Nemmeno a Taranto, una delle aree più inquinate del Continente, si arriva a queste cifre. La città siciliana, sede di una grande raffineria dell’Eni, ha numeri che non hanno pari in Italia e in Europa (foto di Stefano Schirato per L’Espresso)

Gela. Orazio osserva ma non vede. Non parla ma agita le mani per esprimere la sua felicità o la sua tristezza improvvisa, seduto in braccio alla mamma su una panchina di un distributore di benzina che qui, nella Gela urbanizzata senza regole, è diventato un po’ tutto: luogo di ritrovo per i ragazzini all’ora dell’aperitivo, svago per le famiglie grazie alle giostrine sul prato finto, fermata per i tir che percorrono il Sud più a Sud d’Italia, da Ragusa verso Agrigento. La mamma, Giovanna Gastrucci, lo tiene stretto appoggiato sul suo fianco nonostante il peso, da lontano svettano ancora le due torri ormai senza fumo della grande raffineria dell’Eni, da tempo chiusa e in fase di riconversione. Orazio ha sei anni, è nato con una cecità quasi totale e la spina bifida. Le sue emozioni profonde le capisci dagli occhi nerissimi che dicono più di mille parole. «Mio figlio, tra i bambini di Gela con malformazioni, è uno dei più gravi. Quando è nato, un ginecologo mi aveva proposto addirittura di abbandonarlo in un centro dopo aver saputo della malformazione, ma io non ci ho pensato un attimo. È mio figlio, non lo abbandonerò mai, anche se a Gela sono stata io ad essere abbandonata da tutti. Non ci sono centri di recupero, istituti dove fare terapie, nulla di nulla. Anche una sua cuginetta ha la stessa malformazione, anzi forse più grave». «E una parente di mio marito ha un problema molto serio», aggiunge la cognata di Giovanna, seduta accanto a lei su questa panchina che dà su cinque colorate pompe di benzina. Di famiglia in famiglia, di parente in parente, di voce in voce, a Gela tanti hanno un legame più o meno diretto con qualche caso di bambino nato malformato dagli anni Novanta ad oggi.

 

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Questo angolo di Sicilia adagiato verso il mare che guarda dritto all’Africa ha tra le percentuali più alte d’Italia e d’Europa per malformazioni congenite. Qui nell’arco di meno di quindici anni sono nati almeno 450 bambini malformati, uno ogni 166 abitanti. Un numero enorme, se si pensa che a Taranto, una delle aree più inquinate, in rapporto alla popolazione ne sono nati due volte di meno, uno ogni 331 abitanti. Cifre comunque approssimative perché da queste parti non c’è stato mai un monitoraggio costante delle malformazioni e un controllo capillare delle nascite nelle famiglie che vivono a Gela ma si appoggiano ad altri ospedali, come quelli di Catania, Caltanissetta, Taormina e anche Roma, per le gravidanze difficili. Il registro regionale raccoglie i dati per punti nascita e per provincia, ma non ricostruisce il percorso di arrivo e tutto si perde in statistiche con poco senso. «Il risultato è che da anni non si contano con esattezza i nati malformati in questa città. Ma quando li abbiamo contati, ed è accaduto soltanto una volta, i casi erano abnormi, troppo alti rispetto ad altre parti del Paese e dell’Europa», dice Sebastiano Bianca, genetista dell’ospedale Garibaldi di Catania incaricato nel 2012 dalla procura gelese di fare uno studio sulle malformazioni neonatali.

 

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Una ricerca che come le altre sull’inquinamento di questa città si è fermata all’ingresso dei cancelli dell’Eni: uno sbarramento che la procura di Gela non ha potuto mai oltrepassare, perché nei tanti processi, conclusi o in itinere, ancora non si è arrivati a dimostrare un nesso causale tra la grande raffineria che dagli anni Sessanta ha portato lavoro, fumi e mercurio, e i casi di tumori e malformazioni. Il professore Bianca nel 2015 consegnò una perizia, pubblicata allora in esclusiva dall’Espresso, che analizzava dodici casi di malformazioni e li legava l’inquinamento della raffineria. Si legge in quella perizia: «Il collegio della commissione tecnica… ritiene che la possibilità che la spina bifida di Kimberly Scudera (atleta paralimpica, ndr) sia stata favorita dalla presenza nell’ambiente di sostanze chimiche prodotte dal polo industriale sia del tutto concreta». Dopo questo scoop dell’Espresso su Gela è calato il silenzio. L’Eni si difende ribadendo che «nel giugno 2018 il Tribunale ha emesso una sentenza di merito con la quale ha escluso, anche solo ai fini civili, l’esistenza di un nesso di causa tra il presunto inquinamento di origine industriale e un caso di malformazione neonatale». A breve si concluderà invece un secondo processo civile che vede cento famiglie chiedere un risarcimento da 80 milioni all’Eni, tutte difese dall’avvocato Luigi Fontanella. Dal Palazzo di Giustizia fanno osservare che a differenza di Priolo, dove l’Eni con una sua controllata ha riconosciuto un ristoro da 11 milioni ad alcune famiglie con bambini malformati ma senza arrivare ad un processo, a Gela il cane a sei zampe ha risarcito soltanto un’azienda per inquinamento, la Lucauto, che ha incassato oltre un milione di euro: si tratta di una concessionaria di auto con sede accanto allo stabilimento, appena sequestrata perché appartenente ad imprenditori che per la Dda di Caltanissetta avrebbero riciclato i soldi del clan mafioso dei Rinzivillo. Alla mafia, insomma, qualcosa sarebbe arrivato per l’inquinamento della raffineria.

