«Mi dicono: "Signora, ormai lei ha scelto". E durante l'aborto mi abbandonano tutti
Troppo spesso abortire diventa una tortura. L’Espresso ha messo a disposizione uno spazio in cui condividere anonimamente la propria esperienza. Per rompere il silenzio e raccontarla #innomeditutte. Questa è una delle testimonianze che abbiamo raccolto
Dopo aver raccontato la terribile testimonianza di un'interruzione volontaria di gravidanza fatta di sofferenze e silenzi, abbiamo deciso di pubblicare un po' alla volta quelle arrivate in redazione in questi giorni. Lo spazio anonimo riservato alle vostre esperienze ne ha raccolte a centinaia. Da tutta Italia. Da giovani ragazze alla prima gravidanza, da donne già madri di due figli, da mariti che cercano di esprimere a parole il dolore di una perdita da cui spesso vengono esclusi.
Questa è la testimonianza di C. da Roma
«È gennaio 2011. Prima gravidanza.
Alla premorfologica per l'amniocentesi scopriamo una grave malformazione cardiaca. Nel mese successivo eseguo ecocardio in 2 noti ospedali romani e una consulenza in un terzo. Il verdetto non è mai come spero. Non ci sono errori, la malformazione è grave. La sua vita, se nasce in vita, non sarà tale e sarà breve, fatta di operazioni e tubi. "Si scordi le pappine. Una volta nato il bambino rimarrà qui con noi in ospedale, mica verrà a casa con lei", mi disse una cardiologia dopo una delle visite.
Cerchiamo, noi genitori, di capire da soli il da farsi. Unico aiuto internet. Anche gli ecocardio li prenotiamo da soli. La mia ginecologa, che mi seguiva in intramoenia presso un ospedale romano e che mi aveva sconsigliato l'amniocentesi, non la vedo più. Le comunico via telefono la scoperta della cardiopatia del bambino. Da lì nessun consiglio, nessuna lettura dei referti, nessuna visita o indicazione. Solo laconiche risposte via email come "Aspettiamo" o "Vediamo il prossimo ecocardio".
Capiamo che esiste la strada di questo aborto che si chiama terapeutico. Individuiamo 2 ginecologi non obiettori (di cui scopro solo allora l'esistenza) e andiamo a parlarci. Ci accolgono, ci spiegano. Le candelette, i tempi, l'ecografia di controllo senza farmi vedere il monitor. Ma io la parola "parto" non credo di averla mai sentita. Forse mi è stato detto, ma il mio cervello si sarà rifiutato di registrarla.
Decidiamo. Scegliamo l'ospedale romano dove c'è sia la ginecologa non obiettrice, che la mia che mi aveva seguito finché era andato tutto bene, e mia cognata che vi lavora come infermiera. La psichiatra dell'ospedale mi dice, di fronte alle mie perplessità sulla "scelta": "Signora la sua non è una scelta, con una situazione così..." e fa il certificato in cui si attesta che la mamma non sarebbe in grado di sostenere la gestione di un figlio malato.
Mi ricovera la ginecologa non obiettrice, mi viene data una pillola, compiliamo dei fogli. Mi mettono in stanza in ginecologia, per fortuna. Inizia la somministrazione delle candelette (o ovuli). Io ad ognuna mi copro con tutto il lenzuolo e piango. Non so se il mio bambino è ancora vivo o no. Non so niente. Mi sostiene mia cognata, che in quanto infermiera riesce ad accedere in stanza più di qualche volta.
La ginecologa non obiettrice non la vedrò più. Non risponde al telefono. Scoprirò solo dopo che purtroppo aveva avuto un grave problema familiare. La "mia" ginecologa, invece, non la vedrò mai. O meglio, non entrerà mai nella mia stanza, nemmeno quando è in reparto e dalla porta la vedo passare in corridoio.
Non ricordo bene quante somministrazioni di ovuli ho avuto, era la prima gravidanza e non si avviava niente. Ricordo la morfina, tanta. Finito un ciclo di ovuli passavano a iniettarmi quella e domani si ricominciava. Durante il (credo) terzo giorno inizio a stare male. Arrivano i dolori, la nausea forte. Avviso e mi dicono di aspettare. Continuano i dolori e sto peggio. Vado io nella stanza delle infermiere e sulla porta dico che sto male. L'infermiera mi risponde: "Eh signora, ormai ha fatto una scelta, non può mica tornare indietro".“Ma non sto dicendo questo, mi sento male”.
Vedo un medico in corridoio. Vado da lui, cammino piegata. "Cammini signora, cammini, ancora non è ora". Arrivo in fondo al corridoio e entro nel bagno. Mi appoggio al primo lavandino e mi guardo allo specchio. Ricordo che ero verde in faccia e avevo la bava alla bocca. Poi non ricordo più niente. Mi sveglio nel mio letto, con tutti visi affacciati su di me e una dottoressa in tuta rossa che urla: "Ma siete pazzi. Le si sta spaccando l'utero! Portatela in sala parto". L’infermiera poi mi bacia sulla fronte e mi lascia in uno stanzino adiacente.
C'è un letto vicino la finestra, un lavandino e lungo il muro una grande catasta di lenzuola e traverse imballate nel cellophane. Ho tanti dolori, chiedo di bere. Non so da quanto non bevo, perché poi se mi dovevano operare o se vomitavo... Quindi niente. Mia cognata prende una garza, la bagna al lavandino e mi bagna le labbra.
Arrivano un medico e l'ostetrica, sono gentili. Il medico mi fa una carezza (che ricorderò sempre) e mi fa una puntura alla coscia. Ma questa volta neanche con quella mi addormento. Non so dopo quanto il parto si avvia. Il mio bambino nasce, ma i pianti che sento vengono solo dalla sala parto lì a fianco. È il 22 febbraio 2012. Qualcuno chiede se voglio vedere Lorenzo e io dico di no. Non ce l'ho fatta, non ero in me. E oggi mi maledico per quel no, anche se riconosco che non potevo essere in grado di prendere decisione alcuna.
Riguardo al funerale, non sapevo fosse una possibilità, non l’ho capito. Nessuno me ne ha parlato formalmente. Solo dopo tempo, nei documenti della cartella clinica, ho visto il certificato relativo alla polizia mortuaria e allo "smaltimento"».