Gli incendi devastanti fanno parte di una strategia economica pianificata che ha il suo terminale nell’industria della carne, anche nel nostro Paese. Che importa il 40 percento della soia dal Brasile per gli allevamenti

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Lo chiamano Rio-mar, il fiume grande come un oceano. Sinuoso, un serpente che scivola tra foreste e culture antiche. È prima di tutto acqua, la foresta amazzonica, l’area che occupa gran parte del Brasile ma si estende anche in Colombia, Perù, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guyana e Suriname.

Una rete di fiumi, porta di ingresso dei colonizzatori cinquecento anni fa. E oggi via di uscita dei prodotti che, lentamente, la distruggono. Legno, carne e soia. Un ciclo produttivo che divora la maggior riserva del mondo di vegetazione primaria, una filiera che arriva subito dopo le fiamme. Beni ormai globali, scambiati come commodities a Boston, a Londra, a Hong Kong e a Milano. «Ieri viaggiando in aereo da Manaus a Rio de Janeiro mi sono spaventato. Per un’ora, circa 900 chilometri, sotto vedevo solo fumo», racconta all’Espresso Marcus Barros, già rettore dell’università di Manaus e ex presidente dell’Ibama (l’Istituto pubblico brasiliano di difesa dell’ambiente), nominato nel 2001 da Marina Silva, all’epoca ministro dell’Ambiente del governo Lula. «È il segno più evidente di quello che sta accadendo», aggiunge, «con il vecchio ciclo di occupazione della foresta che avanza: l’incendio, il furto del legno, l’allevamento e, alla fine, la soia, la monocultura».

L'intervento
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«Devi seguire i soldi, il valore dei prodotti che sfruttano la foresta», spiega il sociologo italiano Maurizio Fraboni, che per due decenni si è occupato della difesa di una delle principali colture tradizionali degli indigeni, il guaranà dei Sateré-Mawé. L’Amazzonia funziona a cicli economici predatori. A cavallo dell’800 e del ’900 fu l’epoca del caucciù, la gomma elastica estratta dagli alberi nativi del nord del Brasile che forniva materia prima alla allora nascente industria automobilistica. Venne poi il ciclo dell’invasione, negli anni ’70, con il progetto della dittatura militare: «Integrare per non consegnare ad altri». La foresta iniziò quindi a essere tagliata dalle strade, con l’obiettivo di trasferire qui la popolazione del Nordest. Lungo le piste come la Transamazzonica si aprirono i primi varchi, con una fascia di terra che arrivava per decreto fino a dieci chilometri per lato, da destinare al disboscamento e alla colonizzazione. Aree, promettevano i militari, da usare per l’installazione di chi fuggiva dalla povertà di altre zone del Brasile. Fu un fallimento devastante, tra morti, terre rubate e utilizzate solo per estrarre legno pregiato e l’esplosione delle periferie delle capitali degli Stati amazzonici.

Gli anni ’90 e Duemila hanno visto un terzo ciclo di predazione. Funziona così: prima si prende il legno, con il taglio degli alberi secolari di mogano; poi c’è l’incendio, che lascia una terra povera ed esposta alle piogge torrenziali; quindi l’arrivo dei manzi, specie quelli di razza Nelori che sulle tavole italiane arriva sotto forma di bresaola. E, infine, la coltivazione della soia per produrre mangimi animali. Non una coltura qualsiasi, ma un sistema industriale basato sull’uso intensivo di urea, fertilizzanti e diserbanti. Piantagioni che hanno portato il Brasile al secondo posto nella classifica mondiale dei produttori di proteine vegetali. Un serbatoio molto poco green destinato agli allevamenti mondiali: dalla Cina alla Pianura Padana, per ingrassare il bestiame destinato alla macellazione.

DALLA FORESTA ALL’EUROPA
Il Brasile, per l’Italia, è il principale fornitore di soia, con circa il 40 per cento rispetto al totale. Tra il gennaio e il luglio 2019, secondo le statistiche ufficiali, abbiamo importato più di 130 milioni di dollari di prodotto non lavorato (tra semi e macinato) dal Paese sudamericano. Poco meno della metà è partito dai porti sul Rio delle Amazzoni (Manaus, Itacoatiara, Santarem e Belem). Sulla carta quella soia è certificata come “non proveniente dalle aree disboscate”: nel 2006 infatti il governo brasiliano ha creato il Gruppo di lavoro soia, con la partecipazione delle associazioni dei produttori e di alcune Ong, tra le quali anche Greenpeace. È stata decisa una data limite, il 2008: le terre disboscate dopo questo periodo non possono essere utilizzate per la coltivazione della soia. Ci sono però punti deboli. Il sistema prende in considerazione solo 85 comuni, quelli con almeno 5.000 ettari destinati alla produzione. Ed è escluso lo Stato di Amazonas, il territorio con maggiore presenza di foresta. Eppure in questa regione - secondo l’ultimo bollettino della Conab, l’organismo pubblico che monitora le coltivazioni - l’area destinata alla produzione della soia è aumentata del 47 per cento nell’ultimo anno. Poca la terra per ora usata in questo Stato per la coltivazione industriale, ma la tendenza statistica conferma la pressione sull’area della foresta. Aumenta l’espansione anche negli altri Stati amazzonici: dall’Acre, più 200 per cento, fino al Parà, più 2,4 per cento, dove la produzione di soia ha già raggiunto livelli preoccupanti, con 562 mila ettari.

