La vita agra di Milano e della Lombardia ai tempi del Coronavirus
Il motore dell'economia e della società italiana resiste e reagisce, a venti chilometri dall'epicentro della pandemia. Tra quotidianità sospesa, fabbriche di eccellenza chiuse a forza e voglia di fare da soli
Mercoledì 26 febbraio, ore sette di mattina. La 62, perché Milano è l’unico posto al mondo dove l’autobus è femminile, ha a bordo una dozzina di persone. A scuole chiuse, è il numero abituale. Ci sono almeno tre focolai di dibattito sullo stesso tema. Signora oltre i sessanta con cagnolino bianco e beige di razza imprecisata: «In tv da Mario Giordano ieri sera c’erano gli esperti. Dicono che dovrebbe durare fino ad aprile-maggio». Altra signora anziana, con mascherina: «Me l’ha data il podologo dove lavora mia figlia». Terza signora, amica dell’autista: «Le abbiamo trovate alla bulloneria di San Giuliano, nei pacchi da venti, quelle tecniche con il filtro. Se no, uno si tira su la sciarpa».
La prima signora scende. «Buona giornata a tutti e, mi raccomando, fate i bravi». È la fermata di via Cadore, fra due ristoranti piuttosto noti. Quello meno lussuoso ha appeso un cartello: «Si effettuano controlli della temperatura dei clienti all’entrata». Non è chiaro chi li effettui, se il cameriere, l’aiuto cuoco o il pizzaiolo.
Il “ghe pensi mi” si arma contro il Coronavirus nella regione che ha il maggior numero di positività, la locomotiva economica e finanziaria d’Italia. Proprio quando la parola viralità sembrava destinata al suo nuovo significato di video con gattini molto diffuso sui social, l’Occidente più avanzato e ricco scopre che i malati non sono sempre gli altri.
Il Covid-19 è una forma di globalizzazione. Ma i sovranisti non hanno di che esultare. È così dalla prima epidemia storica, quella raccontata da Tucidide venticinque secoli fa. Inizia in Etiopia, si propaga in Egitto, passa ai domini del Gran Re di Persia e sbarca al porto del Pireo. Atene, grande impero commerciale in piena guerra contro Sparta, si chiude ancora di più in se stessa con effetti disastrosi.
Di globalizzazione si vive e, ogni tanto, si muore. Anche gli agenti virali diversificano per essere più efficaci sul mercato. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms o, secondo l’acronimo inglese, Who), negli ultimi cinquant’anni sono stati scoperti più di 1500 nuovi agenti patogeni. Negli ultimi diciotto anni, i più famosi sono stati la Sars, di origine cinese come il Coronavirus, la Mers dal Medio Oriente, la febbre emorragica Ebola dall’Africa occidentale, Zika dall’Africa centrale, i vari ceppi di H1N1 (suina, aviaria), la più letale finora con centinaia di migliaia di vittime.
«Le epidemie nel ventunesimo secolo», scrive l’Oms, «si diffondono più in fretta e più lontano. Manifestazioni un tempo localizzate possono diventare globali molto rapidamente».
Per adesso ogni paese è andato in ordine sparso perché, appunto, ogni paese è sovrano in materia di salute pubblica. Gli effetti di questo dirigismo “ghe pensi mi” sono sotto gli occhi di tutti. Escluse le teorie cospiratorie del genere “in Cina non ci sono duemila morti, ce ne sono due milioni”, i dati ufficiali sul Covid-19 sono in continua crescita ma non con lo stesso ritmo in tutto il mondo. L’epicentro, dato troppe volte in rallentamento, è la provincia cinese dell’Hubei e, in particolare, la sua città-prefettura di Wuhan, dove tutto è incominciato nei primi giorni dello scorso dicembre fino all’isolamento completo della cerchia urbana il 23 gennaio, mentre milioni di turisti della Repubblica popolare erano in giro per il mondo a festeggiare l’inizio dell’Anno del Ratto, non proprio l’animale di migliore augurio per un’epidemia. [[ge:rep-locali:espresso:285341618]] Al di fuori della Cina alcune nazioni stanno prevenendo meglio o è solo fortuna? All’Italia è bastato un solo fine settimana per passare da un grappolo di pochi infettati nella bassa lodigiana al terzo posto della classifica globale subito dopo la Corea del Sud, quasi confinante con il gigante guidato da Xi Jinping, e prima del Giappone, sede di un’Olimpiade che dovrebbe partire il prossimo 24 luglio, non si sa in quali condizioni.
