Troppo spesso abortire diventa una tortura. L’Espresso ha messo a disposizione uno spazio in cui condividere anonimamente la propria esperienza. Per rompere il silenzio e raccontarla #innomeditutte. Questa è una delle testimonianze che abbiamo raccolto

Dopo aver scritto la terribile testimonianza di un'interruzione volontaria di gravidanza fatta di sofferenze e silenzi, abbiamo deciso di pubblicare un po' alla volta quelle arrivate in redazione in questi giorni. Lo spazio anonimo riservato alle vostre esperienze ne ha raccolte a centinaia. Da tutta Italia. Da giovani ragazze alla prima gravidanza, da donne già madri di due figli, da mariti che cercano di esprimere a parole il dolore di una perdita da cui spesso vengono esclusi.

Questa testimonianza arriva da Roma.

«Ho scoperto di aver contratto il citomegalovirus alla 17esima settimana di gravidanza.

IN NOME DI TUTTE
«Storia del mio aborto: maltrattata e lasciata sola nel reparto in cui le altre partorivano»
5/10/2020
Mi sono fatta forza e insieme a mio marito ho deciso di andare avanti. Desideravo tanto una sorellina per il mio bimbo di tre anni. Purtroppo, per una lesione delle membrane, mi si rompono le acque a 21 settimane. Corro al Gemelli di Roma dove vengo informata, il giorno successivo al ricovero, dei rischi alti per lei e per me. Così decidiamo che per noi è impossibile proseguire. Per lei la vita non sarebbe stata vita.

Firmo le dimissioni, è giugno 2020. Andiamo diretti al San Camillo, dove al pronto soccorso mi visitano ed io piangendo parlo del mio sogno infranto. Mi ricoverano in maternità perché il reparto sarebbe stato chiuso fino al 3. Intanto assumo antibiotici, perché rischio di contrarre infezioni.

Vergogne
Il diritto di aborto trasformato in tortura. Vi racconto la mia cicatrice, in nome di tutte
28/9/2020
Dopo due giorni di attesa in reparto con la mia piccola che scalciava come una furia, vengo trasferita in ginecologia e inizio il percorso per abortire. Mi viene data la pillola per rilassare il collo dell’utero, naturalmente dopo che uno psichiatra mette una sigla sulla mia cartella, e vengo rimandata in reparto sapendo che 48 ore dopo mi avrebbero dato gli ovuli per indurmi al parto. Io cammino talmente tanto che il travaglio inizia prima: ricordo di aver chiesto aiuto dalla mia stanza, ricordo che da sola sono andata a prendere il pannolone, ricordo che alle 20 la dottoressa mi ha visitato dicendo che ci sarebbe voluto tempo, e io svenivo tra una contrazione e l’altra. La dottoressa mi dice “Eeee che esagerata”. Quando chiedo un antidolorifico, l’infermiere mi risponde "Signora, ma il travaglio si deve fare”.

E dopo circa sei ore di inferno la dottoressa esclama: "Mica la posso portare in sala travaglio, rischia di incontrare una vera mamma!”. Sola, sudata ed esausta ho la forza di far nascere mia figlia. Accucciata come un cane nel mio letto. Dopo mezz’ora mi portano in sala parto, mentre io avviso mio marito che la bimba è nata. Non ho voluto vederla, avrei solo voluto morire con lei».