Un’area un tempo bellissima, tra Agrigento e Caltanissetta. Che ha ospitato fabbriche e miniere. Oggi sono rimasti solo veleni e tassi spaventosi di gente che si ammala. E chi può scappa, in cerca di qualsiasi futuro migliore

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Il vento soffia forte sulla stazione di Campofranco, paese collinare della Sicilia interna, una trentina di chilometri a nord di Agrigento ma in provincia di Caltanissetta. È uno di quei giorni in cui il silenzio dell’area del Vallone viene rotto dai singhiozzi di chi dice addio per un’altra partenza. Un tempo crocevia della più importante miniera della zona, la Cozzo-Disi, oggi questa è la stazione di chi da qui se ne va per sempre.

La provincia di Caltanissetta è ultima, ultimissima, nella classifica sulla qualità della vita stilata da Il Sole 24 ore. Chiuse le miniere, serrate le industrie, liquidati i lavoratori, qui il futuro è una domanda senza risposta. Il passato, invece, è ancora presente. Anche in quella stazione che sorge accanto all’ex Montecatini, un mostro di ferro e amianto ormai sgretolato che ammorba tutta l’aria del Vallone - Mussomeli, Sutera, Milena… - facendo schizzare i dati dei tumori alle stelle.

E il vento che soffia nella stazione sparge l’asbesto tutto intorno, in quel grigio dove le uniche sfumature di colore sono date dalle valigie dei ragazzi che vanno via. Per trovare lavoro, certo, ma anche per paura di ammalarsi: in quest’area - lo dicono i medici che hanno redatto il registro tumori per la provincia - il cancro è del 43 per cento superiore alle stime. Una percentuale che si innalza ancor di più se si considerano i tumori ematologici (108 per cento) e quelli al polmone (69 per cento).

Emanuele Quarta, un ragazzone di 27 anni che si diverte a fare teatro, dopo la laurea in Giurisprudenza presa lo scorso ottobre ha deciso di ribellarsi alle troppe morti nella sua Campofranco. Così, con gli altri (pochi) ragazzi del luogo, ha formato il comitato “Basta tumori”: «Troppi miei amici sono andati via per paura di ammalarsi», dice. «Ogni famiglia qui ha almeno un caso di morte per tumore. Noi però non riusciamo a rassegnarci a quello che succede e invece di aspettare che le istituzioni ci diano spiegazioni, ci siamo fatti avanti».
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Così nella piazza principale del paese, dove anche la fontana è stata spenta, tra gli anziani che camminano per strada, un manipolo di ragazzi ha iniziato a volantinare e raccogliere fondi negli unici due giorni in cui ancora a Campofranco gira ancora qualcuno: durante il mercato del sabato e la domenica, dopo la Messa. A raccogliere il volantino c’è anche un uomo, Claudio, quasi 60 anni e un fisico provato dalla malattia lo costringe alla bombola d’ossigeno: «Certo che vi do qualcosa», dice in siciliano.

In due giorni, grazie anche al contributo del sindaco, i ragazzi sono riusciti a comprare un contatore geiger, scoprendo così che quell’ecomostro non avvelena solo l’aria con l’amianto ma anche il terreno. Armati di mascherine e rilevatore geiger, si sono incamminati tra erba incolta, vetri rotti e murales: “Paradise” è la scritta paradossale su un muro. «È andata come temevamo», racconta Emanuele, «qui c’è radioattività, 0,790 microsiviert, cioè sopra la soglia di attenzione».

Da un paese all’altro, dove prima ci si riuniva nei sindacati dei lavoratori, adesso nascono altri comitati e associazioni contro i tumori. Come quello di Serradifalco, cittadina di rupi che ha 5.000 abitanti, terra tra le più inquinate d’Italia da discariche mai bonificate e i resti della miniera Bosco, smantellata nel Natale del 1985: oggi è rimasto solo l’amianto, in quella cava che non è mai stata convertita in museo nonostante le promesse della Regione. Rimane l’amianto e rimangono i tumori. Marcello Palermo , infermiere di 48 anni, sportivo con la passione per il rally e la velocità, ha perso il padre per il cancro ed è stato questo a spingerlo a fondare il comitato “No Serradifalko” (dove la “k” è il sim bolo del tumore in Medicina).

