
Nella realtà, che fine ha fatto il femminismo? Dov’è finito quel vento di cambiamento che ha liberato le donne da discriminazioni inaccettabili, che ha rilanciato parole tabù - aborto, divorzio - e ne ha seppellito altre (obbligo di dote, patria potestà valida solo al maschile)? Che ha innescato reazioni a catena, convogliato la rabbia fioca di generazioni di donne in chiassosi movimenti di piazza? Cos’è rimasto di quella capacità di irrompere nella scena sociale, scuotere la politica, mutare i rapporti con l’altro sesso, trascinando anche l’uomo in cambiamenti rivoluzionari? E perché persino la parola “femminismo” ne esce sconfitta, rifiutata dalle più giovani come residuo di battaglie e di linguaggi senza significato, motivo di scongiuro per i maschi d’ogni età?
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A guardarsi intorno, il femminismo ha messo la sordina. Non che sia stata un’occasione persa: il soffitto di cristallo, grazie a quelle battaglie, si è scheggiato in molti punti. L’autonomia di dire, di fare, di decidere della propria vita sono realtà conquistate. Anche se, «quando a parlare è una donna gli uomini fanno altro: chi chiacchiera, chi controlla le mail», ha raccontato all’Huffington Post Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale; anche se persino nelle più ambite company dell’hi-tech, le stesse dove si lanciano campagne per bandire le differenze tra i sessi (come “Ban Bossy” promossa da Sheryl Sandberg di Facebook), la misoginia non è sconfitta (“The Glass Breakers” è una startup che aiuta a combatterla nel mondo tecnologico specialmente), e le donne guadagnano meno dei maschi (oltre il 20 per cento negli Stati Uniti, dove la prima legge firmata da Barack Obama è stata proprio la Lilly Ledbetter sull’equità salariale uomo-donna); anche se indipendenza e libertà di scegliere, nella vita privata, espongono a una violenza e a un numero di assassini intollerabile: 177 i femminicidi in Italia nel 2014; 137 nel 2015; 3.624 le violenze sessuali tra il marzo 2014 e il 2015, 4.607 l’anno prima (dati Ministero dell’Interno).
Se ancora barriere sociali, culturali e psicologiche impediscono una parità piena; se il sessismo soffia forte, dal Parlamento italiano alla politica estera, persino contro una come Hillary Clinton («Non ho mai visto una persona assalita in modo così sistematico e da così tante parti», ha ammesso lo stesso Bernie Sanders, sfidante alla Casa Bianca); se, insomma, non è tutta qui la libertà cui ambivano, dove sono, oggi, le donne?
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Neutralizzate, secondo la sociologa Camille Paglia: «Impegnate a cancellare ogni retorica della maternità, hanno perso la consapevolezza del loro potere sugli uomini». Annegate nel realismo: «Perché le donne non possono avere tutto», ha chiarito l’ex consigliera della Casa Bianca Anne-Marie Slaughter, descrivendo come talento e determinazione si infrangano contro le difficoltà sul lavoro e la famiglia. Schiacciate dalle più giovani, ha ipotizzato la scrittrice Elena Ferrante, femminista nonostante il sospetto d’essere uomo, in un’intervista a “Vanity Fair” negli Usa: «Le ragazze sembrano convinte che la condizione di libertà che hanno ereditato sia un dato di natura e non il risultato provvisorio di un lungo scontro ancora in atto, nel corso del quale si può perdere di colpo tutto».
E ripartire da zero: come le Pussy Riot, le artiste russe col passamontagna colorato, che hanno scontato anni di carcere duro per le loro rivendicazioni. O le Femen, il movimento nato a Kiev, che protesta contro le differenze sessuali e sociali a seno nudo, utilizzo del corpo per attirare l’attenzione dei media in un mondo di uomini, a rischio di violenza e di denunce. “Woman Pride” che innova la militanza contemporanea, per il magazine Slate, nel segno della provocazione: ma quanto funziona davvero?
