Regole impossibili, costi altissimi, differenze tra regioni. La legge continua a essere inapplicabile per molti e a discriminare i meno abbienti (Foto di Francesco Pistilli)

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«Matteo e Michele sono bellissimi. Ma non è giusto». Sonia mostra orgogliosa le foto dei gemelli. Hanno un anno e mezzo e «vivono grazie a un’ipoteca». Perché Sonia e suo marito Luigi, trentenni calabresi della piana di Gioia Tauro, per farli nascere hanno dovuto ottenere un prestito in banca e migrare in Spagna, nonostante una legge gli consenta di accedere alle cure pubbliche in Italia. Il costo di un solo tentativo si aggira sui 7mila euro, escluse le spese di viaggio.

Anche Lisa è venuta al mondo così il 31 marzo, in piena pandemia. Non c’erano alternative: suo padre Alessio è riuscito a guarire da un tumore ma non è più fertile: «Abbiamo provato con la donazione di gameti maschili in un ospedale italiano. E atteso a lungo: il nostro turno è arrivato il giorno che Lisa ha compiuto cinque mesi».

Stella invece è morta a soli 35 giorni. I suoi genitori sono portatori sani di una grave patologia. Hanno una probabilità su quattro di trasmetterla e l’unica speranza per scongiurare un’altra volta l’inferno è una diagnosi genetica pre-impianto. «Ho trovato solo un centro pubblico in Trentino, ma la nostra Asl ad Alessandria non ci ha mai dato il nullaosta per accedere», ricorda Cindy. La sanità pubblica poteva invece pagare «l’aborto, la psicoterapia e persino la terapia intensiva del piccolo qualora fosse sopravvissuto qualche giorno». Per quella diagnosi che è vita non resta che rivolgersi al privato. Il costo? Circa 10mila euro. Una cifra che Cindy e Francesco non hanno e allora non resta che rinunciare.

Tante istantanee che fotografano una riforma tradita. È il 2004. Facebook rivoluziona i social network, la sonda Cassini entra per la prima volta negli anelli di Saturno e l’Italia, tra polemiche e divieti per single e coppie omogenitoriali, riesce finalmente a dotarsi di una legge per disciplinare la procreazione medicalmente assistita (Pma). Peccato che a distanza di sedici anni non sia ancora applicata e garantita per tutti.

Cure e cicli di fecondazione sono una gara a ostacoli tra regole incerte, lungaggini insensate e un’assistenza a macchia di leopardo che nega a tanti italiani quello che viene garantito ad altri. Un percorso accidentato e spesso doloroso che affrontano ogni anno più di 70mila coppie. Dei 332 centri attivi, oltre il 60 per cento sono privati e al Sud la percentuale si avvicina all’80 per cento.

E intanto ogni Regione va a diversa velocità e cerca di colmare il vuoto lasciato dai governi. Un federalismo sanitario che non permette a tutti di curare l’infertilità, nonostante sia stata inserita ormai da tre anni nei livelli essenziali di assistenza (Lea), quelli che il servizio sanitario nazionale dovrebbe erogare gratuitamente. Peccato si siano dimenticati di creare un tariffario nazionale e di inserire tra le prestazioni le indagini genetiche sull’embrione, ritenute lecite dal nostro ordinamento. Il risultato è un’altra diseguaglianza: nascono solo i figli di chi ha le possibilità economiche in una Italia dall’infertilità in aumento. Le nascite sono al minimo storico, dimezzate in cinquant’anni.

Culle vuote e regole ignorate. Per accedere all’eterologa, la tecnica che prevede la donazione di sperma e ovuli esterni alla coppia, a Roma negli ospedali pubblici si può aspettare anche due anni e in molte città del Sud non è concessa nemmeno l’attesa: non si fa e basta. Chi vive in Sicilia o Calabria non ha speranza. «O paghi per andare all’estero o rinunci» - sentenzia Anna da Trapani - «anche quando abbiamo trovato posto in un ospedale della Toscana ce l’hanno impedito perché la nostra Asl non rimborsa la prestazione». Molte Regioni hanno i bilanci in rosso, devono rientrare dalle spese e allora tagliano la possibilità di nascere, negando l’autorizzazione a una procedura pubblica e legale.

