Quelle svastiche sono i segni di un pensiero che non c'è più
I simboli dell'odio sui muri e sulle porte sono codici rudimentali, semplici, evocativi. Lontani da ogni ragionamento
Poiché conduce l’invisibile nel regime delle cose visibili, il segno avanza sulla nostra specie un’ipotesi inquietante, ovvero che produciamo simboli perché noi stessi siamo un simbolo. Di cosa saremmo simbolo? Nel baratro che si apre un millimetro dopo questo punto di domanda, si elabora un ribollire di pulsioni oscure e di memorie arcaiche, capace di marchiare le porte della nostra contemporaneità. E sono letteralmente le porte, queste custodi della soglia, già per sé eternamente simboli, a essere sfregiate dai segni dell’imbarbarimento più lordo e purtroppo memorabile. A Mondovì il 24 gennaio, sull’uscio dell’abitazione del figlio di una sopravvissuta allo sterminio. Tre giorni dopo, a Torino, per ben due volte, culminando nello sfregio al bar di proprietà di una donna di origini marocchine. E poi a San Daniele in Friuli, nuovamente a Torino, a Brescia, a Giaveno, a Bologna, a Forlì.
Un moltiplicarsi di scritte infami, alla cui compagnia non intende sottrarsi il segno più compromesso dell’intera storia umana, la svastica, nelle sue orripilanti variazioni, dalla croce celtica all’acronimo delle Schutzstaffel, le SS, “squadre di protezione” del Führer, una parola composta su cui la storia ha impegnato tutta la vergogna della sua ironia tragica. In epoca digitale, mentre dilaga l’imperio delle immagini e dei codici, il segno subisce un infarto, corteggia la propria fine e ritrova la sua forza primordiale. Perché ritornano queste croci pervertite? Rudimentale e semplice, ma tutt’altro che semplicistica, è l’emersione dei codici originari, del graffito primario, con cui la nostra specie ha inteso segnare il proprio passaggio su questo pianeta. Un antico semiologo asseriva che ogni ripudio del linguaggio fosse una morte. Oggi il ripudio del linguaggio e l’assunzione del simbolo sono una morte?
La sorpresa, lo choc addirittura, e il conseguente imbarazzo di fronte all’utilizzo, mai strumentale, dei simboli più remoti, probabilmente, nasce dal fatto che tra le molte cifre con cui possiamo connotare l’epoca attuale c’è un’assenza conclamata. Ed è quella di una teoria sull’uomo e sul mondo. Uno dei primi e più importanti sintomi di una simile drammatica vacanza, è lo zero assoluto che la politica spende in fatto di visione della realtà umana. La carenza totale di un pensiero su cosa sia fisicamente ed emotivamente e psicologicamente e spiritualmente l’uomo - ecco l’incrinatura, il peccato più postumo che originale, lo spalancamento al ritorno caotico del segno in tutto il suo orrore. Come è possibile progettare insieme una vita collettiva, se non si ha la benché minima idea su cosa sia chi quella vita intende viverla? Se l’occidente nel Novecento almanaccava lo spirito come una secrezione della materia, interpretando Freud e sintetizzando le filosofie marxiste o pensando l’umano come funzione di consumo, al giorno d’oggi non si vede all’orizzonte non tanto l’ideologia, ma il suo elemento basilare, sul quale essa germoglia - che è l’idea. E, non avendo idea del mondo e del fenomeno umano, la contemporaneità perde la comprensione del segno, ovvero la precondizione minima per il controllo e la diffusione del simbolo. La svastica, e la croce semplice che è il suo presupposto, fuoriesce dal bugliolo dell’inconscio collettivo? La sua reiterata manifestazione è un fatto di memoria volontaria? Quale politica, ma direi in assoluto quale disciplina, è oggi in grado di percepire e regolare la potenza del segno? Nella frazione di San Martino in Strada, in provincia di Forlì, alcuni tredicenni si sono messi a