Inchiesta
Bibbiano, la storia sconosciuta dei bambini abusati
Il caso zero: una bambina prostituita dalla madre. Poi altre violenze sessuali in famiglia, i servizi sociali che intervengono. Infine la campagna per delegittimarli. Con tanti lati oscuri
La piazza della Repubblica a Bibbiano, davanti al municipio, si raggiunge percorrendo in sequenza due strade alberate con case a tre piani, che si chiamano rispettivamente via Lenin e via Gramsci. La toponomastica è il sigillo sul passato rosso di questa terra. È in questa piazza anonima che Matteo Salvini ha chiuso la sua campagna elettorale per le regionali, nel pomeriggio glaciale del 23 gennaio: Bibbiano usato come una clava per distruggere le ambizioni del Pd, che qui e in tutta l’Emilia ha ereditato il potere dal Pci. Il paese medaglia d’oro per i 22 mesi di Resistenza, terra di asili e scuole celebrate come modello, diventato l’orrore fatto sistema. La patria dei demoni. Dominata dal “partito di Bibbiano” che qui comanda dall’alba della Repubblica.
L’Espresso è tornato a Bibbiano. Dopo la tempesta. Tornata la quiete, passate le elezioni, i comizi e le contromanifestazioni, restano loro: i bambini. Perché di certo in questa storia c’è solo la loro sofferenza. Sono loro le vittime, comunque vada a finire l’indagine. Vite già fragili, contese, abusate. E poi infrante dall’onda mediatica e dallo sciacallaggio politico. La propaganda che ha usato ogni mezzo, esibendo sui palchi dei comizi i loro drammi e le loro ferite. Ma Bibbiano è davvero un girone dell’inferno? È soltanto l’incarnazione di un sistema che per fame di profitto strappa i figli ai genitori biologici? O è anche un luogo in cui molti minori sono stati effettivamente abusati? Storie, per esempio, non conteggiate nell’inchiesta della procura di Reggio Emilia, che mira, invece, solo a dimostrare l’esistenza di un business sugli affidi.
Certo è che sotto la lente della magistratura ci sono otto casi. Pochi per definirlo “un sistema generalizzato”, come ha stigmatizzato il procuratore generale di Bologna Ignazio De Francisci. Eppure l’indagine ha tracimato i confini giudiziari fin da subito, trasformata in un caso politico anche per alcune scelte degli investigatori. Il primo luglio 2019, appena eseguiti gli arresti, con diversi interrogatori di garanzia da completare, i carabinieri chiedono alla pm Valentina Salvi, titolare del fascicolo, di trasmettere le misure cautelari al prefetto per «valutare il commissariamento dell’Unione dei comuni della Val d’Enza e del comune di Bibbiano». Una procedura inusuale, per un abuso d’ufficio. Che rischiava di far finire Bibbiano come Brescello: il paese di Peppone e don Camillo, distante solo 30 chilometri, primo comune dell’Emilia sciolto per infiltrazioni mafiose, la principale emergenza di questa regione (e di questa presenza criminale, coperta dalla complicità di ampi strati della società, né Matteo Salvini né Giorgia Meloni hanno mai parlato).
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Ma torniamo all’inchiesta Angeli e Demoni: meno di trenta indagati (tra questi il sindaco del paese Andrea Carletti), 108 capi di imputazione, il sospetto che gli assistenti sociali abbiano falsificato le relazioni sugli abusi dei minori e che gli psicoterapeuti abbiano manipolato i loro ricordi. Il tutto, secondo le accuse, con l’obiettivo di speculare sugli affidi. Eppure l’équipe finita nel mirino della procura è la stessa che ha salvato tante vite. Con sentenze, lette da L’Espresso, che lo certificano. Come quella del “caso zero”, l’inizio della nostra storia.
Il “caso 0”
Questa storia affonda le sue radici sette anni fa, nel 2013. Con la vicenda di una ragazzina (che chiameremo M.) costretta a prostituirsi a tredici anni. Venduta dalla madre con tanto di annuncio: «Nancy 18enne di bella presenza, offre dolce compagnia a ragazzi solo italiani/e dai 20 ai 35 anni». In poco tempo i clienti sono più di 50, tutti della provincia. A scoprire il mercato dell’orrore è un maresciallo, Andrea Berci, che ritornerà spesso nel nostro racconto.
