Jair Bolsonaro e il suo governo sono un flagello per il Brasile
Smantella i diritti, devasta l’ambiente, perseguita gli indios, aumenta i privilegi. Dopo sette mesi la luna di miele sembra già finita
«Non sono nato per fare il presidente sono nato per fare il soldato». Davanti alle critiche e alla crescente delusione dei suoi stessi fan, Jair Messias Bolsonaro allarga le braccia e si rifugia nel destino che «lassù», dice alzando gli occhi al cielo, «Lui mi ha affidato».
Si sa che il presidente del Brasile è molto religioso e che ammanta il suo successo strepitoso alle elezioni dell’ottobre 2018 di un valore spirituale. Ma la sua è anche una fuga dalle responsabilità che si è assunto quando ha raccolto il 55,13 per cento dei voti. Sei mesi dopo la conquista di Planalto la luna di miele con un Brasile scosso da una profonda crisi economica, sociale e morale sembra finita. Si è interrotto quel ciclo fortunato che dalle passeggiate sul lungomare di Copacabana la domenica mattina assieme a qualche decina di ufficiali dell’esercito si era poi disteso nelle piazze debordanti di uomini e donne fino a invadere la rete, con i social, e soprattutto la messaggeria di WhatsApp, su cui le fake si mischiavano a mezze verità in una girandola di veleni e di odio contagiosi.
Guidare l’opposizione, anche con un insignificante 3 per cento, era facile. Bastava gridare semplici parole d’ordine, invocare ordine e tolleranza zero sulla corruzione, mimare con le mani una pistola, per ottenere un consenso che nasceva dalla frustrazione di vedere tutto finire in malora. I brasiliani rispondevano con entusiasmo, si affacciavano alle finestre battendo i mestoli sulle pentole, per strada e nei negozi si continuava a indignarsi per la raffica di ruberie e di frodi che le cronache offrivano tutti i giorni. La rabbia, compressa da 15 anni di governo Pt, di lulismo imperante, di acquiescenza verso i corrotti, la rassegnazione per la violenza che infuriava in tutto il paese, con il Capitano trovava finalmente il suo sfogo.
Jair Bolsonaro lo aveva capito bene. Coglieva quell’umore che saliva dalle rovine di un Brasile che aveva ostentato quasi con supponenza la sua ascesa nel tempio dei Grandi, i famosi Brics, e che adesso si trovava a leccarsi le ferite di un dissesto risaputo, immaginato ma mai prima dimostrato con tanto clamore. Il vento della destra soffiava anche in America Latina. Bastava mettersi sulla sua scia per lanciarsi verso il potere.
Ma era opposizione. Persino le frasi scioccanti, gli attacchi alle diversità di genere, alle donne, alle associazioni di solidarietà, alle minoranze di colore, finivano per essere accolte con favore. Compreso il diritto alla difesa: sparare per uccidere prima di essere uccisi. Occhio per occhio. Basta tolleranza, basta assistere impotenti alle rapine e agli assalti, al coprifuoco autoimposto. Andarono a votare in massa. Mai come prima. E tutti, almeno una stragrande maggioranza, misero il segno su quell’ex militare ribelle che parlava un linguaggio semplice, diretto, su cose concrete e che prometteva la rinascita. Fino alla coltellata, inflitta alla vigilia del voto, che ha fatto impennare i consensi. Anche tra chi aveva sempre votato Pt.
Poi è arrivato il potere. Quello vero. Bisognava governare. Sono iniziati i primi problemi, gli scontri tra le diverse personalità, le gelosie e le rivalità. Hanno bussato tutti perché tutti, dai militari ai grossi industriali, agli agrari e proprietari terrieri, agli evangelici, alla lobby delle armi, passavano all’incasso. Avevano contribuito alla vittoria e adesso volevano godersela.
I primi ad essere accontentati sono stati i vecchi compagni d’armi. Ben sette generali ed ex generali hanno occupato posizioni nei ministeri. Anche la vice presidenza è toccata ad un uomo con le stellette. Quindi, i ministeri importanti. Quello dell’Economia a Paulo Guedes, esponente di spicco della scuola dei Chicago boys, il fautore delle misure liberiste scioccanti che aveva già sperimentato con successo nel Cile di Pinochet. Quello degli Esteri a Ernesto Araújo, ex ambasciatore con nessuna esperienza di governo ma teorico del complottismo e ossessionato dalla lotta al comunismo; infine, la casella più importante, quella della Giustizia. Nominare Sergio Moro, l’ex giudice di Lava Jato, l’eroe che aveva messo in galera decine di politici e imprenditori accusati di corruzione, era una scelta quasi obbligata.
Tutti e tre hanno accettato, lusingati da tanto onore. Per Moro, adorato e odiato in egual misura dai brasiliani, fu come rompere un tabù. «Mai in politica», aveva giurato neanche due mesi prima quando il suo nome cominciava a girare nel totonomine. Accolse l’invito senza battere ciglio. Anzi, rilanciò la posta: chiese al presidente di restare solo un anno, il tempo di mandare in pensione il consigliere anziano del Tribunale Superiore Federale e prendere il suo posto. La sorpresa è arrivata nell’ultimo mese: migliaia di file delle conversazioni tra il giudice e i pm della mega inchiesta, pubblicata dal sito d’inchiesta on line The Intercept Brasil, hanno scalfito la sua imparzialità. Sono emerse le sue interferenze nelle indagini, i suoi consigli ai pm dell’accusa, l’invito continuo a trovare prove per fare condannare e arrestare Lula. Si è confermato, almeno sul piano morale, l’atteggiamento persecutorio nei confronti del padre della sinistra brasiliana.