«Il femminismo ha cambiato il mondo, tranne quello non occidentale. È un peccato che non si insegni a scuola la storia delle donne negli ultimi cento anni», interviene la giornalista Natalia Aspesi. “Delle donne non si sa niente”, titolo con il quale Il Saggiatore ha ripubblicato il suo “La donna immobile”, uscito nel 1974 e dedicato alle italiane, anche questo sottolinea: l’ignoranza sulle battaglie delle donne. «Chi ha fregato il femminismo? Non è mica fregato. Perché le ragazze, pur non sapendo niente di ciò che è stato, sono ben più protette dalle leggi: grazie alle femministe e ai maschi di allora. I femminismi più combattivi e appariscenti sono scomparsi, ma su un piano intellettuale il femminismo continua a operare: nelle aule universitarie, negli studi. Forse non c’è più ragione per esibirlo: l’uguaglianza c’è, di anno in anno diventa più facile accedere alle posizioni di vertice. Se la carriera non è più la massima ambizione, per le donne, ma anche per gli uomini, è perché molte hanno capito che non è ciò che desiderano veramente». Vedi alla voce Marissa Mayer, amministratrice delegata di Yahoo, salutata con entusiasmo come donna al top, ma bacchettata quando, dopo il parto, ha deciso di ridurre la maternità a poche settimane: era questa l’uguaglianza sognata?
«Certo che le battaglie non sono esaurite, ma riguardano il piano privato, il rapporto uomo-donna: gli uomini uccidono ancora le donne; il “mammo” è una pura invenzione», sostiene Aspesi. «La vita delle donne è caratterizzata da successi e da sconfitte. Alle ragazze non farebbe male conoscere la loro storia, perché ciò che sembra del tutto ovvio è costato coraggiose battaglie alle loro madri e alle loro nonne. E nulla è mai conquistato per sempre».
Provano a colmare quel vuoto strumenti nuovi: è stata appena lanciata una App, “Herstory: I luoghi delle donne”, promossa da Archivia, associazione con sede nella Casa Internazionale delle donne di Roma e dedicata ai luoghi di mobilitazione del Lazio, dagli anni ’70 a oggi. “Cattive ragazze” è un graphic novel di Assia Petricelli e Sergio Riccardi (Sinnos Editrice) dedicato a quindici donne che hanno aperto la strada all’affermazione di diritti, da Franca Viola, che negli anni Sessanta rifiutò un matrimonio riparatore in Sicilia, ad Alfonsina Morini Strada, unica ad aver partecipato al giro d’Italia insieme agli uomini. E ora il fumetto diventa anche spettacolo teatrale itinerante, con la regia di Ignacio Gómez Bustamante e César Brie e il coinvolgimento di tante ragazze. Perché conoscere è fondamentale: come sa Zeroviolenza.it, progetto di informazione che monitora la relazione tra uomini e donne.
Ma chi è responsabile di non aver passato il testimone? Chi non ha curato l’eredità di quegli insegnamenti: metodo, esperienza ed entusiasmo di combattere? «Quella del femminismo non è una storia di sconfitte: ha radicalmente mutato il panorama dei diritti civili», puntualizza la sociologa Chiara Saraceno, negli anni Settanta impegnata nei Gruppi Femminili di Trento: «Se non ci fosse stato, non sarebbe passata neanche la legge sull’aborto. E tutti i temi su sessualità e famiglia sarebbero rimasti nel silenzio. La spinta al diritto di famiglia, che chiamiamo ancora nuovo benché risalga al 1975, è figlia di quell’epoca. Detto ciò, è chiaro che c’è stato un problema di trasmissione della militanza femminista. Anche per colpa delle donne: il femminismo della differenza, che ha avuto più visibilità, ha creato una sorta di teologia, producendo un linguaggio oscuro, ostico, moraleggiante. Un modo di parlare, e di tenere separati il mondo di lui e il mondo di lei, nel quale le più giovani non si ritrovano. Ne hanno, anzi, paura e fastidio: se la denuncia della mancata parità le getta nel ruolo di vittime non ne hanno alcuna voglia».
