Torturati e sotto le bombe: così muoiono i migranti in attesa di un’evacuazione umanitaria, immediata, che non c’è. Mentre l’europa tace e Salvini accusa Ong e magistrati
Martedì 2 luglio sera, Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3 è tornata libera. La Gip di Agrigento Alessandra Vella ha smontato le accuse della Procura, non convalidando l’arresto della trentunenne tedesca che ha infranto il divieto di entrare nel porto di Lampedusa, decidendo di forzare il blocco della Guardia di Finanza, per far sbarcare 40 migranti, a bordo della nave da 16 giorni.
L’ordinanza della Gip ha ribaltato l’ipotesi della Procura: «Il decreto sicurezza bis non si applica alle situazioni di salvataggio». Secondo la Gip il reato di resistenza a pubblico ufficiale sarebbe stato giustificato da una «scriminante» legata all’avere agito «all’adempimento di un dovere», quello di salvare vite umane in mare. Ancora, sostiene il giudice, la scelta del porto di Lampedusa non è stata strumentale ma obbligata: non è possibile ritenere scali sicuri i porti della Libia e della Tunisia.
Lo stesso giorno, il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha parlato alle commissioni parlamentari riunite di Affari Costituzionali e Giustizia, smontando, con l’efficacia dei numeri e dei dati, il teorema Salvini. Di nuovo, nelle parole di Patronaggio, «la Libia non può ritenersi un porto sicuro» e il decreto Sicurezza bis non ha i requisiti di urgenza perché non esiste alcuna crisi migratoria: «Le finalità del decreto Sicurezza bis sono assolutamente condivisibili per quanto riguarda il contrasto al traffico di esseri umani», ha detto Patronaggio, ma non vi erano «le condizioni di straordinaria necessità» che giustificano la decretazione di urgenza. E - sottolinea il Procuratore di Agrigento - non esiste una sola prova di «collusione tra trafficanti di esseri umani e Ong».
Insieme al teorema Salvini crolla anche il teorema Zuccaro.
Era il 22 marzo 2017 quando il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, davanti al comitato parlamentare Schengen riunito a Montecitorio parlò per la prima volta di possibili connivenze tra le Ong e gli scafisti. A distanza di due anni, e a criminalizzazione ormai avvenuta degli aiuti umanitari nel Mar Mediterraneo, è sempre in aula di Montecitorio che le sue teorie vengono, per l’ennesima volta, sconfessate.
La campagna mediatica (senza prove) di Zuccaro contro le Ong durò mesi, finendo per sostenere la criticata strategia di Marco Minniti, allora ministro dell’Interno, e le argomentazioni della propaganda anti immigrazionista che anima il ministro attuale, Matteo Salvini.
Nell’aprile del 2017, Zuccaro, intervistato nel corso di una trasmissione di Rai 3, disse: «A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti, sono a conoscenza di contatti. Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante. Si perseguono da parte di alcune Ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi». Ma non c’erano prove. E dopo due anni la procura di Catania si è arresa: non esistono elementi a dimostrare i legami tra Ong e trafficanti. [[ge:rep-locali:espresso:285334222]] L’ultima archiviazione in ordine di tempo è arrivata a maggio, quando il gip di Catania Nunzio Sarpietro ha accolto la richiesta formulata dallo stesso Zuccaro: nessuna prova per portare a processo Open Arms, nessuna prova contro Marc Reig e Ana Isabel Montes Mier, comandante e capo missione della nave che nel Marzo 2018 soccorse e salvò circa 200 migranti a largo della Libia portandoli a Pozzallo. Erano accusati di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Non si tratta dell’unica archiviazione su un procedimento aperto nei confronti delle Ong: a giugno dello scorso anno, la procura di Palermo aveva già archiviato un’indagine analoga aperta nei confronti di Sea Watch e di Proactiva Open Arms.
Ancora Patronaggio, in audizione alla Camera, ha sostenuto che gli arrivi sulle nostre coste «riferiti ai salvataggi delle ong sono una porzione assolutamente minore e, per quanto riguarda quest’anno, sono statisticamente insignificanti». [[ge:rep-locali:espresso:285334240]] Insignificanti, dati alla mano.
I dati dell’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) sugli arrivi dei primi mesi del 2019 sono molto chiari. Nei primi sei mesi dell’anno sono arrivate in Europa, via terra e via mare 26 mila persone, 2400 in Italia, 17 mila in Grecia, 12.500 in Spagna. Anche Malta ha fatto la sua parte: 1.048. Nonostante l’isola abbia una popolazione di 450 mila persone e accolga ovviamente più persone in proporzione dell’Italia, che ne ha 60 milioni.
Sono dati che raccontano molte cose. La prima è che l’Italia non è l’unico Stato dell’Europa meridionale a farsi carico del fenomeno migratorio e degli arrivi dal Nordafrica. Elemento confermato ulteriormente dai dati di un recente rapporto Unhcr “Desperate Journeys”, Viaggi Disperati, che analizzava i dati dello scorso anno, il 2018. La diminuzione drastica degli sbarchi in Italia è andata di pari passo con l’aumento esponenziale degli arrivi su altre rotte: nel 2018 gli arrivi in Spagna sono aumentati del 131% e gli arrivi in Grecia del 45 per cento. Chiudere una rotta non significa risolvere il problema, né combattere i traffici.