Il disco dei racconti sembra sempre lo stesso, «qui moriamo tutti di tumore», a Serradifalco così come negli altri paesi del Nisseno. «Non sappiamo nemmeno cosa sia stato nascosto nelle miniere del nostro paese dopo la fine delle estrazioni», dice Marcello. La paura è che nella vecchia cava sia stato seppellito anche altro: sicuramente dei rifiuti medici, nascosti lì da qualche ditta di smaltimento, di cui sono state ritrovate perfino delle ricevute di trasporto provenienti dall’Emilia Romagna; ma c’è anche il timore, come ha rivelato il boss mafioso pentito Leonardo Messina, che alla fine degli anni ‘80, poco prima della chiusura, ci siano stati dei camion che hanno trasportato nelle cave rifiuti radioattivi provenienti da altre nazioni. Qui si arriva anche a 12 chilometri di profondità, non è facile ora ritrovarli.

L’amianto è insomma solo un pezzo di un puzzle dell’orrore che in quello che una volta era un polmone verde. C’è anche una montagna di scarti di sali potassici che inquinano le acque dei fiumi nisseni, ormai salati (4 milioni di metri cubi). «Il sale si potrebbe bonificare e utilizzare per altri scopi», il geologo esperto di miniere, Angelo La Rosa, 70 anni, ex assessore di San Cataldo (oggi sciolto per mafia) che sul “Bosco ferito” ha scritto anche un libro. «Rimuovere l’amianto però significherebbe alzare un polverone di asbesto, quindi la soluzione migliore sarebbe “tombare” tutto, se mai lo faranno», aggiunge.

Anche a Serradifalco quindi tutti o quasi fanno le valigie, le famiglie si trasferiscono e le scuole rischiano di chiudere o già chiudono come accaduto nella vicina Montedoro, poco più di mille abitanti: qui l’istituto elementare 6 anni i Geova che arrivano da tutta la Sicilia per le assemblee che si svolgono nelle vicinanze. Dove c’erano i banchi ci sono adesso i letti, mentre della scuola rimane soltanto la lavagna all’ingresso: «Non c’erano più iscrizioni», dice Federico Messana, quasi 80 anni, ex sindaco del paese e ideatore della trasformazione dell’istituto rimasto senza bambini. Una buona iniziativa, come altre («Abbiamo fatto anche un museo dei minatori e un planetario») che però non hanno fermato l’emigrazione. E nell’immensa piazza principale di Montedoro oggi c’è solo un ufficio informazioni vuoto e un bar dove si ritrovano gli anziani.

Così la provincia “peggiore d’Italia” continua a svuotarsi: 73 mila sono i nisseni che vivono all’estero; ogni mese altri scelgono la via del nord Italia, percorrendo un’ultima volta quella strada statale numero 640 iniziata otto anni fa e mai terminata, nonostante quattro inaugurazioni di quattro diversi governi. Dal 2016 a oggi anni sono andate via più di tremila persone, la maggior parte delle quali giovani.

Intanto i fallimenti e lentezze dalle colline arrivano fino al mare, a Gela, una delle città che risente di più dell’emigrazione, soprattutto dopo la chiusura del polo petrolchimico che per tanti anni ha portato alla gente lavoro e insieme veleni. «Qui le famiglie si sgretolano, come è successo a me che ho perso il papà e lo zio, uccisi tutt’e due da un tumore, uno dopo l’altro, in meno di sei mesi», racconta Andrea Cassisi, 31 anni,  giornalista che lavora per la Curia siciliana. «L’Eni è stata madre e matrigna, ora la gente vive con il terrore di ammalarsi».

Già: a spaventare sono i dati che in città, ad esempio, vedono un aumento del 50 per cento delle malformazione nei neonati tra il 2010 e il 2015. Il tutto mentre i sogni di un futuro fatto di turismo vengono uno a uno seppelliti, così come seppellito è stato il preziosissimo sarcofago in terracotta con all’interno un “obolo di Caronte” (antico rituale funerario) risalente al IV secolo avanti Cristo, ritrovato lo scorso novembre durante degli scavi della rete idrica.

Rimane il nulla, qui come ad Acquaviva Platani, dall’altra sponda della provincia, meno di mille abitanti e un’età media superiore ai 50 anni: tra le montagne di una Sicilia ancora arcaica, si incontrano soltanto pensionati seduti a giocare a carte, davanti a un bar dalle insegne scolorite. Fa impressione, un paese intero senza lo schiamazzo  di un bimbo, così come impressionanti sono i terreni agricoli abbandonati e divenuti pascoli, tra la roccia bianca che irrompe nella valle del fiume Platani, l’Halykòs degli antichi greci.

Alla sua foce qualche mese fa sono state raccolte tre tonnellate di rifiuti, montagne di plastica, vecchi elettrodomestici, bidoni, copertoni e laterizi, tutto impigliato tra le canne trascinate dal corso d’acqua verso la  spiaggia dove al tempo degli antichi Greci sorgeva la splendida città di Eraclea Minoa. Si chiamava così in omaggio a Ercole e a Minosse: arrivato fin qui - narra la leggenda - per inseguire e punire Dedalo .