Anche a sinistra c'è chi è caduto nella trappola e davanti al peggio resta in silenzio per paura dei sondaggi
È l’ultima tragica e perdente ritirata dei pavidi: l’invito al silenzio.
Silenzio, ci dicono: non parlate di migranti, che fate il gioco di Salvini. Non parlate di migranti, che a ogni Sea Watch crescono i consensi della Lega, che a ogni Carola si sposta più a destra il Paese. Non avete visto l’ultimo sondaggio brandito da Luca Morisi su Facebook? E allora zitti, non parlate di migranti, bisogna fare quello che piace alla gente. Fare “quello che piace alla gente”, anche buttando a mare - in un mare pieno di cadaveri, peraltro - ogni straccio d’etica laica o cristiana, ogni residua possibilità di restare umani. Quindi chiudiamo tutti insieme i porti e gli occhi, sbarriamoli ben bene e rimandiamo le persone a farsi violentare e torturare in Libia, altrimenti il prossimo Pagnoncelli regalerà un altro mezzo punto in più al ministro della paura - e il loro sangue non vale certo mezzo punto nei sondaggi.
Quale tsunami deve avere attraversato la testa dei tanti - a sinistra, sto parlando della sinistra - che ragionano così?
Quale gigantesca inversione di pensiero può averli portati dall’ottimismo della volontà alla rassegnazione dell’ignavia? Quando è successo che abbiamo venduto la decenza per due monete di falsa convenienza? Dove si è persa, esattamente, l’idea fondante dell’egemonia culturale da rovesciare, dell’azione politica e intellettuale per capovolgere il consenso, strada per strada, casa per casa, scuola per scuola? (a proposito, quando Gramsci scriveva dal carcere l’ottanta o il novanta per cento degli italiani era fascista, ma non risulta che il fondatore del Pci abbia smesso di farlo per non turbare lo spirito degradato del suo tempo).
Eppure è proprio questa la risacca morale in cui ci vogliono spingere: rinunciate, lasciate perdere, non conviene. Ma a Berlino nel 1933 ci saremmo rifiutati di difendere gli ebrei perché altrimenti aumentavano i consensi degli elettori tedeschi al partito nazista? Sarebbe interessante avere una risposta da chi oggi ci invita a nascondere la testa sotto la sabbia di Lampedusa.
Rinunciate, lasciate perdere, ci dicono. E non riescono a capire che cosa significa davvero - oggi, qui - rinunciare e “lasciar perdere” sulle Sea Watch, sulle Ong, sui Mimmo Lucano, sui Baobab, sulle Mediterranea. Perché se il prezzo da pagare fosse solo abbandonare al loro destino un pugno di attivisti, chissà, forse con un po’ di cinismo si potrebbe anche pagare. Ma una volta “lasciata perdere” quella battaglia lì, qualcuno sa a quale domino ci toccherà di assistere? Che cosa resta di tutta la diga se il piccolo olandese Hans toglie il dito dal buco? Non è che per caso a “lasciar perdere” si spiana la strada non tanto alla pancia del Paese quanto al suo maleodorante intestino, ingrossato e malato?
Eppure abbiamo già visto cosa c’è lì dietro, che cosa tiene nascosto nelle mani quel pezzo d’Italia a cui ci dovremmo arrendere: la pena di morte, le armi libere, il diritto alla vendetta privata, la sopraffazione per etnia o classe o genere, l’omofobia, la nuova subalternizzazione delle donne al potere muscolare machista, l’insofferenza per le diversità e le minoranze, una società ipocrita fatta di “decoro” e “ordine” che servono solo a coprire la crescita di sfruttamento e disuguaglianze, con il sottofondo di un capitalismo della sorveglianza pulito e levigato, senza smagliature e a passo dell’oca.
Quando avremo mollato al suo destino Carola per “non cadere nel gioco di Salvini”, ci ritroveremo con il gioco di Salvini già compiuto, con la realtà quotidiana già permeata dei suoi disvalori autoritari e con la tacitazione del dissenso non solo civile, ma anche (soprattutto) sociale. Una volta che avremo “lasciato perdere” quel difficile tema lì - i migranti - avremo insomma “lasciato perdere” di fare una scelta davanti a un bivio dirimente. E oltre quella linea ormai ci troveremo.