imbrattare i muri, vergando una svastica, la scritta “EBREI” e, insieme a un tale florilegio di umanità, incongruamente il simbolo dell’anarchismo. Non è dunque il segno ad avere infartuato. È piuttosto la memoria a fallire. Il crollo della memoria è un fatto antropologico di portata epocale. Si fonda anzitutto sul calo delle soglie spontanee di attenzione, che una ricerca Microsoft nel 2015 misurò a 8 secondi per l’abitante occidentale (il pesce rosso ha un arco attenzionale di 9 secondi; nel 2000, la stessa ricerca quantificava in 12 secondi l’attenzione media). Ma non basta. È l’intera civiltà digitale che ha intrapreso un nuovo percorso per il tipo medio del mondo sviluppato: non c’è più canone, l’intero apparato educativo e il contesto sociale collaborano a questo azzeramento. La memoria non crea sensibilità, perché è esternalizzata. Tra la biblioteca fisica e la disponibilità istantanea e ubiquitaria di Wikipedia si gioca questa trasformazione. Sembra banale, non smette di essere enorme. L’età della ragione, o quella che gli umani hanno ritenuto tale, poteva riassumersi in questo: ricordare e comprendere storicamente il simbolo. Saperlo. Controllarlo.
A permettere di compiere quest’opera sarebbe un dispositivo tutt’altro che banale, ma evidentemente abusato, visto il disinteresse che crea. È il testo. La sovrapproduzione di testi (prendiamo il settore librario: in dieci anni siamo passati in Italia dalla pubblicazione di 150 mila titoli alla produzione di 650 mila libri all’anno) è direttamente proporzionale alla percentuale di abbandono della testualità. Il tempo digitale schiva il testo, lo sente noioso e inutile, perché esso implica attenzione e memoria, che a oggi sono equivalenti a sforzo e fatica. Questo mancamento è repentino e tocca la realtà. L’umanità sembra avere difficoltà a “leggere” il mondo, a percepire la realtà come se stesse decifrando un testo. Un antico costume degenera e svanisce. Millenni collassano in questi giorni. E, in un presente che non dispone di capacità testuali, e quindi non ha presente una teoria dell’inconscio né è in grado di fare i conti con lo spirito, la fluttuazione dei segni diviene irrefrenabile. Ciò che è antichissimo presenta il conto. Non c’è più diaframma né valutazione. L’umano sembra in preda a un deliquio simbolico.
C’è da considerare il fatto che l’uomo che porta la Croce, Papa Francesco, poche settimane fa, parlando alla curia romana, abbia proferito nella disattenzione dei media alcune parole di eccezionale peso: noi non siamo più nella cristianità. Non siamo più nel canone, non ci troviamo più alle latitudini della storia per come la abbiamo millenariamente conosciuta. È la distrazione generale a dimostrare il fatto e infatti Francesco aggiunge che la Chiesa non è più l’unica a creare cultura e nemmeno la più ascoltata. Si ascolta altro. Non lo si legge. E tuttavia il pontefice non si sogna minimamente di dire che non viviamo più nel segno della Croce, il simbolo che egli custodisce. Tutti i testi, le interpretazioni, le dialettiche, l’immensa prosa del mondo possono svanire. Il sentimento totale dell’uomo si rattrappisce nei suoi rappresentanti più antichi e attivi - che sono i segni. Ogni svastica funziona prelogicamente. Porta da sé il suo significato, che è stato storicamente determinato e significa questo: l’ordine dell’orrore, la più sporca pulizia in nome di un’idea astratta di purezza e di emendamento della specie. Quel simbolo è stato adottato, perché in sé aveva le possibilità di sprigionare simili significati. Il tempo elettrico che viviamo, in cui si inflazionano i simboli, sembra l’ultima soglia, oltre la quale lo scatenamento dei segni dirà la verità della storia. Se con amore o con violenza si vedrà.