Ognuno può farsi la sua opinione se sia casuale un focolaio così drammatico proprio in un paese dell’Ue in difficoltà economica e con un sistema sanitario massacrato dai tagli alla spesa pubblica.
Le spiegazioni in circolo sono tre. Siamo molto, molto sfortunati (ipotesi fatalista). Abbiamo più positività perché facciamo più i controlli di altri paesi, anche europei (ipotesi lanciata da Giuseppe Conte). Qualcosa nei controlli delle autorità regionali e del governo centrale non ha funzionato così bene come si vorrebbe far credere (ipotesi scettica di scuola italica).
Nel reportage di due settimane fa L’Espresso notava per testimonianza diretta che all’aeroporto di Malpensa il 10 febbraio, cioè undici giorni dopo che il premier aveva bloccato i voli dalla Repubblica popolare, una sola passeggera del volo da Bangkok ha dichiarato sua sponte all’operatore sanitario di avere trascorso dieci giorni in Cina dopo avere passato il controllo con il termometro laser. «Mettiti qui da parte. Poi ti guardo», è stata la risposta.
Molte altre triangolazioni di questo genere sono passate dalle maglie dei controlli con buona pace delle ricerche, ormai quasi impossibili, del paziente zero in un paese come l’Italia caratterizzato da un’enorme mobilità fin dai tempi del boom economico del secolo scorso.
L’ennesima emergenza servirà quanto meno a verificare il radicato luogo comune che abbiamo bisogno delle catastrofi per dare il meglio di noi.
VIROLOGI CONTRO Nel fine settimana maledetto del 22-23 febbraio la polemica fra i politici è stata, nell’insieme, contenuta nei limiti di qualche fiammata. Il premier Giuseppe Conte ha dichiarato che il leader dell’opposizione Matteo Salvini, chiamato al telefono, si rivelava spento o irraggiungibile. Nei giorni successivi il nervosismo è aumentato assieme alle positività.
In un contesto di emergenza mondiale il sindaco leghista di Codogno, Francesco Passerini, «in possesso di licenza media superiore», ha chiesto più potere per i sindaci e si è lamentato della latitanza dello Stato.
Ma c’è poco da litigare. L’esecutivo giallo-rosa è sulla stessa barca di una Lega che partecipa al governo dei sistemi sanitari della Lombardia dal 2000 e del Veneto dal 1995. Tanto vale stringersi a coorte, anche se ai danni del nazionalismo mondiale in Italia si sono aggiunti i guasti di un federalismo dove ogni ente locale si ritiene autorizzato a fare di testa sua.
Un buon contributo di rissosità è venuto dagli scienziati in versione social. L’ipermediatico virologo Roberto Burioni si è scontrato con la collega (ribattezzata “signora” con successive scuse) Maria Rita Gismondo del Sacco di Milano che aveva chiamato alla calma e ricordato la superiore mortalità dell’influenza ordinaria, circostanza negata dal medico pesarese.
A prima vista, ha ragione Burioni. Il Covid-19 al momento ha ucciso circa il 3,4 per cento dei contagiati. Secondo l’Oms i morti di influenza a livello globale sono stimati fra 290 mila e 650 mila all’anno su un miliardo di malati (fra 0,03 e 0,065 per cento). Ma la dottoressa Gismondo non ha torto perché in Italia sono vaccinati contro l’influenza tutti i maggiori di sessantacinque anni e i soggetti a rischio. No-vax a parte, di influenza ordinaria non dovrebbe morire quasi nessuno. Tolti i vaccini, è probabile che la mortalità sarebbe simile o superiore a quella del Covid-19.
