Nella città toscana sono 140 le famiglie cinesi chiuse in casa. Sotto il controllo della comunità e dell’Asl. Mentre i giorni passano, gli incassi calano e si logora una convivenza che si nutriva di affari (foto di Gabriele Cecconi per L'Espresso)

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Una città sull’orlo di una crisi di nervi. In bilico tra angoscia e diffidenza. Il suono delle campane rimbomba in una piazza vuota, tra i capannoni dove si lavora notte e giorno per cucire abiti a basso costo è piombato il silenzio. Ovunque però ti pare di sentire un rumore ossessivo, quello di un conto alla rovescia incombente. Gli occhi sono puntati più a nord, dove è divampato il primo focolaio. Ma a Prato tutto è rarefatto, sospeso in un limbo intriso d’attesa. Qui vive la comunità cinese più nota d’Italia, la più numerosa in rapporto agli abitanti: 25 mila persone registrate, almeno 10mila gli irregolari. Per questo la paura s’è diffusa più veloce del coronavirus. Si respira un’inquietudine spessa, come se da un momento all’altro Prato si potesse trasformare nella città proibita.

Dietro al bancone del caffè vincitore della “tazzina d’oro”Marco scuote la testa. «I clienti cinesi non si vedono già da giorni, si auto proteggono e restano in casa. Ora non vengono nemmeno più tanti italiani. C’è un’atmosfera surreale». Saracinesche abbassate con appesi i cartelli «sono tornato dalla Cina» o «chiuso per ferie», che tanto non si lavora. Si è fermata persino la macchina dei matrimoni: gli abiti rosa e bianchi con lo strascico restano a impolverarsi in vetrina. E non si tenta nemmeno più la fortuna: vuote le ricevitorie delle scommesse e le slot delle sale da gioco, le più frequentate d’Italia. Anche Emma che fa massaggi “con servizio completo” e assicura discrezione, sconto e «la certezza che lavorino solo le ragazze senza virus» lamenta la crisi.
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Le persiane verdi delle case nella Chinatown a ridosso del centro storico sono abbassate. Fuori dalla porta sacchetti della spesa e vassoi con il cibo. È il sistema con cui le centinaia di famiglie in isolamento volontario riforniscono la dispensa. Amici e parenti prendono le ordinazioni al telefono e consegnano a domicilio. Solo quando si allontanano, chi si è rinchiuso in cella per non infettare gli altri apre in fretta la porta. «Si passa il tempo guardando internet: prima vedevo solo cosa succedeva in Cina, ora le news in Italia». Jin, imprenditore trentenne, ha da poco riconquistato la libertà. «È giusto così. Nel rispetto della salute di tutti. Sono stato informato dalla comunità come tutti gli altri quando sono rientrato facendo scalo in Germania: non ci muoviamo di casa per due settimane». Si gioca sul telefonino, si chatta con gli amici. C’è anche la serie “Pandemia Globale” su Netflix, e va per la maggiore. Come Jin un migliaio di persone reduci dalla Cina del capodanno più triste si sono messe in quarantena volontaria. Provengono quasi tutte da Wenzhou, città portuale della provincia sud-orientale dello Zhejiang, la patria del 90 per cento dei cinesi d’Italia. Messaggi in mandarino con i numeri da chiamare, il canale WeChat usato per tenersi in contatto e - soprattutto - il controllo che scatta da parte di tutta la comunità.

A casa ricevono le chiamate delle operatrici della Asl Toscana: «Oggi sta bene?», «Ha tosse, raffreddore, febbre?». Per chi mostra sintomi blandi era stato aperto un ambulatorio all’Osmannoro, tra laboratori di borse e pellami. Alcuni hanno protestato per paura di contagi, ma a fare il tampone si sono presentate solo tre persone, e alla fine è stato chiuso dopo quattro giorni. «Quel posto era inutile: chi sta male non va a farsi un tampone. Serviva e continua a servire un luogo per l’isolamento. Presto arriveranno dalla Cina altre 500 persone», spiega Xu Xiulin, imprenditore conosciuto da tutti come Giulin. Non tutti hanno stanze dove rimanere separati dal resto della famiglia.

«L’auto isolamento è un tipo di pratica che viene mutuata dalla Cina. Il console aveva proposto di organizzare una struttura per chi non ha spazi autonomi e abita con molti coinquilini, ma l’Asl ha ritenuto che questa soluzione comportasse più controindicazioni che vantaggi», chiarisce Marco Wong, consigliere comunale di Prato eletto nell’ultima tornata in una lista civica. Attualmente in quarantena ci sono 140 famiglie tutte cines. Il sindaco Matteo Biffoni ha anticipato che «è già pronta l’ordinanza se il contagio arriva anche qui. Disporrei entro mezz’ora la chiusura di scuole e locali pubblici». La Regione Toscana ha chiesto poi l’elenco dei nominativi delle persone in via di rientro che sono prive di un alloggio adeguato e ha fatto presente l’esigenza che, in assenza di tali garanzie, non tornino: della questione ha investito anche il Governo. Sono stati rimossi intanto i cartelli messi da due associazioni, con messaggi equivoci sul coronavirus: «È solo un brutto raffreddore, stiamo insieme».
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Finora i cinesi di Prato hanno fatto tutto da soli. Come una vera enclave, hanno applicato qui le regole di prevenzione della madre-patria. Intanto Matteo Salvini fa un cinico calcolo politico, minacciando di denunciare il presidente della Regione Enrico Rossi, colpevole di non fare tutti i controlli necessari su chi rientra dalla Cina, mettendo così a rischio la salute dei toscani.

