Un romanzo profetico. Su una perfetta moglie borghese che si ribella rifiutando il cibo. L'autrice del "Racconto dell'ancella" denuncia ancora una volta l'oppressione di una società maschilista. E invita a non arrendersi

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Peter chiede a Marian di sposarlo: con lei sarà più felice e lo saranno anche i suoi datori di lavoro. Un avvocato sposato piace ai clienti più di uno scapolo: col passare degli anni si rischia di essere scambiati per omosessuali. E poi c’è un fattore decisivo: Marian è una donna di “molto buon senso”, e il buon senso è una qualità fondamentale in una moglie. Marian lo guarda, non sa cosa rispondere, non può che replicare: «Anche tu hai molto buon senso». È una dichiarazione d’amore senza amore.

I personaggi di “La donna da mangiare”, romanzo che Margaret Atwood scrisse quando aveva ventisei anni (e che Ponte alle Grazie ripropone ora nella traduzione di Guido Calza), sono sempre preceduti dalle loro intenzioni invece che dalle emozioni; agiscono in modo talmente razionale da risultare grotteschi. Marian McAlpin, la protagonista, ha una vita ordinata, perfettamente divisa tra la sua relazione con Peter e il suo lavoro di intervistatrice per la Seymour Surveys, impiego che sa essere senza prospettive, unico approdo per donne annoiate che poi lo lasciano alla prima gravidanza.

L’amica con cui condivide l’appartamento, Ainsley, annuncia che avrà un bambino: non perché sia già incinta ma parchè ha semplicemente deciso di procreare. Ha solo bisogno di un uomo che la aiuti a perseguire il suo intento, un uomo che non diventi marito perché a lei i mariti non piacciono. Sono donne senza parte istintuale. Donne senza corpo, come spesso sono le eroine di Atwood. L’autrice scrisse questo romanzo nella primavera del 1965, facendosi ispirare da una vetrina di Woolworth’s piena di dolciumi a forma di Topolino, perché allora rifletteva molto sul cannibalismo simbolico. Il corpo della donna è sempre al centro delle sue narrazioni: ma è un corpo che non c’è, non viene descritto, non reclama la sua specificità. Se non come urlo di dolore.

«Per sopravvivere nella natura bisogna conoscere i propri predatori e non sembrare delle prede», ha detto Atwood in un’intervista. Allora il destino delle donne era segnato da due sole possibilità: sposarsi o intraprendere una carriera senza futuro. Eppure Marian riesce a sottrarsi. O meglio, è il suo corpo a farlo ancor prima che lei ne abbia consapevolezza. È il suo corpo a ritagliarsi una possibilità di scelta. Una sera a cena con Peter sente un’affinità improvvisa con la bistecca al sangue che lui sta divorando. Da quel momento in poi non riuscirà più a mangiare nulla che sia stato vivo. Pian piano il suo corpo rifiuterà anche la colazione, anche le carote e molti altri cibi: tenderà all’evanescenza come volontà di sottrarsi all’immagine di una femminilità imposta. Come rifiuto di sentirsi una vittima, rifiuto di venir divorata dal conformismo.

“La donna da mangiare” usciva nel 1969, quando nasceva il femminismo in America, anche se Atwood l’aveva scritto prima. Ogni grande autore d’altronde è sempre un chiaroveggente. Ma ogni grande autore sa anche che le domande fondamentali della propria opera rimangono sempre aperte, sono sempre un invito al ragionamento. «Chi sostiene che viviamo in un’era post-femminista sta prendendo un triste abbaglio, oppure si è stancato di ragionare sulla questione».