Prosperano anche i paragoni con epidemie terrificanti come la Spagnola. L’influenza di un secolo fa fece 50 milioni di vittime, più del doppio dei morti durante la Grande guerra, ma aveva un tasso di mortalità di poco superiore a quello del Corona virus. La base del contagio era però enorme ed è questo che si cerca di limitare anche a costo di sacrificare qualche spazio delle libertà civili e industriali.
RISCHIO MULTINAZIONALE Spariscono i disinfettanti. Qualcuno tenta la speculazione con le mascherine. È già accaduto un mese fa agli abitanti dei paesi del sudest asiatico che hanno fatto conoscenza con il Covid-19 insieme ai turisti italiani riversati sulle spiagge della Thailandia e della Malaysia, con la differenza che gli orientali usano le mascherine per proteggere in primo luogo il prossimo e poi se stessi.
Fermare la macchina del lavoro, come richiederebbero i protocolli scientifici, è problematico anche in aree ristrette come le zone rosse della bassa lodigiana e dei colli Euganei.
Saltano forniture, commesse estere e la stessa struttura multinazionale delle imprese, come la filiale dell’anglo-olandese Unilever a Casalpusterlengo, diventa un fattore di rischio.
La Mta di Codogno, leader mondiale nella produzione di componenti elettrici ed elettromeccanici con otto sedi nel mondo, ricavi intorno ai 140 milioni di euro e clienti come Fca, Ferrari, Bmw, Mercedes, ha chiesto di potere continuare il lavoro a ranghi ridotti per salvare il fatturato ed evitare un effetto a catena sulle linee dei colossi automotive mondiali. È stato necessario fermare l’attività con l’intervento della Guardia di finanza e martedì 25 il sito dell’azienda si apriva con la scritta, non tradotta in italiano: «Due to recent coronavirus infection cases occurred in our town, we have been obliged to close our production plant in Codogno». Nel fine settimana la prefettura ha sbloccato, in via eccezionale, le forniture che avrebbero fermato Fca, Peugeot e Bmw. Sui social dell’azienda c’è ancora la foto dell’incontro fra i dirigenti dell’impresa e i ragazzi dello Scientifico Respighi di Piacenza nell’altra sede di Rolo (Reggio Emilia), martedì 18 febbraio. Quello che era perfettamente normale fino al 21 febbraio ora è motivo di ansia e di controlli.
L’incubo del pil in picchiata su un quadro già stagnante è altrettanto complicato da tradurre in cifre. Per adesso il metro di paragone arriva dall’epicentro del virus. Secondo gli esperti di Bloomberg economics, la Cina scenderà da una previsione pre-Corona del +5,9 per cento sul pil 2019 al +5,6 per cento in uno scenario di diffusione prolungata.
DICERIE SULL’UNTORE Uno dei più straordinari romanzi di cronaca di sempre, la Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, deve molto della sua fama all’efficacia con la quale il nipote di Cesare Beccaria descrive la caccia all’untore nella Milano del Seicento.
Quattrocento anni dopo a Milano, la comunità cinese ha chiuso i battenti di gran parte dei suoi esercizi commerciali, dai ristoranti ai parrucchieri agli onnipresenti negozi di manicure come il “Nail salon” di viale Lombardia, oltre piazzale Loreto, che espone un foglio «chiuso per ferie, ci vediamo fra due settimane».
Ma nella città-stato più ammirata d’Italia la vita continua con qualche aggiustamento in corsa, fra una settimana della moda in tono minimalista e il rinvio a giugno del Salone del mobile del 21-26 aprile (circa 400 mila visitatori nel 2019).
Sabato 22 febbraio è stato il primo giorno di allarme moderato. In un supermercato di viale Umbria a Milano una ragazza orientale chiede in ottimo italiano che fine abbia fatto l’amuchina. La risposta è uno scaffale vuoto. Domenica, in un altro supermercato della stessa catena in via Losanna, la zona che fa riferimento alla Chinatown di via Sarpi e a corso Sempione, è finita anche la pasta e la fotografia ricorda scatti simili fatti a Taiwan o a Hong Kong. Lunedì un pensionato protesta perché alle 15 già mancano le uova. Il personale di cassa usa i guanti di lattice e all’ingresso ci sono pile alte due metri e lunghe venti di cassette usate per le consegne a domicilio.