Il risultato? Fraintendimento, distanza («Il femminismo non mi serve, mi sento già libera»), fino alla militanza vera “contro la cultura tossica del femminismo moderno”: è “Women against feminism”, partito con un hashtag su Twitter e su Tumblr, e diventato campagna virale su Facebook e su YouTube. A poco sono valsi i richiami di Tina Brown di The Daily Beast («Voi non odiate il femminismo: semplicemente non lo capite»), o di Lynsi Freitag della Arizona State University («Quello che sta accadendo è frutto dell’ignoranza. Ma è colpa nostra se non abbiamo spiegato il femminismo alle donne»). È l’eterno dividersi, che indebolisce le battaglie. «Ogni generazione deve trovare i suoi strumenti di lotta», sintetizza Saraceno: «Prima si sbatteva la testa contro un fatto evidente: la parità non c’era. Oggi si parte da una premessa di parità, salvo scoprire più tardi che la faccenda è più complessa». Il “nemico” si fa più sfuggente. A partire dai maschi: non più padri-padroni, ma uomini meno granitici. Fluidi, anzi, com’è l’identità contemporanea, al punto che “The Economist”, in un’inchiesta di copertina, li ha proclamati “il sesso più debole” delle società avanzate.
«Certo: un tempo c’erano problemi più facilmente afferrabili», conferma Saraceno: «Non si poteva abortire. Non si poteva comprare la pillola. La parità era un obiettivo chiaro». Ostacoli chiari, da rimuovere uno alla volta. Esattamente questo ha fatto “Se Non Ora Quando”: ha aggregato la rabbia delle donne in una battaglia precisa - il degradante modello di relazione uomo-donna del berlusconismo - portando in piazza oltre un milione di persone. E così hanno fatto i comitati di denuncia del femminicidio. Smarrendo, però, col tempo la loro forza.
Era più facile essere femministe allora che oggi? «Avevi la possibilità di coinvolgere gli altri, sentivi di far parte di una comunità. Nel mondo di oggi ognuno va alla cieca, pensando a sé», dice la scrittrice Dacia Maraini: «La protesta non viene allo scoperto come un tempo perché siamo in un momento di frammentazione: non c’è modo di far coagulare nessun pensiero, tutto è personalizzato e rissoso. E l’individualismo prevale».
Egoismo. Atteggiamento moraleggiante. È colpa della centralità data a temi come la maternità, derubricata da stili di vita diversi, se il femminismo non trova più uno spazio ampio nel presente? «Come ideologia non esiste più, ha seguito il destino di tutte le ideologie. Scomparse: è un fatto culturale. Ma se guardiamo oltre le parole, ritroviamo lo stesso radicalismo, la stessa motivazione nel pretendere autonomia e rispetto, nelle più giovani. Sta in questo flusso di rivendicazioni la continuità con il femminismo di allora: senza, però, connotazioni ideologiche», aggiunge Maraini: «C’è un rischio in questo: che si consideri la parità un diritto conquistato per sempre. I diritti sono frutto di cultura e di ideologia, e devono essere esercitati e ribaditi. Il più importante? Quello di esprimere se stessi, di realizzarsi il più possibile. Vale naturalmente anche per gli uomini, ma per le donne costa fatica in più».
Perché i nodi aperti non sono pochi: mancano risposte per conciliare il lavoro con la vita familiare. La parità sui posti di lavoro si scontra con discriminazioni anche di natura economica. E molti stereotipi di genere inchiodano ancora le donne. Non solo: nel mondo globale di oggi reclamano impegno le altre donne, senza diritti: donne schiave, fantasmi sotto il velo, sottomesse a stupri, mutilazioni, divieti. Ma una “ignavia borghese”, ritrosia culturale e politica, non fa ancora alzare compatta la voce contro la misoginia dell’Islam, accusa la giornalista Marina Terragni. “Dovremmo essere tutti femministi”, sostiene la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in un discorso da standing ovation elaborato per una conferenza Ted, campionato da Beyoncé nel brano “Flawless” e diventato anche un libro (Einaudi): perché femminista è, prima di tutto, «una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi». Uomo o donna.