Il risultato sono gli occhi lucidi di Anna. È entrata in menopausa precoce a 36 anni, il suo compagno è un muratore e lo Stato le vieta di diventare madre. Del resto solo lo scorso aprile, per la prima volta una coppia del Sud ha potuto avere una gravidanza in una struttura pubblica con donazione di gameti. È accaduto all’ospedale Moscati di Avellino ed è stato possibile grazie a un decreto commissariale approvato dalla Campania. Anche al polo universitario Luigi Vanvitelli di Napoli stanno seguendo lo stesso esempio ma, come spiega il professor Nicola Colacurci a capo del dipartimento della donna e del bambino, non è semplice: «hanno fatto una legge senza creare un percorso per applicarla. Occorre consentire alle strutture pubbliche di essere competitive con quelle private e invece non è previsto alcun sostegno economico. Abbiamo estrema difficoltà ad assumere biologi della riproduzione, a dotarci di miglioramenti tecnici e in più ogni regione ha regole e soprattutto tariffe diverse».

Perché anche quando la Asl consente di migrare in una regione dove l’assistenza pubblica c’è ed esistono centri convenzionati, i costi non sono comparabili. «Intanto non è pensabile dover chiedere il permesso, immaginate se accadesse tutte le volte che stiamo male e non siamo nella nostra regione. E poi serve una tariffa unica. In Toscana un trattamento semplice ha un costo di 1.700 euro; in Lombardia invece si accede solo con regime di ricovero, ben due giorni, e così la parcella lievita a 4mila euro», ragiona il professor Luca Mencaglia. Gestisce il centro di procreazione medica assistita all’interno dell’ospedale di Cortona. Al terzo piano le coppie in attesa sono decine. Arrivano con un carico di sogni e un terremoto di emozioni. «Non ne parlo molto volentieri», chiarisce subito Gianna, ingegnere meccanico al suo secondo tentativo. «Ci sono le convenzioni sociali, ti guardano come se volessi un figlio a tutti i costi. Al centro poi c’è sempre il corpo della donna: si pensa sempre sia un problema femminile. L’infertilità è ancora un tabù e noi ci sentiamo genitori sospesi, come se nessuno si volesse accorgere che esistiamo».

Alle pareti le foto di chi ce l’ha fatta, i sorrisi dei bambini nati. Qualcuno ha disegnato un cuore e scritto con un pennarello “felicità”. «Medici, biologi, psicologi, infermieri diventano una seconda famiglia». La chiama così Maria che fa la cameriera ed è pronta per la sala operatoria per il prelievo degli ovociti. Maria ha trent’anni e la leucemia: «Questo è l’unico modo per preservare la fertilità prima delle cure. Sono riuscita ad entrare qui per miracolo, l’alternativa per fare in fretta era il privato e mi sarebbe costato migliaia d’euro che non ho». Pezzi di vita e speranza che finiscono nel regno dei ghiacci. Crioconservati dentro grandi ampolle. Il 95 per cento però dei gameti usati per l’eterologa compiono un lungo viaggio prima di diventare nuova vita con cittadinanza italiana.

Provengono da “banche” estere, spagnole e danesi per lo più, alle quali si rivolgono i pochi ospedali pubblici con dei bandi e le più numerose cliniche private. Nel nostro Paese non è proibito donare, ma di fatto non lo fa nessuno. «Del resto siamo gli unici in Europa a non prevedere alcun rimborso. Altrove si va dai 400 ai 1.500 euro: possono risarcire lo stress psicofisico cui si sottopone una donna tramite la stimolazione ovarica e il prelievo, che è pur sempre un intervento in sedazione profonda. Il risultato è che li acquistiamo: ci costa una media di 3mila euro a kit per un totale di 150 milioni l’anno», ragiona Mencaglia.

Se l’obiettivo italiano era quello di evitare la commercializzazione di gameti, la situazione attuale impone un percorso non meno oneroso. Per questo la Toscana permette il freezing a scopo sociale. Una ragazza può crioconservare i suoi ovociti: è tutto a carico del sistema sanitario purché ne doni almeno un terzo. Un atto di solidarietà. «Perché un figlio non lo fa il 50 per cento del Dna, né la proprietaria di un ovocita, ma l’amore di chi lo cresce giorno dopo giorno», spiega la studentessa di medicina Rita. Non saprà mai se i suoi ovuli cresceranno nel corpo di un’altra donna.

