Cade il muro del segreto bancario: all'estero ci sono 85 miliardi di euro intestati a italiani

Grazie a un accordo internazionale l'Agenzia delle Entrare entra in possesso dei dati su oltre un milione di conti intestati a italiani in cento paesi tra cui anche tanti paradisi fiscali: "Forse è davvero l'inizio della fine dell'evasione fiscale internazionale"

Yatch a Montecarlo
Una montagna di soldi che finora era nascosta dalle nebbie del segreto bancario: più di 85 miliardi di euro. Tesori custoditi in decine di paradisi fiscali, che per la prima volta hanno dovuto comunicare tutti i dati alle autorità fiscali italiane. Il primo risultato, ancora provvisorio, è una maxi-lista di oltre un milione e centomila conti esteri. Tutti intestati a cittadini italiani. Ed è solo un bilancio parziale. Perché le cifre continuano a crescere. Il fisco italiano sta ricevendo da mesi enormi flussi di informazioni dall’estero. Una situazione mai vista prima, che gli esperti di reati tributari considerano la base di una svolta storica.

Per l’evasione fiscale internazionale, come riassume a “L’Espresso” il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, «forse è davvero l’inizio della fine».

Tutto parte da una sequenza di accordi promossi dall’Ocse, la più importante organizzazione economica internazionale. Che è riuscita a varare a livello globale una procedura standard per lo «scambio automatico di informazioni fiscali». Significa che non c’è più bisogno di mandare istanze all’estero, esibire prove, avviare lunghe e complicate rogatorie giudiziarie o richieste di assistenza fiscale contro il presunto evasore.

Lo scambio è automatico. Continuo. Generalizzato. E sorvegliato dall’Ocse. Grazie a questa specie di Onu dell’economia, oltre cento paesi di tutto il mondo si sono impegnati a trasmettere anche a Roma tutti i dati sulle ricchezze degli italiani all’estero: conti bancari, gestioni patrimoniali, altri investimenti di qualsiasi tipo. La prima serie di dati pubblicati in questo articolo (finora inediti) riguarda una cinquantina di paesi che hanno applicato per primi la procedura dell’Ocse già tra il 2017 e il primo semestre del 2018, comunicando le liste dei tesori e tesoretti registrati dalle banche estere, nell’anno precedente, a nome di cittadini italiani: oltre un milione e 100 mila conti esteri, appunto, che custodivano più di 85 miliardi.

Il caso
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11/7/2019
Nel settembre 2018 lo scambio automatico si è allargato ad altre 47 nazioni. Compresi quegli Stati-cassaforte, come Svizzera e Montecarlo, ma anche Panama, Hong Kong, Singapore, Emirati Arabi e altri rinomati paradisi fiscali, che da sempre attraggono il grosso dei soldi degli italiani all’estero, come dimostrano le cifre raccolte con i vari condoni e scudi fiscali degli anni scorsi. Di certo, rispetto agli 85 miliardi schedati all’inizio del 2018, con la seconda ondata le informazioni trasmesse a Roma sono più che raddoppiate. Quindi il fisco italiano oggi possiede tutti i dati su alcuni milioni di conti esteri. Ed entro la fine del 2019 la procedura dell’Ocse dovrebbe estendersi a più di cento nazioni, con un’altra dozzina di paesi in via di adesione.

Lo scambio di informazioni, di regola, si realizza in settembre, quando le autorità estere finiscono di registrare tutte le ricchezze dell’anno precedente. In Svizzera, ad esempio, è l’autorità di controllo dei mercati finanziari (Finma), che ha anche funzioni di vigilanza contro il riciclaggio di denaro sporco, a raccogliere i dati da tutte le banche elvetiche. La prima lista trasmessa a Roma contiene, ad esempio, i nomi di circa 120 mila clienti italiani del colosso Ubs. A Milano il procuratore Francesco Greco avverte che si tratta di «dati grezzi, che vanno incrociati e analizzati: sono solo la base di partenza per un’attività d’indagine o di verifica fiscale».

Nella lista dell’Ubs, in particolare, ci sono gli italiani che lavorano (o fanno affari) in Svizzera e dichiarano regolarmente il loro conto elvetico; diversi familiari che in realtà risultano cointestatari di un unico deposito; e i soggetti che hanno già sanato i capitali esteri con la cosiddetta “voluntary disclosure”. Nel caso dell’Ubs, quindi, le indagini fiscali si stanno concentrando su circa 40 mila possibili evasori, per verificare se nel frattempo abbiano denunciato i loro conti svizzeri e pagato le tasse dovute, sia pure in ritardo. Altrimenti, si annunciano grossi guai, che di solito si materializzano con un questionario inviato dall’Agenzia delle entrate: caro signor contribuente, per caso ha dimenticato di dichiarare quei soldi all’estero?