I veri guai, neanche poi così imprevedibili, sono giunti dai figli di Bolsonaro. Irrequieti, ambiziosi, irruenti. Tutti e tre candidati ed eletti. Flavio, 38 anni, senatore, Carlos, 37, consigliere a Rio ed Eduardo 35, deputato, hanno iniziato la loro campagna personale contando sulle debolezze del padre e le simpatie particolari che nutre nei confronti del secondo. Carlos, regista della potentissima macchina dei social, ha attaccato gli alleati e alcuni membri del governo. Il presidente non lo ha smentito e chi è caduto nel cono d’ombra alla fine ha dovuto dimettersi. Tre nel giro di tre mesi.
Flavio, accusato di corruzione, è finito nell’occhio del ciclone per le sue strette relazioni con le milizie dei paramilitari che governano le favela e in modo particolare con quella accusata ufficialmente di aver assassinato l’attivista e parlamentare Marielle Franco. Grandi critiche e polemiche per la decisione paterna di indicare Eduardo come ambasciatore a Washington. Carlos deve fare i conti con un’inchiesta su finanziamenti illeciti ottenuti grazie a tessere del partito taroccate. La famiglia resta intoccabile. È un clan familiare e i clan, in politica, non si battono.
A dirimere i contrasti e a dettare la linea del governo più a destra di tutto il Continente è un personaggio che sembra ancorato al Brasile del passato. Si chiama Olavo de Carvalho, scrittore conservatore, feroce anticomunista. Diffonde le sue tesi via Internet chiuso nella sua casa in Virginia. Bolsonaro lo ammira e pende dalle sue labbra. Una devozione che crea molti malumori nel governo dove i militari, paradossalmente, rappresentano l’ala più moderata e spesso intervengono per rettificare le intemperanze del Messia. Carvalho arriva a sostenere che la Pepsi è addolcita da cellule di feti abortiti, che la legalizzazione del matrimonio tra gay porta alla legalizzazione della pedofilia, che i disastri naturali come l’uragano Katrina e il terremoto di Haiti sono punizioni divine per le pratiche religiose degli africani discendenti dagli schiavi.
L’ossessione su omosessuali e transgender, sulla ideologia di genere, sulla liberalizzazione delle armi si affaccia regolarmente con proposte e iniziative che scatenano polemiche e sollevano forti dubbi tra gli stessi ministri del governo. Più di uno si chiede oggi se Jair Bolsonaro sia l’uomo adatto a risollevare il Brasile.
Sei mesi dopo, il bilancio è negativo. La destra mostra i suoi limiti di governo. Le critiche si fanno sentire. Ai detrattori, il Messia risponde indicando nuovi nemici. Due in particolare: il Tribunale Superiore Federale, garante della Costituzione, e il Parlamento, colpevole di boicottarlo. L’economia non decolla, la crescita langue, aumenta il numero dei disoccupati, scuola e sanità pubbliche subiscono profondi tagli. Per non parlare dell’ambiente: l’agenzia statale che sovrintende ad una materia così importante per il Brasile, è stata sciolta. Le squadre di ispettori incaricati di vigilare sull’Amazzonia ridotte all’osso. Stessa sorte è toccata al Funai, la Fondazione a tutela degli indigeni.
La grande foresta pluviale è presa d’assalto dai garimperos che disboscano e scavano alla ricerca di oro e materiali preziosi. Preme la classe agraria che assieme agli industriali delle armi e agli evangelici forma il blocco delle “Tre B”, maggioritario in Parlamento. Impongono la revisione dei confini delle aree protette e delle 690 terre destinate alle oltre 400 tribù indigene. Secondo l’Inpe, l’istituto nazionale di ricerca spaziale, il tasso di deforestazione registrato il mese scorso è stato il più alto dal 2016. È cresciuto del 60 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018: 762,3 chilometri quadrati di area disboscata contro i 488 del giugno dell’anno scorso. Sono l’equivalente di 106 mila campi di calcio. Mai come in questo momento l’Amazzonia è a rischio.
Jair Bolsonaro attende, smentisce, accusa i media di dire il falso. «L’Amazzonia è del Brasile e il Brasile decide cosa farne», replica stizzito. La sua anima sovranista resta intatta. Deve pensare alle due riforme strutturali che gli chiedono i mercati. Pensioni e fisco. Ma per farle passare in Parlamento dove il suo partito ha solo 58 deputati su 594 è costretto al compromesso. Al ribasso. La riforma previdenziale passerà. C’è voluto un mese di dibattito e di trattative. La gente andrà in pensione non più a 50 anni ma a 65 (uomini) e 62 (donne). Tranne militari e poliziotti. I privilegi restano invariati, il risparmio per lo Stato dimezzato.