«Non si è creata una cultura della donazione. Non se ne parla. Non esistono campagne governative per la donazione, per la prevenzione dell’infertilità, per spiegare cosa sia la fecondazione assistita. Manca una rete tra consultori, occorre investire nei servizi territoriali», nota Filomena Gallo avvocata e segretario dell’associazione Luca Coscioni che da anni si batte per vedere riconosciuti quelli che dovrebbero essere solo dei diritti.
Nemmeno l’età per accedere alle cure è chiara. La legge lascia la discrezione ai medici, gli unici in grado di capire quali siano le possibilità per una coppia di ottenere una gravidanza, ma in Italia la ministra Beatrice Lorenzin, dopo le polemiche per il primo Fertility Day con tanto di opuscolo razzista poi ritirato , «si è sostituita alla scienza e ha deciso di mettere il blocco a 46 anni» - tuona Filomena Gallo - «È un limite illegittimo e la ragione è solo il contenimento della spesa pubblica in base a un’ipotetica riuscita del trattamento. Applicando la stessa logica non dovresti far accedere alle cure pubbliche un malato oncologico in fase avanzata». E come se non bastasse ognuno stabilisce la sua soglia: in Lazio si scende a 43 anni, in Veneto si sale a 50. E in un susseguirsi di regole, cavilli e carte bollate alla fine si rinuncia.

È accaduto a Francesco e Monica. Hanno chiesto l’accesso all’eterologa nel 2015 ma nessun centro pubblico nel Lazio eseguiva tecniche con donazione di gameti. Si sono rivolti all’Emilia Romagna nel 2016, entrano in lista di attesa e vengono richiamati a settembre 2019. Monica nel frattempo ha 46 anni e il Lazio a quell’età non rimborsa più. Hanno chiesto un intervento al ministero della Salute, ma nessuno ha risposto.

Un far west procreativo smantellato pezzo per pezzo nelle aule di tribunale. E così che nel 2009 l’associazione Luca Coscioni con altri ottiene dalla Corte costituzionale l’abolizione del limite di fecondazione di soli tre gameti e l’obbligo di un unico e contemporaneo impianto per tutelare la salute della donna da gravidanze multiple. Poi nel 2014 cade il divieto di eterologa e nel 2015 i giudici costituzionali aboliscono il divieto che ha permesso a Martina di festeggiare il suo quarto compleanno. La diagnosi pre-impianto su un embrione non è eugenetica, non è scegliere se Martina avrà gli occhi verdi o il naso all’insù. I genitori, Valentina e Fabrizio, avevano già vissuto sette aborti. «La diagnosi era sempre la stessa: malformazioni fisiche incompatibili con la vita», spiegano. Unica via per evitarle, quell’esame sull’embrione prima del trasferimento in utero. «Ci dicevano che comunque eravamo fertili e quindi non potevamo accedere alle cure: una follia! Quando Martina diventerà grande saprà che questa battaglia l’abbiamo fatta anche per gli altri. Deve imparare che bisogna lottare per i diritti di tutti sempre», raccontano.

Nel 2016 la Consulta ha chiesto al legislatore di regolamentare anche la possibilità di donare alla ricerca gli embrioni non idonei a una gravidanza. Un richiamo però caduto nel vuoto.

Le linee guida dovrebbero venire aggiornate ogni tre anni eppure sono rimaste ferme al 2015. E persino i dati sono incerti. Entro il 30 giugno il ministero della Salute deve presentare in Parlamento una relazione sullo stato di attuazione: le tecniche erogate ogni anno, come ogni regione utilizzi i fondi, la migrazione dei pazienti, ma quest’anno non è ancora stata fatta.

Certo siamo in mezzo alla pandemia, la diffusione del virus e i problemi sono altri, ma in questo momento ci sono coppie a cui viene negato il diritto a generare la vita. Tante realtà che raggruppano potenziali genitori, come L’altra cicogna, Cerco un bambino, Vox diritti, Sos infertilità insieme all’associazione Luca Coscioni hanno di recente scritto una lettera al ministro della Salute Roberto Speranza. Chiedono che sia aggiornata in modo chiaro la parte dei Lea relativa alle prestazioni e siano inserite le indagini diagnostiche sull’embrione, che le tabelle sui costi siano corrispondenti alle spese reali; che siano aggiornate le linee guida, che sia rimosso il limite di accesso di 46 anni per la donna alla Pma a carico del sistema sanitario. Tra loro ci sono anche i genitori di Stella. Non hanno avuto più figli ma hanno deciso di battersi per difendere i diritti di tutti. Per ora però sono rimasti inascoltati.