
Nello stesso periodo la guardia costiera cipriota ha respinto e espulso quasi trecento persone senza dare loro la possibilità di presentare richiesta d’asilo, come denunciato da un lungo e dettagliato rapporto di Human Rights Watch.
Un altro conteggio dei respingimenti arriva da un’organizzazione non governativa cipriota, la Kisa, che, sulla base delle statistiche della polizia locale, indica che nei primi nove mesi del 2020 le autorità dell’isola hanno intercettato mille persone su imbarcazioni irregolari dirette a Cipro.
Quattrocento nei primi sei mesi dell’anno, tutte le altre concentrate nelle settimane seguite all’esplosione al porto di Beirut.
Numeri piccoli, certo, rispetto alla rotta del Mediterraneo Centrale, ma in costante aumento, e significativi di una tendenza destinata ad incrementarsi in un paese in cui metà della popolazione viveva al di sotto della soglia della povertà già prima della crisi.
Fino allo scorso anno a partire dal Libano erano per lo più rifugiati siriani o palestinesi, sfiniti da anni di vita nelle tende, dalla disoccupazione, dall’assenza di prospettiva di un ritorno a casa.
Oggi i cittadini libanesi si uniscono ai rifugiati.
Chi non ha contatti nei ministeri, non riceve una lettera di invito, non ottiene un visto per lasciare il paese legalmente, si rivolge a un trafficante chiedendo di attraversare il mare e tentare di raggiungere l’Europa, distante 160 chilometri.
Human Rights Watch sostiene che le autorità cipriote hanno ignorato le richieste di asilo delle persone intercettate in mare, persone che, lo scorso ottobre, hanno testimoniato anche di essere state picchiate da agenti della polizia marittima dell’isola.
All’inizio di settembre, si legge ancora nel rapporto, le forze della guardia costiera cipriota hanno intercettato un gommone alla deriva senza carburante e ignorato le richieste di aiuto. Il gommone è stato ritrovato sei giorni dopo da un peschereccio libanese e le persone riportate a terra, sfinite.
«Il fatto che i cittadini libanesi si uniscano ai rifugiati siriani per fuggire dal Libano e chiedere asilo nell’Unione europea è un segno della gravità della crisi che il paese sta affrontando», ha detto Bill Frelick, direttore per i diritti dei rifugiati e dei migranti di Human Rights Watch.
«Cipro dovrebbe considerare le loro richieste di protezione in modo completo, equo, e trattarle in modo dignitoso invece di ignorare gli obblighi di salvare le barche in difficoltà. E soprattutto non dovrebbe impegnarsi in espulsioni collettive», espulsioni vietate dall’articolo 4 del protocollo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
Tra le persone rispedite indietro e picchiate anche Mustafa, 32 anni, rifugiato siriano ufficialmente registrato dall’Unhcr in Libano, fuggito da Raqqa, cieco da un occhio, che era sull’imbarcazione con sua moglie e i quattro figli di uno, quattro, sei e otto anni.
Partire illegalmente dal porto di Tripoli era il solo modo che avevano per lasciare il paese. Sono scappati da una guerra nel 2014, hanno vissuto sei anni nelle tende.
E nessuno ha dato loro la possibilità di fare richiesta d’asilo, una volta entrati in acque europee.
Cipro è lo stato membro dell’Unione Europea più vicino al Medio Oriente e negli ultimi due anni ha assistito a un graduale aumento degli arrivi di migranti e rifugiati perché altre rotte sono diventate più difficili da attraversare.
Il Ministro degli Interni, Nicos Nouris, ha recentemente dichiarato al Cyprus Mail: «Non possiamo più permetterci di ricevere migranti economici, le strutture a nostra disposizione sono largamente insufficienti e le capacità del paese sono esaurite».
Lo dice di fronte a un flusso piccolo ma costante di arrivi, non più solo dal Libano ma anche dalla Turchia.
La scorsa settimana tre gruppi di imbarcazioni hanno raggiunto Cipro dalle coste turche, distante settanta chilometri.
L’isola è divisa tra la Repubblica di Cipro, stato membro dell’Unione europea riconosciuto a livello internazionale, e la parte settentrionale amministrata dalla Turchia.
Le autorità della Repubblica di Cipro hanno ripetutamente chiesto l’assistenza dell’Europa per gestire gli arrivi dei migranti e alleviare il peso della loro presenza nei campi, perché Cipro ha uno dei tassi pro capite di richiedenti asilo più alta tra tutti gli stati dell’Unione.
Lo scorso anno il paese, che conta un milione e duecentomila abitanti, era addirittura in cima alla lista, nell’ultimo trimestre del 2019 ha registrato quasi 4 mila richieste per un milione di residenti, secondo i dati Eurostat.
I fortunati, quelli che riescono a raggiungere l’isola, sono destinati al campo di Pournara a Kokkinotrimithia, un campo all’aperto, sporco, infestato dagli insetti, che a metà settembre ospitava seicento persone a fronte di una capienza di cento.
L’acqua scarseggia, non c’è abbastanza cibo, ci sono quattro bagni ogni cento persone, le tende sono prive di elettricità e le quattro sezioni del campo invase da rifiuti.
L’incremento dei numeri sulla rotta che unisce il Libano a Cipro è stato messo in luce di nuovo con forza due mesi fa, quando una barca con quaranta persone a bordo è stata ritrovata alla deriva al largo delle coste del Libano dai mezzi della missione delle Nazioni Unite Unifil, dopo nove giorni in mare.
Sei persone, tra cui due bambini, a bordo della barca erano morte, e altre sei disperse.
Uno dei dispersi era il cugino di Arafat Kholegisine, giovane libanese nato e cresciuto a Tripoli.