I pub, i cinema e i teatri sono chiusi. Si propongono le messe in streaming e il Politecnico adotta la laurea a distanza. Gli sportivi dilettanti, con gli oratori e i centri sportivi fuori servizio, devono rinunciare al calcetto e non è chiaro se per le partite convocate con il metodo dei rave-party nei parchi possa scattare la retata.
Anche a Lodi si tenta di ritrovare la normalità. Il prefetto Marcello Cardona, ex questore di Milano e arbitro in serie A ai tempi di Diego Armando Maradona e Marco Van Basten, mostra tempra da atleta nonostante i carichi di lavoro. «Non è facile fare il punto di equilibrio fra i virologi e i sindaci», dice all’Espresso. «Ma io devo comportarmi da soldato ed eseguo le disposizioni dei tecnici. Se l’Istituto superiore di sanità dice di chiudere, io chiudo. Basta spiegarlo ai rappresentanti dei cittadini. L’ho fatto sabato 22 in un riunione plenaria. Ho parlato due ore e alla fine loro hanno fatto cinque domande. La squadra delle istituzioni sta funzionando a tutti i livelli, a partire da quel maresciallo dei carabinieri che ha preso la sua macchina alle due di notte per accompagnare uno dei medici dell’Ats (l’ex Asl, ndr) a farsi il tampone. Con il premier ci sono tre o quattro videoconferenze al giorno e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che è stato prefetto a Milano, ha una presenza costante con le varie sale operative, quelle delle prefetture e quelle della Regione, coordinate dalla cabina di regia della Protezione civile a Roma. È naturale che la popolazione sia smarrita e impaurita ma le reazioni finora sono nulla rispetto a quello che poteva succedere».
Normale che sia così. La progressione delle positività è stata impressionante. Venerdì erano venti. Tra sabato e domenica i contagiati sono passati da 70 a oltre il doppio. Mercoledì viaggiavano verso quota 400.
Così adesso per il resto dei mondo i cinesi siamo noi. Gli untori venuti dal lombardo-veneto sono il pensionato in vacanza permanente effettiva e il manager commerciale.
Il rimpatrio selettivo da Mauritius dei settentrionali, è stato un contrappasso feroce per qualche passeggero dell’aereo che avrà votato per Salvini e inneggiato alla chiusura delle frontiere. E poi ci sono oltre cinque milioni di italiani residenti all’estero. Fra questi, una mamma italiana che vive a Parigi da anni è stata in Lombardia dai genitori con il bambino dal 7 al 14 febbraio, quando le scuole francesi sono in pausa invernale. Al ritorno, suo figlio è stato messo in quarantena. Lei ha ripreso il lavoro in azienda.
Adesso non c’è che da aspettare e sperare nei protocolli dell’Istituto superiore di sanità. Si dovrà vedere se il crescendo si fermerà in modo che gli italiani possano smettere di essere tutti viro-epidemio-infettologi per tornare commissari tecnici della nazionale che giocherà, o dovrebbe giocare, i primi tre match degli Europei all’Olimpico di Roma a partire dal 12 giugno.
Quando tutto sarà finito, si spera al più presto, sarà forse il caso di chiedersi se la pianura padana debba continuare a essere la zona più inquinata del mondo insieme alla Cina, se non esista un rischio specifico, le polveri sottili, capace di fare ancora più morti del Coronavirus e se il problema vada sempre affrontato all’italiana, alzando i parametri di tolleranza e chiudendo le strade al traffico qualche domenica. A parte gli scellerati che inneggiano al virus, «perché Milano vuota è bellissima», magari si scoprirà che il telelavoro è una buona idea per l’ambiente e per le stesse aziende anche senza che torni la peste bubbonica.