«Ne sono convinta: la perdita di appeal del femminismo odierno va identificata nel fatto che gli uomini non sono stati coinvolti, anzi trattati con ironia e disprezzo. Le cosiddette questioni femminili - dall’aborto al lavoro - non sono “da donna”. Sono argomenti sociali e culturali, che devono riguardare gli uomini. Bisogna ritrovare complicità: ricreare una nuova alleanza tra uomini e donne, come quella invocata da Papa Francesco nel suo discorso contro i luoghi comuni sulle donne tentatrici», dice la scrittrice Rosella Postorino, editor di Einaudi Stile libero e protagonista, sulla sua pagina Facebook, di una vivace discussione sul femminismo di ieri e di oggi: «Ho incontrato donne più che sessantenni ancora convinte che serva il collettivo per “prendere coscienza”, uno spazio di separazione dagli uomini. Ma se la questione delle donne non viene percepita come una tra le tante di giustizia sociale, se gli uomini non lo sentono come un problema anche loro, io non so a che cosa serva parlarne».
«Il femminismo è una questione di parità di diritti. Chi ancora porta avanti un discorso para-separatista è direttamente responsabile del disamore delle generazioni successive verso il femminismo», ha ribadito Loredana Lipperini, che l’universo femminile ha molto indagato (“Ancora dalla parte delle bambine”, “Non è un paese per vecchie”, “L’ho uccisa perché l’amavo”). E insiste: «C’è una gigantesca responsabilità in chi ha pensato che il femminismo fosse una cosa solo di donne. E responsabilità anche da parte di quella narrazione che predicava odio verso i maschi, disgusto verso il sesso: ha schiacciato le generazioni successive. Il femminismo sembra una faccenda superata finché non si diventa genitori. Allora ci si rende conto che, a meno che tu non sia particolarmente ricca da permetterti aiuti esterni, non c’è parità realizzata. L’indipendenza diventa un fatto di classe. C’è un enorme bisogno di impegno femminista. Da dove ripartire? Dall’educazione sentimentale e sessuale sui banchi di scuola». Dalla riscoperta delle differenze di genere. A patto di non lasciarsene intrappolare.
Per il filosofo Slavoj Zizek, sensibile a questi temi tanto da intervenire contro il sessismo dello Stato Islamico e in difesa delle Pussy Riot, è fuorviante anche una rappresentazione manichea del maschile e del femminile. Lo ha detto più volte: «Non credo in una soggettività maschile fallocentrica, imperialista, guerrafondaia, e una femminile ecologica, armoniosa, olistica, pacifista e cooperativa». Da una parte il bello e buono delle donne, dall’altra il maschile selvaggio e oppressore: non funziona. «Molti stereotipi hanno agito contro il femminismo», è l’opinione della scrittrice Lidia Ravera: «Come il suo essere contro i maschi: solo una caricatura». L’ultima l’ha tratteggiata Jonathan Franzen - le femministe non hanno apprezzato - nel suo ultimo libro, “Purity”: dove Anabel è una fanatica che costringe il marito a stare in bagno seduto, come le donne.
«Il femminismo non era contro i maschi: proponeva uno spazio separato, che probabilmente servirebbe anche oggi, sia agli uomini che a noi», continua Ravera: «Le donne sono cambiate molto, grazie al femminismo. Ma la rivoluzione sarà conclusa quando conquisteranno il diritto di invecchiare». Libere da imperativi di gioventù e bellezza perenni. Maturità al centro dell’ultimo romanzo di Erica Jong, ideale prosieguo di quel successo planetario che fu “Paura di volare”: esce ora per Bompiani “Donna felicemente sposata cerca uomo felicemente sposato” con la protagonista, Vanessa, terrorizzata dalla paura di invecchiare e perdere il suo ascendente sul mondo.
«Il femminismo ha modificato la percezione di sé di tutte le donne. Ha permeato i comportamenti quotidiani», aggiunge Ravera: «Le nuove proteste non si consolidano? Non vale solo per il femminismo, ma per tutti i movimenti di oggi: non riescono a compiere il salto dallo spontaneismo all’organizzazione. Il femminismo è una rivoluzione interrotta, non fallita. Quando sarà compiuta la vita avrà, finalmente, due sguardi».