività italiana?
Una cosa, infatti, sono i margini di flessibilità concordati con l’Ue e motivati da riforme benefiche per la comunità, altra cosa è lo scasso dei conti pubblici per afferrare un “bottino” da consumare per mere esigenze di consenso.
Lo scasso del bilancio pubblico crea sfiducia, la sfiducia deprime la voglia nei mercati di investire sull’Italia, e ciò a sua volta fa impennare lo spread, che è una tassa sulla produzione italiana.
Perché un imprenditore italiano, se intende vendere lo stesso prodotto che vende un imprenditore tedesco, paga un costo di produzione maggiorato dello spread, cioè del peso del maggior costo del denaro. A quel punto anche la nostra straordinaria capacità di “creare” le merci non basterà a mantenerci competitivi.
Occorre, in sintesi, una svolta che rimetta al centro l’ipotesi di una rivoluzione green dell’economia, la creazione di lavoro, un massiccio investimento sulla conoscenza, una maggiore equità fiscale, il rilancio degli investimenti sulle infrastrutture, l’apertura di un nuovo cantiere per semplificare l’Italia, il funzionamento della sua burocrazia. Una “economia giusta” un modello di sviluppo sostenibile e inclusivo che permetta concretamente di “proteggere” le persone nelle loro scelte di vita. Il Pd sarà il più grande partito italiano ambientalista e della giustizia sociale.
Insomma, con la destra populista, l’Italia è in pericolo. Lo dico senza enfasi, ma sulla base dei dati della realtà, ma essa verrà sconfitta solo quando sarà percepibile un’altra agenda possibile.
Ecco perché il Pd, fulcro di una alternativa, non può, neppure per un istante, abbandonare la sua vocazione maggioritaria. Che, si badi bene, non è una volontà politicistica di occupare tutto il campo progressista, liberale e democratico che si muove contro la destra, né una boriosa e solitaria autosufficienza in nome della purezza di un riformismo “ideale” e perfetto, piuttosto è l’ambizione di parlare a tutti gli italiani proponendo un futuro credibile e migliore all’insieme della comunità. Se la crisi è di “sistema”, a questa altezza occorre muoversi. Non un partito della nazione, semmai per la nazione. A partire dalla piena coscienza della fragilità delle istituzioni e della democrazia italiana, che il bipolarismo anomalo che si è in qualche modo insediato non ha sanato, piuttosto aggravato.
E dunque sempre si impone al Pd e al campo democratico non solo il compito di proporre una alternativa di governo e democratica, ma anche quello costituente per rinnovare e difendere la Repubblica e quello di una riforma, come ha ricordato Cacciari, culturale, civile e morale troppo assente in questi anni.
Un Pd aperto, unitario, strategico che unisce culture e sensibilità diverse in una missione di complessiva riforma nazionale. Questo è quello che serve. E una leadership che unisce e porta avanti tale processo corale non è una leadership silente, piuttosto fa progredire tutta la situazione.
Ma è già in campo questo Pd? No.
Ci sono i primi tentativi, le prime esperienze.
Ci sono gli straordinari successi in alcune grandi città (a partire da Firenze, centro di cultura internazionale) che dimostrano l’efficacia di avere un leader riconosciuto, un programma innovativo e una partecipazione unitaria, civica e larga dei cittadini.
Occorre, però, realizzare presto una “rivoluzione” organizzativa. La “forma” politica è un decisivo contenuto. Molti, ed io per primo, si lamentano delle correnti, del comando solitario di tanti feudatari locali, delle difficoltà dei circoli, di una costante discussione sugli organigrammi e sul potere, a scapito delle migliaia di attivisti, molti dei quali giovani, che conservano, nonostante tutto, sincerità, pulizia, entusiasmo.
Dalle lamentele occorre passare ai fatti. Non sarà facile ma è ineludibile. Il Pd, lo dice la parola, deve essere una casa aperta a tutti, trasparente, realmente democratica, intellettualmente ricca e viva.
Ma allora le correnti non devono essere di potere ma trasformarsi in associazioni di ricerca, di cultura politica, di tendenza ideale. Perché la democrazia non sia il bilancino tra fazioni, piuttosto il confronto in sedi aperte (Piazza Grande, le agorà) dove i nostri militanti nell’esercizio delle loro responsabilità e libertà personali si incontrano, discutono e decidono sulle grandi questioni che riguardano l’Italia; dove il gruppo dirigente nazionale lavora, nelle sue differenze, come un organismo collettivo con la valorizzazione di tutte le personalità di cui è fornito; dove il limite dell’azione politica è ben disegnato nel rispetto di altri poteri economici e istituzionali. Ripeto, è una rivoluzione che scardina rendite e posizioni consolidate.