Le liste trasmesse a Roma dalle autorità straniere sono documenti informatici con migliaia di cifre e nomi, con i dati cruciali catalogati secondo lo standard dell’Ocse: numero di conto, saldo dell’anno precedente, identità del beneficiario economico. Cioè del titolare effettivo, anche se protetto da esotiche società offshore, fiduciarie, trust o altri schermi legali. Il fisco italiano, in pratica, riceve le stesse informazioni che deve procurarsi la banca estera per aprire il conto. E questo oggi succede per decine di Stati, compresi paradisi fiscali finora impenetrabili, dalle Isole Vergini Britanniche alle Bermuda, da San Marino al Lichtenstein, dalle Bahamas alle Antille olandesi.

La nostra Agenzia delle entrate, ovviamente, è tenuta a ricambiare la cortesia: ogni anno, entro settembre, la direzione di Roma deve trasmettere a tutti gli altri Stati gli elenchi dei conti bancari e altre ricchezze detenute in Italia dai loro cittadini. Uno studio pubblicato dall’Ocse nel giugno scorso ha quantificato, per la prima volta, gli enormi benefici fiscali di questa procedura globale di comunicazione reciproca dei dati: un patto internazionale che sta salvando i bilanci e la sovranità fiscale degli stati nazionali.

Questa svolta nella lotta all’evasione è un effetto della crisi economica esplosa nel 2008, che ha colpito tutto il mondo, costringendo anche le nazioni più ricche a reagire. Da allora gli accordi sempre più allargati di scambio automatico, come spiega lo studio, hanno permesso di identificare «almeno mezzo milione di individui che nascondevano ricchezze nei paradisi offshore». E hanno così garantito agli stati nazionali, stremati dalla crisi, «entrate fiscali aggiuntive per circa 95 miliardi di euro».

In Italia proprio l’adesione a questa procedura internazionale, secondo gli esperti, ha fatto aumentare il gettito della voluntary disclosure: una vera e propria autodenuncia dei capitali esteri, prevista e regolata dall’Ocse, a differenza dei vecchi scudi fiscali varati dai governi di Berlusconi e Tremonti (con l’appoggio della Lega), che invece consentivano agli evasori di casa nostra di restare anonimi e sanare tutto pagando solo il 5 per cento. E magari nascondere i soldi scudati nelle cassette di sicurezza.

Lo studio documenta che tra il 2000 e 2008, negli anni del boom del capitalismo finanziario, i ricchi e potenti del mondo hanno trasferito fortune immense nei paradisi fiscali. Gli economisti dell’Ocse hanno quantificato il totale dei depositi bancari registrati in 38 paesi caratterizzati da tasse bassissime o nulle: nel giugno 2008, le ricchezze occultate solo in quei centri offshore avevano raggiunto il livello stratosferico di 1.600 miliardi di dollari.

Tra il 2009 e il giugno 2018, gli stessi paradisi fiscali hanno perduto un terzo di quei tesori: meno 551 miliardi di dollari. Il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, presentando lo studio, ha rivendicato «un livello di trasparenza fiscale senza precedenti, che rappresenta solo il primo risultato di un processo che continua», con l’obiettivo che «non sia più possibile nascondere ricchezze in nessuna parte del mondo».

Per ora, a conti fatti, solo quei 38 paradisi fiscali continuano a custodire più di mille miliardi di dollari. Soldi rubati ai cittadini che pagano le tasse anche per gli evasori. Le pressioni internazionali stanno facendo calare i tesori offshore anche in quest’ultimo semestre: dal novembre 2018 gli stati nazionali hanno recuperato entrate fiscali per altri due miliardi di dollari.

Molti ricchissimi evasori restano però impuniti. La via di fuga più banale è spostare i soldi in altri paesi “black list”, che rifiutano di fornire dati fiscali e in qualche caso perfino di collaborare con le indagini internazionali contro mafia e terrorismo. Lasciare le solide banche di nazioni come la Svizzera, però, può essere rischioso. L’avvocato ed ex magistrato elvetico Paolo Bernasconi ha raccontato a L’Espresso la disavventura di un plotone di ricchi evasori italiani, terrorizzati dai nuovi accordi fiscali, che hanno spostato i soldi in un emirato arabo: «Pochi mesi dopo, la banca esotica è fallita e loro hanno perso tutto».