Dietro i numeri c’è una strategia ben definita. Il Brasile da anni sta puntando alla creazione di una logistica della soia - e degli altri prodotti agricoli, come il mais e il cotone - nel cuore della foresta. Due fiumi, affluenti del Rio delle Amazzoni, il Madeira e il Tapajos, sono già stati trasformati in idrovie. Centinaia di chiatte in fila portano milioni di tonnellate di soia dall’area a sud della foresta - Mato Grosso e Rondonia - fino ai porti sul fiume che sfocia nell’Oceano Atlantico. Da un anno è in discussione un progetto che amplierà ancora di più la via amazzonica della soia. I produttori sono pronti a costruire una ferrovia lunga mille chilometri, che collegherà la città di Sinop, in Mato Grosso, con il porto di Miritituba, in piena foresta, sul Rio Tapajos. I binari attraverseranno aree indigene, foresta primaria e parte di parchi naturali. Corridoi logistici che spingono verso Nord anche la produzione agricola, pronta ad entrare nelle aree disboscate, utilizzate oggi per l’allevamento.

Dure verità
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I grandi trader hanno costruito negli anni giganteschi terminali sul Rio delle Amazzoni, porti già utilizzati per spedire i prodotti oltreoceano. A Itacoatiara, vicino a Manaus, dove il Rio Madeira entra nel fiume delle Amazzoni, c’è l’Hermasa della famiglia di imprenditori brasiliani Maggi, uno dei principali produttori e distributori della soia. Da questo polo partono i cargo diretti in Italia, soprattutto verso il porto di Ravenna, dove i mangimifici dell’Emilia Romagna comprano la soia - quasi sempre Ogm - destinata all’alimentazione animale. Il gruppo Maggi non ha voluto rispondere alla richiesta dell’Espresso sui nomi degli acquirenti: «Non conosciamo la destinazione delle navi», hanno assicurato, confermando che quei carichi provengono dalla loro filiera produttiva. Ma i registri portuali sono chiari.

LA FILIERA SOTTO ACCUSA
Il gruppo Maggi - come gli altri grandi trader - fa parte fin dal 2006 del Gruppo di lavoro della soia. Un patto che dovrebbe garantire la sostenibilità del prodotto. Le cronache, però, mettono in dubbio quel sistema.
Il primo aprile del 2014 gli agenti della Polizia federale e dell’Ibama entrano in un accampamento nell’area degli indigeni Menkragnoti, non distante dalla zona che verrà attraversata dalla futura ferrovia della soia. Trovano 26 motoseghe e 11 accampamenti con lavoratori in stato di schiavitù. Arrestano quaranta persone, intente a disboscare un’area di 13 mila ettari di foresta, nel cuore della riserva indigena. I braccianti utilizzati dormivano in capanne improvvisate, senza nessun servizio igenico, riparati solo da un telo di plastica. Il capo di quella organizzazione è un nome ben noto, Antonio José Vilela Filho. L’Ibama lo aveva già denunciato per il disboscamento di 30 mila ettari e multato per 200 milioni di reali (43 milioni di euro). Gli atti di indagine successivi - che L’Espresso ha potuto consultare - ricostruiscono la filiera che parte dal disboscamento e termina con l’allevamento di manzi e la coltivazione della soia. Dall’analisi dei conti correnti riconducibili a Vilela e al suo gruppo sono emersi pagamenti da parte di gruppi di grossi trader della soia per più di 10 milioni di reali (2,2 milioni di euro). Nel 2016 il pubblico ministero federale del Parà ha chiesto spiegazioni alle società. Oggi quell’inchiesta è «stata trasferita all’autorità di un altro Stato ed è coperta dal segreto d’indagine», ha spiegato l’organo giudiziario brasiliano all’Espresso. Tra i trader che avrebbero effettuato bonifici a favore di Vilela - secondo le prime informative - c’è anche il gruppo Maggi, che fa parte delle associazioni coinvolte nella «moratoria della soia»: «La società ha ricevuto una richiesta di chiarimento dal pubblico ministero federale e ha risposto prontamente; la società e il gruppo non sono oggetti di questa indagine e non appaiono come indagati nei documenti», è l’unico commento del gruppo Maggi.

Il caso, però, pone almeno una questione: esiste un flusso di soia lungo quell’asse della logistica che attraversa la foresta e che sfugge ai sistemi di certificazione. Un buco nero che viene scoperto solo quando la Polizia federale e l’Ibama riescono ad entrare nelle fazendas. Azioni che peraltro diventeranno sempre più difficili, visto che il presidente Jair Bolsonaro ha già annunciato di voler ridurre drasticamente i controlli, chiudendo gli uffici e tagliando i fondi destinati alle verifiche. n