Da settimane leggiamo e pubblichiamo storie anonime di aborti, di esperienze di donne maltrattate e considerate assassine da interi reparti ospedalieri. Abbiamo deciso di raccontarle ancora una volta, selezionando selezionando delle tematiche comuni a troppe vicende giunte in redazione. Oggi ci concentriamo sul tempo che trascorre tra la decisione di interrompere la gravidanza e l’aborto vero e proprio
M. racconta del suo intervento in Toscana: «Avrei potuto eseguire l’aborto farmacologico, ma a causa dei tempi di attesa ho dovuto eseguire il chirurgico. Chiamavo tutti i giorni in ospedale, ma l’anestesista non c’era mai. Per due lunghissime settimane ho dovuto mettere in stand by la mia esistenza, facevo il possibile per non pensare alla vita che mi cresceva in grembo e di cui non ero in grado di prendermi cura. Dopo l’intervento ho dovuto aspettare tutto il giorno che arrivasse un medico non obiettore per fare la visita e mandarmi a casa».
R. da Taranto scopre di essere incinta nel 2018, quando ha trent’anni. «Nel reparto di ostetricia dell’ospedale Fazzi di Lecce pianificano la mia interruzione terapeutica facendo sì che combaci con i turni del personale non obiettore di coscienza. Dopo un travaglio di 18 ore, la ginecologa mi dice che sono stata fortunata, anche se ho avuto bisogno di 5 candelette, di cui l’ultima inserita da mia madre. Il tutto è terminato solo grazie a un’ostetrica non obiettrice che, forse per pietà, mi ha attaccata a una flebo che, in pochi minuti, mi ha fatto espellere il feto».
M. da Padova aveva 22 anni: «Mi ci sono voluti 2 mesi, centinaia di telefonate e 6 ospedali per poter praticare un mio diritto. Ricordo tutto: le frecciatine dei medici, il non sapere cosa mi doveva succedere, il non sapere quando sarebbe finita».
C. da Milano racconta la storia di una delle donne nigeriane che segue nel centro di accoglienza in cui lavora. «M. si prostituisce. Scopre di essere incinta quando ormai ha solo un paio di settimane per poter abortire. Nell’ospedale di provincia lombarda in cui la accompagno è pieno di medici obiettori e l’interruzione di gravidanza si fa solo una volta alla settimana, il giovedì. Alle visite sono con lei, che è sola e non parla italiano. Per fortuna, mi dico. A una settimana dal limite, dobbiamo aspettare ancora perché il medico designato è in ferie. Una corsa contro il tempo e contro gli obiettori di coscienza».
A. da Bari scopre che qualcosa non va durante la 17esima settimana, nel 2017. «Per due ore medici e specializzandi si alternano davanti al mio lettino, come fossi una cavia, perché sono un caso raro. Il mio ginecologo di allora, obiettore di coscienza, sminuisce la diagnosi, una grave patologia congenita del cuore, e mi obbliga a fare l’amniocentesi, esame altamente invasivo. Il suo unico scopo è farmi superare il limite di legge fissato alla 21esima settimana. Ho cambiato ospedale e ho abortito alla 19esima. Il travaglio è durato 9 ore, ho urlato affinché l'anestesista mi facesse l’epidurale. E nel giro di mezz'ora ho espulso il "prodotto abortivo”: così hanno chiamato la mia bambina».
M., che oggi ha 40 anni, racconta di quando ne aveva 31: «All’ospedale Fabriano di Ancona mi dissero che dovevo aspettare almeno due mesi per poter abortire. E purtroppo li aspettai».
L’esperienza di E. in un ospedale di Padova dimostra che le lunghe attese iniziano ancora prima di mettere piede in ospedale: «È agosto 2020. Al consultorio mi dicono che la ginecologa è in ferie e il sostituto è in malattia. Ne chiamo un altro, che mi risponde di rivolgermi di nuovo al primo. Il terzo quel giorno non è accessibile. Richiamo il primo, mi mettono in attesa per dodici minuti. Perdo un’intera mattinata di lavoro al telefono». Dopo le analisi, l’ecografia viene fissata per 8 giorni dopo, di venerdì. Contando anche i 7 giorni di ripensamento previsti dalla legge e il weekend, «Mi stavano di fatto precludendo la possibilità di abortire prima di 10 giorni. Sarei stata tre giorni oltre il limite delle 7 settimane per il farmacologico». Dopo l’ecografia le consigliano il raschiamento, ma lei sceglie la pillola abortiva. Passeranno tre ore di attesa in ospedale e due giorni di ricovero prima che la dimettano.
L’esperienza di S. da Messina inizia con la ricerca di uno psichiatra che le rilasci il certificato per eseguire un aborto terapeutico: «Non pensavo fosse così difficile in un paese come l'Italia, ma i percorsi che conducono a questa decisione non sono per niente rapidi. Dopo aver finalmente ottenuto il certificato, vengo ricoverata in una struttura, ma a causa del Covid-19 nessuno può accompagnarmi. L’induzione al parto però non funziona e devo rimanere in ospedale per 6 giorni, da sola, prima di riuscire ad abortire».