Chiudere una rotta significa assecondare ansie elettorali e ha un costo umano altissimo. Significa che i trafficanti, come accaduto in passato, corrano ai ripari, cambiando percorsi e strategie e che di conseguenza i migranti siano costretti a rischiare di più.
Di nuovo, parlano i dati. Sulla rotta libica il rapporto tra chi tentava le partenze e incontrava la morte era di 1 a 38 nel 2017. Lo scorso anno invece è morta una persona ogni 14.
E, in assenza di testimoni nel Mediterraneo, è sempre più difficile raccogliere dati, come sottolinea Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi esperto di migrazioni, che da mesi studia la relazione tra la presenza in mare delle Ong e gli arrivi. Villa ha elaborato i grafici dell’Unhcr e dell’Oim (organizzazione internazionale per le migrazioni), tra il 1 Maggio e il 21 giugno di questo anno, con i dati delle presenza delle Ong. In questo intervallo di tempo sono partite dalla Libia 3.926 persone, 62 persone al giorno in presenza delle navi umanitarie, 76 quando le navi non c’erano. L’inesistenza del “pull factor” è ancor più evidente se si scorporano i soli dati di giugno: sono partite 26 persone al giorno quando c’era la Sea Watch in mare, 94 quando la Sea Watch non c’era. Quattro volte tanto. I dati statistici di Villa provano che non vi sia relazione tra la presenza delle navi umanitarie in mare e le partenze dalla Libia.
Ovvero: non esiste “il pull factor”. [[ge:rep-locali:espresso:285334223]] Le persone fuggono dalla Libia perché in Libia c’è la guerra, perché nei centri di detenzione ufficiali e in quelli ufficiosi si consumano abusi e torture su base quotidiana. Nelle stesse ore in cui la comandante Rackete veniva liberata, e mentre Patronaggio sottolineava a Montecitorio che non esiste una emergenza migratoria nel nostro paese, in uno dei centri di detenzione della capitale Tripoli, teatro di una guerra sanguinosa da più di tre mesi, un bombardamento (presumibilmente delle forze del generale Khalifa Haftar) ha colpito una prigione per migranti. Uccidendone almeno 40, ferendone il doppio.
È il bilancio di morti più alto prodotto da un attacco aereo da quando le forze della Cirenaica hanno lanciato un’offensiva contro le forze di Fayez al Sarraj, il 4 aprile scorso. Secondo le organizzazioni umanitarie che con fatica provano a lavorare in Libia, avendo un accesso limitato ai centri di detenzione, la situazione medica nelle prigioni è catastrofica. In particolare a Zintan e Gharyan, situati a sud di Tripoli e dunque limitrofi al teatro di guerra, almeno 22 persone sono morte per sospetta tubercolosi negli ultimi mesi. Nel carcere di Zintan, durante l’ultima visita dello staff di MSF c’erano 900 persone, 700 chiuse in un hangar senza una doccia, con accesso sporadico all’acqua. Non potabile. All’inizio di quest’anno, circa 50 dei detenuti di Zintan sono stati trasferiti al centro di detenzione di Gharyan, situato a 100 chilometri a nord-est e in prima linea all’attuale conflitto tra il Governo libico di Accordo nazionale (GNA) e l’Esercito nazionale libico (LNA). Una prigione complicata da raggiungere per le truppe, figuriamoci per gli aiuti umanitari.
In tutto sono almeno seimila le persone bloccate nelle prigioni libiche nella zona della capitale, persone per cui è necessaria «una immediata evacuazione», come sostiene Julien Raickman, capomissione di MSF in Libia Molti di loro sono registrati con l’Unhcr da mesi, qualcuno da anni, bloccati senza assistenza, senza poter tornare indietro. Senza poter lasciare il paese.
Spostarli da un centro all’altro, ritenuto meno esposto ai bombardamenti, evidentemente non basta. In Libia si combatte.
«Il trasferimento di persone da un centro di detenzione a un altro non protegge le persone dai pericoli », dice ancora Raickman. «Ciò di cui i rifugiati hanno bisogno urgente è una via d’uscita dal Paese». Un’evacuazione umanitaria, immediata.
Ma l’Europa tace, si nasconde.
Così, mentre il governo italiano cavalca l’onda di spavento e fake news, descrivendo un paese in guerra come potenziale POS (porto sicuro) e mente il Parlamento è chiamato al voto sulla continuazione di una missione che ha finanziato istituzioni come la Guardia Costiera, accusate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di essere colluse - loro sì - con chi gestisce il traffico di uomini, le Ong tanto vituperate, il vero nemico del Ministro Salvini, continuano un lavoro delicato e pericoloso di negoziazione silenziosa per aiutare qualche migliaio di persone a uscire da una zona di conflitto, verso un continente di 500 milioni di persone che non vuole accoglierli.