Molti giustamente si domandano se il Pd, pur rinnovato, possa bastare a vincere contro la nuova destra italiana, che ha ancora molto vento nelle vele. No. Penso che non possa bastare. Non ho alcuna gelosia verso possibili nuovi soggetti politici in grado di allargare e diversificare ulteriormente il campo democratico. Tuttavia, per essere utile, occorre che tale articolazione non sia la divisione del consenso che già c’è, ma un aumento complessivo di esso. Altrimenti il saldo sarebbe uguale a zero con una superfetazione del solo ceto politico. Non sta a me dare patenti o autorizzazioni. Se alcuni hanno la convinzione che un polo moderato e liberale può attrarre nuovi consensi anche da Forza Italia è utile che tentino. Se nell’elettorato M5S si apre una spaccatura, e la parte più aperta e democratica intende contribuire ad una alternativa, è utile che tenti: in molti comuni già ciò è avvenuto con la nascita di un nuovo civismo.
Questo vale anche per i Verdi, per una sinistra di governo dispersa, per un mondo civico che non si sente rappresentato. Decisivo, però, è che ognuno realizzi una innovazione di forme e di programmi, altrimenti si ripeteranno i magri risultati elettorali del passato. Insomma, ognuno deve fare la sua parte e non caricando sul Pd, che sta lentamente decollando, la zavorra delle proprie insufficienze o incertezze.
Infine, Cacciari insiste molto sulla non sicura tempra dei leader della sinistra, sempre pronti a scadere nel compromesso quotidiano e nella impaurita conservazione del potere. Non cadrò in questo errore.
Non so se sarò all’altezza. Lo dico con sincerità. Ma sicuramente sono consapevole che si ripropone un tema mai definitivamente risolto in Italia; quello della sua unità sostanziale in quanto nazione, di uno Stato forte e autorevole, riconosciuto e amato dai cittadini; di una condivisione di un costume civile, di regole condivise, di un amore, oltre il particolare, del bene comune.
Dopo i fasti del Rinascimento, il disastro della storia italiana è stato contrastato in certi momenti da significative élite dirigenti. Ma non è stato risolto stabilmente. Così l’Italia è esposta più di altri alla demagogia populista e all’egoismo di ogni sua parte.
Ecco perché ho parlato di una vocazione maggioritaria, con un respiro costituente e con una forza di coesione morale e civile in grado di realizzare una statualità basata sul consenso e su una forza di coesione.
Come ricorda in un bellissimo libro su Machiavelli Alberto Asor Rosa, non riuscirono a fare nulla di simile i principi all’inizio del ’500; e scesero gli stranieri (i barbari) ad invadere l’Italia. Non ci riuscì neppure il Risorgimento, che lasciò la Penisola ancora divisa e squilibrata.
Tanto meno c’è riuscita la cosiddetta Seconda Repubblica, assente sulle riforme istituzionali, elettorali e senza soggetti politici in grado di svolgere nelle condizioni nuove la straordinaria funzione di rappresentanza dei grandi partiti di massa di un tempo.
Il punto, e non so se sia un’occasione o un danno, è che questa esigenza si ripropone oggi nel momento in cui la nostra soggettività statuale deve alimentare e fondersi con la costruzione di una statualità europea. Questa è la prova.
L’Europa va cambiata nelle sue politiche e nei suoi indirizzi.
E tenteremo di farlo. Ma l’Europa rischia di assomigliare all’Italia del Cinquecento.
Una meravigliosa terra di cultura, di benessere e di civiltà, ma senza stato e senza forza (direbbe Machiavelli senza “eserciti propri”).
Allora rivinceranno i “barbari”, con i loro Stati-Continente; organizzati, sicuri di sé, più aggressivi e dotati di forza propria. La Cina, l’India, la Russia e gli Stati Uniti di Trump.
Sono un sogno gli Stati Uniti d’Europa? Forse. Ma molti sogni si realizzano quando emerge una necessità storica e si vuole evitare la crisi di una intera civiltà.
Per realizzarli abbiamo bisogno che si riorganizzi una comunità plurale, ricca e nuova, ma unita negli obiettivi. È una grande difficile scommessa da portare avanti con tutto il coraggio e la passione possibili.