Coronavirus a Venezia, la città lasciata sola con le sue maschere
La festa poteva essere l'occasione giusta per riprendersi dallo shock dell'acqua alta. Ma alla fine il silenzio ha preso il sopravvento
Giochi, amore e follia. Il cartello è ancora appeso sul ponte quasi deserto dell’Accademia. Il carnevale 2020 di Venezia si era dato questo tema: “Giochi, amore, follia”. Si era dato? Chissà quali sono le vere leve che portano a decidere i temi di un evento di tale peso commerciale, dove l’identità è un’occasione di consumo e il contenuto un dispositivo di attrazione. In ogni caso il tema era questo. È questo. Scrivo queste righe la sera di martedì grasso, la città dovrebbe ribollire di feste, musica e migliaia di maschere. Tutto invece tace. Il virus ha preso possesso della festa e le autorità l’hanno fermata. Ma era come se fosse nell’aria.
Giochi, amore e follia. Prima di arrivare a Venezia avevo sentito amici e parenti, non sapevo ancora dove dormire e in molti mi dicevano di non preoccuparmi, che quest’anno le case si trovavano facilmente. Che dopo l’acqua alta di novembre i turisti erano molto diminuiti e in molti avevano disdetto. Ed in fondo era come se ci fosse meno voglia di festeggiare. Quasi stanchi, appesantiti da una città troppo disponibile nella sua superficie vaga e fluida. Nessuno immaginava quanto sarebbe successo con il virus di lì a pochi giorni, ma una sorta di stanca desolazione già strisciava: «I furbi che i prova ad affitarte casa a dosento t’i trovi ancora, ma ghe xe anca case a 40. Non xe capisse ben».
Giochi, amore e follia. L’industria dello spettacolo era pronta a sparare i suoi colpi, l’olimpionico Ghedina pronto a fare l’angelo, la Redbull a riempire San Marco di musica e videowall, ma tutto in un’atmosfera di inerzia, come quando bevi un altro spritz anche se non ne hai voglia, solo perché è la festa che te lo chiede. Divertirsi, bisogna divertirsi. Venire trascinati da tutto ciò che non fa pensare: giochi, amore, follia. Il carnevale come grande occasione per riprendersi dallo shock dell’acqua grande, del ciclone tropicale che ha sommerso la città e allontanato un pezzo del suo soffocante buisness globale. Questo soffiavano gli Eolo del consumo e dell’economia che gira, ma era come quando soffi sulle girandole colorate nella direzione sbagliata e quelle girano poco o rimangono ferme.
Davvero possiamo ancora divertirci? Ancora nello stesso ripetuto modo di tutti gli ultimi 25 anni? Perché? Ancora un altro spritz? Non so, forse non ne ho voglia. Vorrei forse fermarmi un po’.
Alle cinque del pomeriggio sono salito sul terrazzo di Punta delle Dogana, dove il Canal Grande e il Canale della Giudecca confluiscono nel bacino di San Marco. Martedì grasso alle cinque del pomeriggio. Le acque vuote, ferme, sfiorate dalla nebbia sottile e da un alito di silenzio. Un salto nel tempo: in un passato o forse in un futuro irriconoscibile. Sospesa la città del mare cerca sé stessa in uno specchio vuoto, d’improvviso liberato dalle onde dei motori che da decenni ne dominano le acque. Il virus fa paura e allontana quasi tutti i superstiti del grande divertimento, lasciando soli i veneziani, che ora sanno di essere davvero soli e pochi.
Nessun gioco, poco amore e troppa follia. Fa paura e scuote la città quasi immobile che cerca di riconoscersi nel secondo evento globale che in pochi mesi ne interroga l’identità e il suo destino.