Un sistema più sicuro è lasciare il tesoro in un paese dell’Ocse, ma intestare il conto a prestanome o fiduciari disponibili a coprire il vero titolare. A costo di rischiare l’arresto per riciclaggio. Il limite maggiore degli accordi internazionali è però la politica unilaterale degli Stati Uniti. La prima potenza economica mondiale ha un proprio sistema di controllo fiscale, chiamato Facta, che obbliga le banche straniere a comunicare tutti i conti esteri dei cittadini americani. Un sistema molto rigoroso, che funziona da anni a vantaggio del fisco statunitense.

Ma a differenza degli accordi dell’Ocse, non è reciproco: dagli Usa arrivano negli altri paesi solo informazioni limitate e parziali. Con risultati paradossali: di fatto tra i paradisi più impenetrabili oggi spiccano stati americani come Nevada e Delaware. Dove ha le sue tesorerie societarie anche il presidente Donald Trump. Altri paesi accettano le regole dell’Ocse, ma solo a parole: in alcuni centri offshore, come Dubai o le isole Cook, è ancora possibile aprire società totalmente anonime: il titolare non deve registrarsi. Quindi in Italia i dati sui conti arrivano, ma il vero beneficiario resta sconosciuto. E un altro problema è l’effettiva collaborazione delle banche estere.

A Milano la Procura e la Guardia di Finanza hanno lanciato una nuova strategia di contrasto all’evasione internazionale, che parte proprio dai dati raccolti con lo scambio automatico e con la voluntary disclosure: molte banche estere risultano aver concesso prestiti e mutui a migliaia di clienti italiani. Quindi avrebbero dovuto pagare le tasse sulle commissioni e interessi incamerati grazie a quegli affari in Italia. Gli inquirenti milanesi hanno così iniziato a spedire questionari agli istituti interessati, cominciando da Svizzera e Montecarlo. Le grandi banche elvetiche, come Ubs e Credit Suisse, sono state le prime a riconoscere il debito, impegnandosi a pagare il dovuto al fisco italiano.

Poi la strategia si è allargata: gli inquirenti milanesi hanno inviato moduli analoghi a un totale di 220 banche estere, da San Marino al Liechtenstein, dalle Bahamas alle Isole Vergini. E dopo il primo questionario, ne è partito un secondo, con la sintesi dei risultati di mesi di indagini tenute segrete: come avete fatto a trovare tutti quei clienti italiani? Avete per caso utilizzato una struttura riservata di funzionari o consulenti incaricati di operare in Italia in totale segretezza? E da cosa sono garantiti i vostri prestiti? Dai soldi nascosti da quegli italiani in altri paradisi offshore?

Per molte banche, è stato uno choc: i legali hanno spiegato alle direzioni centrali che a Milano si rischiava l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio dei soldi degli evasori. Credit Suisse, che si era vista sequestrare addirittura le istruzioni per sfuggire alla Guardia di Finanza («Il manuale del perfetto evasore», rivelato da L’Espresso nel febbraio 2016), ha patteggiato una condanna come persona giuridica e risarcito oltre cento milioni al fisco italiano. A San Marino e Montecarlo, altre banche hanno gridato alla persecuzione giudiziaria, invocando addirittura interventi diplomatici contro i questionari milanesi.

La Guardia di Finanza intanto ha chiuso anche l’indagine su Ubs, a sua volta indagata per riciclaggio, che si è impegnata a risarcire 111 milioni. Il banco di prova dell’effettiva collaborazione svizzera è proprio l’inchiesta sui colossi bancari. Ubs dovrebbe comunicare i nomi degli italiani che nascondono all’estero almeno due miliardi gestiti attraverso prestiti di comodo o altre operazioni di copertura. Con l’indagine su Credit Suisse, invece, la Guardia di Finanza ha già identificato 3.297 titolari italiani di finte polizze assicurative alle Bermuda, che finora hanno risarcito all’Agenzia delle entrate 197 milioni di euro. Ma gran parte dei beneficiari sono ancora protetti dal segreto bancario in teoria caduto: sono 9.953 italiani che hanno affidato a Credit Suisse la bellezza di 6 miliardi e 676 milioni di euro. Mai dichiarati al fisco.

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