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Non avrebbe genitori, né età, né storia e la sua origine sarebbe sconosciuta. Così Platone descrive Eros nel “Simposio”. Luce Irigaray lo sottolinea nel prologo di “Nascere-Genesi di un nuovo essere umano” (Bollati Boringhieri), l’esito più recente della sua cinquantennale indagine di pensatrice: direttrice di ricerca in Filosofia presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, ha un percorso che abbraccia psicoanalisi, linguistica, femminismo e getta ponti tra cultura orientale e occidentale.
Cuore del suo discorso, il mistero della nostra provenienza. «Chi potrebbe affermare di non stare cercando la propria origine?». Di contro a una tensione universale verso il luogo in cui siamo nati, verso la genealogia, la cultura, la religione, la lingua, però, possiamo esistere solo recidendo il legame con la nostra origine. Eppure - continua ad argomentare la filosofa di “Speculum”, uscito nel 1974, quando la sua indipendenza dal pensiero freudiano sulla sessualità femminile le costò la rottura con Lacan e la perdita dell’incarico all’università – la nostra cultura non coltiva la tendenza all’autonomia, presente già alla nascita con il primo respiro.
Nella conversazione che segue Irigaray ci mette in guardia dalla perdita di vita che la cultura produce, imponendo al bambino modelli prefissati e artificiali. Descrive i danni derivati da una mancata autonomia dell’individuo. Scava all’origine della sopraffazione nei confronti dell’altro, della violenza di genere, delle politiche totalitarie, indicando la via per una nuova cultura mondiale. Una cultura che privilegi le relazioni tra soggetti a quelle soggetto-oggetto, l’orizzontalità alla gerarchia, l’etica matrilineare all’ordine patriarcale. Nel rispetto delle differenze.
Perché, secondo lei, la nostra cultura ha fallito nel coltivare la vita? E c’è un collegamento con la comunicazione virtuale, l’assenza del corpo nelle interazioni con l’altro?
«La perdita di vita proviene da un’assenza di coltivazione della vita stessa. Nella prima parte di “Nascere” spiego fino a che punto l’educazione, sin dalla prima infanzia, non tenga conto del fatto che venire al mondo significa respirare da soli. Non prende neanche in considerazione l’identità sessuata e riduce l’essere umano a un individuo neutro, cioè a una mera costruzione culturale: una sorta di automa sprovvisto del dinamismo di un essere vivente. E anche i modi artificiali di svilupparsi e di comunicare lo allontanano sempre di più dalle sue risorse naturali, facendolo dipendente da un’energia esterna che lo priva della sua vitalità».
Nel prologo di “Nascere” mette al centro il mistero delle origini. L’incipit è una doccia fredda: ogni ricerca è destinata a non avere buon esito. Perché?
«"Nascere” è un invito ad assumere la propria vita e a coltivarla. Questo presuppone di rendersi conto che siamo stati concepiti da un uomo e da una donna, e che siamo soltanto un uomo o una donna. Dobbiamo quindi accettare sia una rottura rispetto alla nostra origine sia la parzialità del nostro essere. Da quel momento diventiamo capaci di avere cura del nostro dinamismo in quanto esseri viventi autonomi. Possiamo anche capire che la nostra vita non può rimanere dipendente dai nostri genitori, dal luogo dove siamo nati, dalla nostra cultura. Forse l’autonomia più difficile da guadagnare è quella rispetto alla madre. Ma questa difficoltà risulta in gran parte dalla cultura. Infatti, fin dalla vita intrauterina, la placenta separa il feto dalla madre, in particolare riguardo all’identità sessuata».
Lei scrive che siamo stati i soli a determinare la nostra nascita con il primo respiro, e lo ricollega «all’attitudine dimostrata da alcuni umani di sopportare delle avversità che sembravano sovrumane». Penso all’esperienza di una persona migrante sopravvissuta a un viaggio in mare. O a chi attraversa il buio di una depressione…
«La difficoltà che deve superare il neonato è anzitutto quella del passaggio dalla vita fetale a quella post-natale. Questo necessita di un radicale cambiamento nella sua relazione con il cibo, la gravità, il modo di muoversi. Una simile transizione non accade senza rischio di morte, che supera respirando da solo. È il respiro che ci permette di confrontarci con gravi pericoli e con le crisi. Sarebbe utile imparare a coltivarlo per affrontare prove come la perdita dei genitori, l’esilio, la malattia, e per aver cura della vita nelle situazioni limite tra la vita e la morte».
La nostra pedagogia, piegando il bambino a un’idea costituita, ne ostacola la crescita naturale e spirituale, sostiene lei. Pensando al suo incontro con la pratica yoga, può accennarci perché per compiere il nostro destino umano sia cruciale coltivare una cultura del respiro e del «dimorare in se stessi»?
