Troppo spesso abortire diventa una tortura. L’Espresso ha messo a disposizione uno spazio in cui condividere anonimamente la propria esperienza. Per rompere il silenzio e raccontarla #innomeditutte. Questa è una delle testimonianze che abbiamo raccolto

Dopo la storia di un'interruzione volontaria di gravidanza fatta di sofferenze e silenzi, abbiamo deciso di pubblicare un po' alla volta quelle arrivate in redazione in questi giorni. Lo spazio anonimo riservato alle vostre testimonianze ne ha raccolte a centinaia. Da tutta Italia. Da giovani ragazze alla prima gravidanza, da donne già madri di due figli, da mariti che cercano di esprimere a parole il dolore di una perdita da cui spesso vengono esclusi. 

Questo è il racconto di C. da Sassari. 

«Qualche pensiero.

Del mio aborto a 19 anni ricordo le lunghe discussioni con operatori vari che volevano convincermi a tenere il bambino ignorando il fatto che nessuno mi avesse mai dato la minima preparazione culturale per non trovarmi in quella situazione quando ormai il danno era fatto. Ricordo anche chiaramente il disagio e il dolore di trovarmi nello stesso reparto in cui le altre donne partorivano felici, circondate dai parenti e coi loro bambini in braccio. Io, nonostante la mia totale incoscienza di quello che mi stava capitando, la sentii come una violenza inaudita. Come una punizione.

La piaga degli obiettori di coscienza dovrebbe essere del tutto abolita, è vergognoso in un paese laico dover sottostare a quello che per lo più è diventato il grimaldello per fare carriera nei reparti.

Vergogne
Il diritto di aborto trasformato in tortura. Vi racconto la mia cicatrice, in nome di tutte
28/9/2020
Oggi, che sono felicemente al mio quarto figlio, ho dovuto affrontare tutta la gravidanza in regime di Covid: con difficoltà a prenotare le poche visite necessarie, con male maniere da parte di alcuni sanitari che evidentemente si sentono sufficientemente stressati per permettersi di maltrattare le pazienti e soprattutto senza il supporto del mio compagno, padre del bambino. Soprattutto durante l'ecografia morfologica in cui possono venire anche comunicate notizie dure e tragiche.

Da sola, davanti a un dottore privo di qualsiasi rispetto, gentilezza ed empatia (forse aveva bisogno di vedermi accompagnata da un uomo per dedicarmi anche il minimo rispetto?) e con la amara consapevolezza che il padre del bambino è stato inutilmente e ingiustificabilmente escluso da un percorso a cui aveva tutto il diritto di partecipare. In nome di che cosa?

La violenza e gli abusi in tema di donne e di parto non si contano. Uno di questi è non prevedere, almeno nella mia regione, il parto in casa coperto dal servizio sanitario pubblico. Se non vorrò sottopormi alle pesanti prassi del parto in ospedale in tempo di Covid dovrò spendere di tasca mia circa 3000 euro».