
Parlano qui, direttamente, in prima persona, i due protagonisti della ricostruzione dell’opposizione alla maggioranza gialloverde, quasi un congresso. Due amministratori che si misurano quotidianamente con il governo, con storie molto diverse, anzi opposte. Sala è un manager che è arrivato ad appassionarsi alla politica solo di recente: la politica e non solo le politiche, la politica con le sue cadute, le tensioni, la ricerca di alleanze, l’esigenza di comunicazione, il tentativo di dare una risposta alla questione più politica di tutte, ovvero la necessità di essere qualcuno, un soggetto, un partito.
Zingaretti è il politico di professione, nato e cresciuto nella federazione giovanile del Partito comunista, che da oltre dieci anni si è rivelato amministratore prudente e saggio, come presidente della provincia di Roma e poi della regione Lazio. Da quattro mesi è tornato alla politica di partito come leader di una formazione che lotta per sopravvivere, con i notabilati che combattono per resistere, una fazione che minaccia la scissione, i gruppi parlamentari indocili, i nuovi dirigenti che faticano ad emergere. Sala è invece l’immagine di un’Italia che vince e di una sinistra che sorride: qualcosa che non si vedeva da tempo, un’eccezione.
La conquista delle Olimpiadi 2026 per Milano e Cortina arriva nei giorni più grigi per il governo nazionale. I vertici europei inconcludenti, in cui il premier Giuseppe Conte si aggira da alieno, escluso dai tavoli che contano sugli organigrammi e in catenaccio per evitare la procedura di infrazione. Mentre i mercati sono in agguato, non hanno ancora attaccato ma aspettano l’incidente, sono in attesa sempre più corta: ieri erano le elezioni europee, oggi sono i tempi della trattativa con Bruxelles, e poi le elezioni anticipate e cosa farà Matteo Salvini.
La categoria dell’incidente, che nella politica italiana ha una sua (ig)nobile tradizione, è stata evocata in questi giorni anche dal rientrante Alessandro Di Battista, che ne attribuisce in anticipo la responsabilità a Matteo Salvini. I franchi tiratori, l’autoaffondamento, la divisione insanabile che permette a uno dei firmatari del contratto di rompere, dando la colpa all’altro. C’è un’aria di vecchia Italia, nella maggioranza e nel governo del cambiamento.
La resa dei conti tra i puledrini di razza, non sono più i cavalli della Dc nella stagione gloriosa Amintore Fanfani e Aldo Moro, e neppure i finti-amici della Quercia post-comunista Massimo D’Alema e Walter Veltroni che giusto un quarto di secolo fa si contesero la segreteria del Pds a colpi di effusioni a mezzo stampa (zio Walter e zio Massimo, si lasciavano chiamare sui giornali dalle rispettive famiglie).
Un lucido combattente politico di 95 anni come Emanuele Macaluso li fucila nella bella intervista di Carmine Fotia: personaggetti, capetti senza spessore. Di Maio e Di Battista, piccoli leader, ordiscono minuscole trame di cui potrebbero restare vittime, scambiandosi bacetti e pugnalate. Il presidente del Consiglio Conte si muove nella trattativa come il cerimoniere di un paese politicamente irrilevante.
E Salvini, perfino lui, il Capitano che-tremare-il-mondo-fa, sembra aver paura di prendere in mano l’intera posta, la sua reazione alla vittoria di Lombardia e Veneto nella corsa alla sede delle Olimpiadi non è stata quella del grande leader nazionale ma di un mediocre capopartito soddisfatto delle sconfitte altrui (i 5 Stelle che hanno detto di no ai giochi a Roma e a Torino), si attarda sul suo gioco preferito, l’unico che sa svolgere senza incertezze: la crudeltà. Il ministro dell’Interno che si schiera per bloccare in mare la Sea Watch 3, che utilizza numeri decrescenti di esseri umani, da poche centinaia a poche decine, per rivendicare la sua leadership, è già un’immagine feroce e orribile del passato, una coazione a ripetere, sempre lo stesso tasto, lo stesso tweet da azionare.
Un anno fa Salvini costruì il suo consenso sul blocco della nave Diciotti, appartenente alla guardia costiera della marina italiana, e costrinse mesi dopo il Movimento 5 Stelle a rimangiarsi un pezzo della sua identità con il voto contrario all’autorizzazione a procedere per il ministro nell’aula del Senato. Ora ci riprova: il gioco è sempre più lento e scontato, ma anche drammatico e disumano. Nell’attesa di capire se è il tassello di una nuova campagna elettorale oppure soltanto un diversivo per mascherare un’incertezza strategica e forse esistenziale.
Sono le scene di ieri. Come al passato, anche se sono appena arrivati al potere, sembrano appartenere quei solerti amministratori leghisti (il servizio di Emanuele Coen sull'Espresso) che mettono le mani sul festival culturali nel nord del Paese, rimuovono gli striscioni che chiedono verità e giustizia per Giulio Regeni, provano a condizionare il dibattito politico estivo. Sono il nuovo, ma appaiono vecchi. In buona compagnia, forse, in Italia e in questa Europa che a trent’anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino appare come una fortezza incartapecorita.
Cominciamo con questo numero un racconto a più voci dai paesi dell’ex blocco sovietico tre decenni dopo la svolta storica, con un reportage di Francesca Mannocchi e le foto di Alessio Romenzi dalla Romania, dal quartiere di Livezilor di Bucarest che racchiude tutte le contraddizioni, le speranze e le tragedie del comunismo reale e di questi decenni. Un secolo fa la sinistra fu, lo scrive Giuseppe Genna, soviet più elettricità, dunque il soggetto rivoluzionario e l’innovazione. Oggi il soggetto non c’è, la rivoluzione neppure e l’innovazione fa paura.
La sinistra del XXI secolo si aggira come una sopravvissuta tra le nuove sfide. L’ambiente, i giganti del web che si fanno Stato battendo moneta, il lavoro trasfigurato dalla robotizzazione. E parole antiche che comprendono tutto: giustizia sociale e disuguaglianza. Vecchia, vecchissima è la destra leghista che governa l’Italia con la sua intendenza a 5 Stelle. Ma altrettanto vecchia è una sinistra che non sa fare i conti con questa nuova agenda.
Ora sembra fantascienza e se si dovesse votare a settembre ci saranno da fare le barricate per non prenderle. Con qualche mese in più, invece, qualcosa di nuovo si può costruire. Per pronunciare un verbo poco olimpionico. Non soltanto partecipare, ma vincere.