«Coltivare il respiro ci aiuta a non sottometterci a modelli culturali estranei alla vita. L’essere umano non può crescere come un albero in continuità con un’origine naturale: necessita di cultura. Ma i nostri paradigmi culturali mirano prima di tutto a integrarci in una società già esistente, in particolare attraverso la repressione della nostra vitalità e dei nostri desideri. Coltivare il respiro, cioè essere consci di respirare e praticare ogni giorno un tempo di respiro in un luogo adatto, è un modo per mantenere distanza dall’educazione e dalla cultura e risparmiare un margine di libertà che ci consente di costruire noi stessi e il nostro divenire».
La nostra pedagogia trascura anche l’appartenenza sessuata. Lei ha dedicato grande impegno all’emancipazione, alle genealogie e ai diritti delle donne. In “Una nuova cultura dell’energia. Al di là di Oriente e Occidente” ha scritto del suo lavoro in Paesi e ambienti sociali diversi con gruppi misti di bambini scolarizzati, «con l’obiettivo di condurli a stringere relazioni realmente umane con l’altro sesso». Nel saggio intitolato “All’inizio, lei era”, ha mostrato come, per emergere dall’origine materna, l’uomo abbia elaborato un discorso di padronanza. Ne “Il mistero di Maria”, su Maria di Nazareth, indica il raccoglimento come via preventiva alla violenza di genere.
«La “sessuasione” corrisponde a una struttura che procura unità e energia al nostro essere ma che ci mette anche in relazione con l’altro e gli altri. È dunque un elemento decisivo per la nostra crescita naturale e culturale. Del resto la nostra appartenenza sessuale non si limita a una dimensione fisica o alla semplice sessualità. Essa si esprime anche nel modo di parlare. Ho effettuato numerose inchieste, anche nelle scuole italiane, che dimostrano che bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne non si esprimono in modo neutro ma sessuato. Alcuni risultati sono contenuti in “Chi sono io? Chi sei tu?” edito dalla Biblioteca di Casalmaggiore e nel mio Rapporto per la Regione Emilia Romagna sulla formazione alla cittadinanza per ragazzi e ragazze, per uomini e donne. Eppure sia l’educazione sia la cultura non tengono conto di questa realtà. Le relazioni sessuate sono, o dovrebbero essere, alla base di tutte le relazioni nella differenza e dovrebbero essere coltivate in quanto tali. Non averle coltivate è all’origine di gran parte delle violenze. Nelle risposte raccolte nelle inchieste sulla “sessuasione” del linguaggio ho constatato che i ragazzi, dall’adolescenza, alludono alla violenza come mezzo per entrare in contatto con l’altro, specie con le ragazze. Questo perché non hanno ricevuto nessuna parola o educazione riguardo al loro desiderio e al modo di condividerlo».
Scrive che molti esseri umani restano «dipendenti dalle comunità familiari, culturali, religiose o politiche». Parla di contesto socioculturale che si sostituisce alla placenta materna. Dove sono le radici culturali di questa mancata autonomia psichica ed emotiva degli esseri viventi?
«Se non assumiamo la nostra “sessuasione” rimaniamo dipendenti da una comunità - prima familiare e dopo culturale, religiosa, politica - in cui l’unità del gruppo prevale su quella dell’individuo. Siamo immersi in questa comunità senza né una reale autonomia, né una prospettiva rispetto ai valori a cui aderiamo, perfino a nostra insaputa. Da lì risulta la nostra mancanza di tolleranza rispetto a chi non rispetta i nostri valori. Non disponiamo di questo modo universale di entrare in relazione con l’altro che la nostra appartenenza può procurarci. Difettiamo di una percezione e un rispetto dell’altro in quanto altro che faccia da ponte tra natura e cultura. E questo può condurre a diverse forme di pensieri e regimi totalitari, diventati nella nostra epoca una vera emergenza».
In “Nascere” ci sono molti riferimenti al mondo vegetale, dall’albero al ciliegio in fiore. Come si genera il futuro, parola che non riusciamo quasi più a pronunciare?
«Il nostro futuro non può accadere come quello del mondo vegetale o animale. Dobbiamo costruirlo insieme agli altri. Anche qui la nostra sessuasione ci è d’aiuto. Non solo la differenza sessuale è l’origine della vita ma è anche la possibilità di un futuro umano. Stiamo diventando un semplice prodotto del mondo scientifico e tecnico se non siamo più capaci di generare, in quanto esseri viventi. Ci siamo dimenticati che ogni cultura è costruita a partire da relazioni sessuate, a livello di genealogia e di alleanze. Non si tratta soltanto di generare bambini ma di generare il futuro dell’umanità».