L’epidemia al momento è circoscritta e il virus ha colpito - per citare il leghista - prima gli italiani. Ma qui a Prato serpeggia una diffidenza corrosiva che ignora geografia e statistica per accanirsi nel sospetto verso lo straniero. «C’è da aspettarselo, si fa questa fine anche noi. È matematico», sostiene una giovane mamma. La bimba l’ha lasciata a casa, meglio non rischiare. «Qui c’è la maggior concentrazione di “loro”, la paura c’è, è normale. Non è questione di razzismo». Anna invece lavora come addetta commerciale in una ditta di cinesi e continua ad andare in ufficio: «Io però igienizzo tutto», chiarisce. Mostra l’amuchina e il disinfettante, la mascherina non la indossa ma l’ha comprata. «La mascherina è una questione di rispetto. Sono io che tutelo te. Solo che se voi ci vedete con bocca e naso coperti pensate che siamo ammalati», le fa sapere Zao detto Angelo, che vende telefoni e la Cina non la vede da sedici anni.
Anna però non è immune dal sospetto: «La quarantena per loro è iniziata da più di un mese. Persone con un semplice raffreddore sono state lasciate a casa due settimane anche se erano state in Cina a novembre. Ma ora dicono che due settimane non bastano, che l’incubazione può essere più lunga. Loro non fanno sapere niente, ci potrebbero essere anche casi non dichiarati». Loro. E noi. Un fossato che continua ad allargarsi e riempirsi di luoghi comuni, come la vecchia storia dei funerali cinesi che non si celebrano mai. Pochi guardano con lucidità alla cronaca. Il signor Renzo, pensionato con un passato da imprenditore, è un’eccezione che sentenzia: «Ora il problema sono gli italiani».

«Mi scusi, ma mi capisce…»: inizia così la telefonata di controllo della proprietaria del bed and breakfast nel cuore più antico della città. «Vorrei sapere se viene dalle zone contaminate... E poi le volevo anche dire che qui a livello di coronavirus va tutto bene, non per fare allarmismo, ma sa, abbiamo la comunità cinese». La comunità che ha la sapienza di un tempo e il senso collettivo di responsabilità degli antichi imperi. Al ristorante ‘Ravioli di Liu” - i migliori di Prato a detta di tutte le guide - Xuemin Hong sabato sera ha solo due tavoli occupati. «Non vengono più né cinesi né italiani. Abbiamo perso molto lavoro, ma rimango aperta anche se ci rimetto. Se noi si chiude, qua non si apre più», scandisce con un accento toscano degno di Pieraccioni. Gli fa eco, dalla collina più su, “il Billy”, un’istituzione da 35 anni. Nella sua trattoria “La fontana” propone bistecche, tartufi e bottiglie da centinaia d’euro di Brunello e Sassicaia. È frequentata dai ricchi, che sono più cinesi che italiani. «Per la prima volta abbiamo meno della metà dei coperti. Se continua così è una strage, si chiude tutti», sostiene malinconico. E Hong, la regina dei ravioli, esplicita il cuore del problema: «Abbiamo paura. Noi cinesi abbiamo fatto l’auto-quarantena, ma qui sono venute due italiane che sono andate in Cina e non sono rimaste a casa. Gliel’ho detto che hanno sbagliato. Metti in pericolo gli altri».
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Il conto alla rovescia continua. Sta logorando i rapporti tra i due mondi, intrecciati negli affari e nella società, prima che da Wuhan si scatenasse l’incubo. Una paura che ha già infettato questa città e fa danni profondi. I cinesi sono subentrati nell’antica industria di telai e stoffe, un business malandato in tempi di competizione globale. E che adesso sta subendo i colpi dell’epidemia altrettanto globale, capace di mandare in tilt l’economia locale: migliaia di micro imprese che vivono già la crisi. Per tutti, italiani e cinesi. Al Macrolotto, una distesa di capannoni dove si lavora h24 - «e molto di più di notte perché si paga meno l’elettricità» - è tutto aperto. Distese di stand con i vestiti appesi ma il vuoto attorno. Stessa cosa di giorno. «Per percorrere questo chilometro di stand prima potevi impiegare anche quaranta minuti, ora ne bastano cinque», racconta Marilena. Ha un’azienda di moda e da decenni lavora con i cinesi. «Io continuo a venire in fabbrica. Mi fido, se sono qui vuol dire che o non sono stati in Cina o hanno fatto la quarantena. E poi se loro vanno via qui si chiude».

Ma il cemento degli interessi, la consapevolezza che è lo straniero a garantire uno stipendio per i toscani, si sgretola davanti al fantasma del virus. Il razzismo gonfia. «Goditi questi momenti di gloria: ora non c’è nessuno che ci guarda male, ma a breve al primo posto torneremo noi»: Johnatan è nato a Prato da genitori congolesi e scherza con la sua compagna di scuola Lin che si lamenta: «Ci considerano gli untori, ma facciamo di tutto per non essere contagiati e non contagiare». Frequentano l’istituto tecnico Dagomari, ribattezzato dai cinesi “Dragomari”. Un migliaio di studenti, quattordici nazionalità divise tra cinesi e «italiani e resto» come dicono qui: perché albanesi, rumeni, africani sono considerati italiani. Nella classe del professore di economia Marcello Contento, siciliano e precario, sono in 18, tutti cinesi: «Sono molto più organizzati di noi, sanno chi arriva dalla Cina e gli dicono di stare a casa». Studenti e professori girano insieme in un set per le strade deserte di Chinatown, protagonisti di “Quest for feilong”, un corto fantasy che parla di integrazione sceneggiato dal candidato al David di Donatello Davide Ceccarelli. Un fantasy positivo, non di quelli pieni di mostri e streghe: quasi un modo di esorcizzare l’arrivo dello spettro chiamato coronavirus.