 

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Al di là delle cause, una cosa è certa: a Gela sono centinaia i casi di bambini nati con malformazioni. Secondo un primo studio condotto dal professore Bianca insieme a Fabrizio Bianchi, responsabile dell’unità di ricerca epidemiologica del Cnr di Pisa, tra il 2003 e il 2008 a Gela sono nati 222 bambini con malformazioni. Questo studio è stato aggiornato lo scorso anno esaminando i dati raccolti dal 2010 e il 2015, con altri 203 bambini nati con malformazioni congenite. A Gela «emergono eccessi statisticamente significativi per le anomalie dei genitali e per le anomalie urinarie e totali. Per le anomalie cardiovascolari e degli arti l’eccesso è significativo nel confronto con il dato italiano. La prevalenza di ipospadie (problemi agli organi genitali) è di 46,7 casi ogni 10.000 abitanti, in eccesso statisticamente significativo di 1,7 e 2,3 volte in confronto al dato medio europeo e italiano, rispettivamente». Questi gli unici numeri che hanno un timbro di scientificità, nonostante gli stessi studi sottolineino che «l’impossibilità di un recupero sistematico dei casi portatori di anomalia diagnosticata tra le interruzioni di gravidanza a seguito di diagnosi prenatale infausta ha obbligato a considerare solo le anomalie tra i nati. La conseguenza principale di questo limite è la sottorappresentazione delle malformazioni».

 

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Di Gela non parla più nessuno. Tranne qualche testimone, come il ginecologo Michele Curto, in servizio all’ospedale fino al 2015, che con le sue mani ha fatto nascere centinaia di bambini e tanti malformati: «Ricordo bene cosa accadde in particolare in alcuni anni, tra il 1993 e il 1998. Ci arrivavano decine di donne con gravidanze difficili, allora non c’erano molte strumentazioni per diagnosi complesse prenatali, e così tanti bambini nascevano con malformazioni molto gravi. Quello che mi ha sempre colpito è stata la vastità della tipologia di malformazioni, che non aveva riscontro in altre aree d’Italia. Quando sono andato in pensione ho cercato di ricostruire dei dati, ma non ho trovato più le cartelle cliniche e le nostre segnalazioni: alcune erano in un deposito e mi hanno detto che sono state rosicchiate dai topi».

 

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Le famiglie alle prese con bambini e ragazzi malformati non si contano. Alcune, vista l’assenza di qualsiasi forma di assistenza, sono scappate via. Come quella di Florinda Cammalleri, mamma di Sofia, nata nel 2003 con una malformazione agli occhi e diverse complicazioni: «Che futuro potevamo avere a Gela? Glielo dico io, nessuno», racconta mentre fa le valigie per tornare in Svizzera dopo essere stata nella sua città solo per rivedere qualche familiare. «Sofia è un’adolescente con problemi di integrazione sociale non per un suo rifiuto ma per un rifiuto della società. Io ho deciso di emigrare per darle un futuro. La patologia di mia figlia non ha un nome, oltre alla sua malformazione sono subentrati altri problemi come le crisi epilettiche. A me non interessa dei processi e dei soldi che potrebbero arrivare, io sono andata in Svizzera per continuare a lottare per lei». Per chi invece resta la vita è dura, durissima, come ripete ancora Giovanna Gastrucci: «Ogni mese dobbiamo andare a Roma per la terapia di mio figlio e tutto questo devo farlo con appena 520 euro di accompagnamento concessi dallo Stato. Mio marito durante i giorni dei controlli dorme in strada».

 

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Nel suo studio in via Benedetto Croce, nel groviglio di case a due passi dall’ospedale (a Gela un piano regolatore c’è, ma solo sulla carta) Antonio Rinciani, pediatra che sulle sue t-shirt si fa stampare i personaggi dei cartoni per far sorridere i bambini, ha uno sguardo malinconico: «In questa città non cambierà nulla, anche a causa di una classe politica che non ha voluto cambiare le cose. È la cosiddetta schiavitù del bisogno: il lavoro viene prima della salute». Il pediatra nei suoi quasi trent’anni di professione ha visitato centinaia di bambini con problemi e ha cercato di capirne di più, trovandosi però davanti fin da subito un muro di gomma: «Un feto a Gela può essere esposto a circa 200 sostanze chimiche e questo ha numerosi effetti sulle donne in gravidanza. A preoccupare non sono soltanto le malformazioni, ma anche la nascita di bambini con malattie neurodegenerative e i tassi riguardanti l’abortività, oltre ai dati elevati dell’infertilità maschile».

 

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Qui è calato il silenzio. La raffineria è chiusa e in riconversione, la speranza è che torni a dare lavoro, la certezza è che nessuno crede a un futuro migliore. L’ex sindaco Rosario Crocetta sul lungomare fece appendere una targa con una frase di Quasimodo: «Sulla sabbia di Gela colore della paglia mi stendevo fanciullo in riva al mare, antico di Grecia con molti sogni, nei pugni, stretti nel petto». La sabbia è tornata gialla, da quando il petrolchimico ha chiuso i battenti. I sogni, quelli, sono svaniti per sempre.