Ma come sempre avviene nel grottesco, accanto al tragico non manca il ridicolo.
In base a quale raffinata strategia politica si può pensare davvero che la sinistra aumenti o consolidi i suoi voti emulando la destra? Non è bastato a smentire questo teorema il trentennio in cui questo è avvenuto sulle politiche economiche? Vogliamo fare il bis su quelle umanitarie? Pensiamo sul serio che arrendendosi agli slogan stronzisti la sinistra riguadagnerà la maggioranza? E perché poi all’originale si dovrebbe preferire un’imitazione? Qui, appunto, si sconfina nel comico, così come comico è stato il risultato elettorale del massimo vessillifero di questa dottrina, fresca fresca di attuazione, il 4 marzo di un anno fa, nel collegio di Pesaro e Urbino. A imitare l’avversario non si perde solo l’anima ma anche le elezioni, il che rende tristemente inutile l’aver prima perso l’anima.
Poi, accanto al calcolo sbagliato, purtroppo c’è anche altro, cioè la paura, di cui sempre si nutre l’ignavia. Perché non è affatto divertente - chi lo ha provato lo può testimoniare - diventare il bersaglio di un capo o sottocapo politico che vi getta in pasto ai suoi cani sui social. Il meccanismo è semplice, consolidato, funzionante: il politico in questione non vi attacca quasi mai direttamente, si limita a prendere una vostra frase e a metterla sui suoi account ( o a farli mettere da pagine affini) con una piccola derisione, lasciando che poi il lavoro sporco lo facciano i suoi follower. Segue infatti - pavloviana - una coda infinita e deliberata di insulti, minacce, offese, allusioni, fotomontaggi, sberleffi e altro. Se sei donna, di più. Comunque in mezz’ora la torma vi ha già sbranata/o. Ed è naturale chiederti allora chi te lo fa fare di affrontarla, chi te lo fa fare di esporti, di parlare in pubblico, di scrivere articoli, post o libri. Abbiamo tutti una famiglia, una vita, una casa, e tutti vorremmo dormire tranquilli la notte, credendoci in pace con il mondo. Così a un certo punto, senza nemmeno accorgertene, decidi che quel giorno non hai voglia di scrivere nulla sui social, che per un po’ non ti va più di esporti come prima, che non ti importa poi così tanto della barbarie dilagante: non ne puoi più di farti divorare, com’è più piacevole frequentare soltanto i tuoi quattro amici di sempre. E anche così inizia la resa, anche così si spiana la strada al peggio.
E la resa avviene anche
quando cominciamo ad avere soggezione perfino a dire che di peggio si tratta - non sia mai, poi ci accusano di “superiorità morale”. Ma non siamo noi a essere “superiori”, sono loro che amano rotolarsi nel fango, sono loro che si gonfiano le vene del collo urlando “puttana” a Carola e “muori zingara” a una bambina, sono loro che si drogano d’odio non solo sui social ma nei loro mille megafoni, dalle radio della Confindustria ai quotidiani fasciotrash, tutti cugini tra loro e ogni giorno tra loro in gara per il titolo più bavoso, per l’attacco personale più infame, per il negazionismo più assurdo o il razzismo più da fogna. Il tutto condito da un onanistico compiacimento per la propria presunta scorrettezza politica che è in realtà solo comodo e remuneratissimo neoconformismo prono al potere.
Presto o tardi, però, se avremo il coraggio di non togliere il dito dal buco nella diga, anche questa tempesta sarà passata - com’è passata l’altra iniziata giusto un secolo fa. E magari quel giorno avremo attorno qualche figlio o nipote che ci chiederà dov’eravamo, cosa abbiamo fatto, cosa abbiamo detto.
Ecco, sta a noi oggi decidere che cosa potremo in verità rispondere allora.