Le due barche su cui viaggiavano erano partite alla stessa ora dal porto di Tripoli, quella di Arafat è stata intercettata dalla guardia costiera cipriota nove giorni dopo e scortata indietro verso il Libano, di quella di suo cugino non si è saputo nulla finché insieme alla notizia del ritrovamento dell’imbarcazione non è arrivata anche la cifra delle vittime a bordo.
Arafat ha 26 anni, è sposato da quattro e ha una figlia di due. Fino allo scorso anno lavorava a giornata in una fabbrica di alluminio. Guadagnava poco ma si accontentava, qualche lavoro saltuario suo e di suo fratello garantivano a una famiglia di dodici persone di mangiare e pagare il combustibile per scaldarsi e cucinare.
Poi la crisi economica e l’esplosione hanno messo in ginocchio una città che già soffriva anni di abbandono da parte del governo centrale di Beirut.
Tripoli è la seconda città del Libano, conta settecentomila abitanti a stragrande maggioranza sunnita. Anche prima della crisi economica i lavoratori, come Arafat e suo fratello, dipendevano da lavori giornalieri, precari e sottopagati, tanto che nel 2016 la Banca Mondiale aveva classificato la città come una delle più povere della costa Mediterranea, con l’80 per cento degli abitanti che viveva con meno di due dollari al giorno e più della metà delle famiglie che faticava ad avere accesso a servizi di base, cioè istruzione e assistenza sanitaria.
A settembre la figlia di Arafat si è rotta il braccio, l’ha fratturato cadendo mentre giocava con suo fratello.
Quando Arafat è entrato in casa e ha sentito piangere la bambina ha avuto due preoccupazioni: la prima è stata arginare il dolore della figlia, la seconda raccogliere soldi per portarla in ospedale.
Perché sapeva che senza soldi non le avrebbero neppure ingessato il braccio.
«Mi hanno chiesto 450 mila lire libanesi nell’ospedale pubblico per il calco e il gesso. Se hai un collegamento, qualcuno che ti protegge, sei curato bene. Altrimenti devi organizzarti, e se hai bisogno di qualcosa in fretta, di una cura urgente, devi pagare», dice.
E così ha fatto, Arafat, mettendo insieme i suoi risparmi, quelli di suo padre e di suo fratello. Ha pagato il calco e il gesso.
Poi, insieme a suo cugino, ha deciso di informarsi dai pescatori e dai trafficanti, al porto di Tripoli, per capire come funzionasse il viaggio per raggiungere l’Europa.
E ha tentato la traversata due volte in poche settimane: «La prima volta non sapevo cosa aspettarmi né cosa temere, eravamo quaranta persone su un’imbarcazione che poteva contenerne al massimo dieci. Eravamo preoccupati per i bambini, ma ci siamo salvati tutti quando i mezzi della guardia costiera ci hanno intercettato», racconta Arafat.
Due settimane dopo è tornato al porto, aveva venduto quel che restava da vendere, una vecchia automobile, un anello di sua madre, e uno di sua moglie, ha pagato quanto doveva, cinque milioni di lire libanesi, che al mercato nero oggi valgono 650 dollari, e ha chiesto al trafficante di partire, di nuovo, con il sogno di una vita nuova in Europa.
Non aveva intenzione di tornare, Arafat, ma è stato intercettato di nuovo e riportato indietro.
«Ci sono i privilegiati anche nei viaggi della disperazione», dice camminando nel porto al Mina di Tripoli, «c’è chi può permettersi di comprare una barca di quattro, cinque metri e portare via in sicurezza tutta la famiglia. I trafficanti propongono barche che non sono ufficialmente registrate, costano dieci milioni di lire libanesi. Ne prendi una, carichi la tua famiglia e scappi via da qui. Poi ci sono quelli come noi, in quaranta su una barca per dieci, che finiscono il carburante e restano in mare nove giorni sperando di non morire».
La città di Tripoli ha una posizione strategica nel Mediterraneo, vicina alle grandi città siriane, che l’ha a lungo resa incrocio di interessi in competizione, sia economici che religiosi.
La città è stata teatro di alcune tra le peggiori violenza dalla fine della guerra civile, nel 1990, poi dal 2007 al 2014 gli scontri tra sunniti e alawiti, e dopo il 2014 molti giovani dei sobborghi più poveri, come Bab al Tebbaneh, hanno imbracciato le armi unendosi a gruppi jihadisti.
La guerra siriana, al suo decimo anno, ha privato la città dei legami commerciali con la Siria che erano una delle fonti primarie di entrate, e insieme agli scambi economici che diminuivano, arrivavano nelle aree intorno Tripoli centinaia di migliaia di rifugiati.
La tensione della convivenza tra libanesi e rifugiati siriani, faticosa fino allo scorso anno, sta esplodendo in una purtroppo prevedibile guerra tra poveri.
«I rifugiati hanno almeno gli aiuti delle Nazioni Unite, noi non abbiamo niente», dice Arafat, disperato, ignorando forse come gli aiuti per i rifugiati stiano progressivamente diminuendo.
Intanto, il governo libanese continua a utilizzare la minaccia di un’ondata di rifugiati diretti in Europa per chiedere fondi ai donatori internazionali.
L’ex Ministro degli Esteri Gebran Bassil, dopo la visita del presidente francese Macron il 4 agosto scorso, a seguito dell’esplosione al porto di Beirut, ha detto: «Coloro che accogliamo generosamente potrebbero prendere la via di fuga verso di voi, se il Libano crolla».
Tutto il mondo è paese, e dove si apre un flusso migratorio verso l’Europa si aprono anche le trattative (leggasi ricatti) per contenerle.
Soldi, supporto, in cambio della protezione dei confini.