Alle forze dell’ordine e ai magistrati M. racconta nei dettagli i rapporti sessuali avuti con uomini molto più grandi di lei. Clienti che l’hanno fatta franca, uno solo ha patteggiato. Figli e padri della buona borghesia, operai, commercianti, che si sono difesi sostenendo che la ragazza aveva detto loro di avere 18 anni. Gli incontri avvenivano nei parcheggi, negli anfratti della pianura padana, in casa o in negozi della produttiva bassa emiliana. L’allora tredicenne M., oltre alla sua vita da baby squillo, rivela episodi familiari allarmanti: la madre che le organizza il primo rapporto sessuale con il fidanzatino, figlio del compagno dell’epoca; la donna che invita la piccola a regalare al ragazzino quindicenne per il compleanno un rapporto orale; lei che si rifiuta, e la madre che la colpevolizza urlandole «sei una bambina!». Alla fine M. sarà costretta a imparare, la mamma le mostra una banana di vetro con cui esercitarsi.
Nel 2016 la madre viene condannata in primo grado a undici anni e la ragazza riesce così a iniziare una nuova vita, aiutata proprio dai servizi sociali di Bibbiano la cui attendibilità è confermata dalla procura di Bologna e dal tribunale di Reggio. Ma nonostante tutto, M. prova ancora un enorme affetto per quella madre che per soldi ha messo in vendita il suo corpo esile. Frammenti di un’esistenza ai margini. Dove alla fine le colpe ricadono sempre sui più deboli. Per questo vuole dimenticare. Lasciarsi alle spalle tutto. Invece, a un certo punto, quel passato viene riportato a galla dalla nuova inchiesta.
Nell’ottobre del 2019 infatti la pm Valentina Salvi, quella di Angeli e Demoni, convoca M. come persona informata sui fatti per capire come avevano lavorato, con lei, i servizi sociali di Bibbiano. La ragazzina conferma gli abusi subiti, ma si scaglia anche contro i servizi sociali. Li accusa di non averle mai dato i soldi del risarcimento stabiliti dalla sentenza a carico della madre. E in qualche modo M. prova a difendere proprio la madre: «Se prima ci avessero mandato in comunità insieme saremmo state mantenute entrambe e non sarei stata costretta a prostituirmi».
Intanto quegli stessi assistenti e terapeuti che tre anni prima erano considerati da procure e tribunali soggetti esperti, ritenuti credibili (dagli stessi pm e giudici che avevano svelato le trame della ’ndrangheta in Emilia), per la procura di Reggio diventano demoni, accusati di essere ladri di bambini.
Chi conosce dall’inizio tutti questi protagonisti è il maresciallo per moltissimi anni in servizio a Bibbiano, poi trasferito a Lucca. Ha seguito molti dei casi poi finiti al centro dell’inchiesta della procura. Ha indagato anche sui clienti di M., ha collaborato con i magistrati che hanno ottenuto la condanna della madre. Conosce, dunque, i retroscena di molte vicende centrali per comprendere il contesto degli abusi segnalati dalle scuole e dagli ospedali ai servizi sociali della Val d’Enza. Contattato da L’Espresso, non vuole parlare. Di certo sarà tra i testimoni chiave del processo sugli “Angeli e i Demoni”. Ma nell’intrigo del “caso 0” emergono sullo sfondo altre figure. Per esempio il paladino delle famiglie a cui sono stati tolti i figli, l’ex magistrato del tribunale dei minorenni, Francesco Morcavallo.
Morcavallo, infatti, è stato il giudice relatore nell’affido ai servizi di Bibbiano di un’altra minorenne vittima di presunti abusi sessuali, che chiameremo V.
Il 23 novembre del 2009 Morcavallo firma il provvedimento di affido di V. che viene mandata proprio a casa della madre di M., insomma della donna che qualche anno dopo sarà condannata per aver fatto prostituire la figlia. Nel provvedimento (letto da L’Espresso) nessuna obiezione da parte di Morcavallo. Nessuna presa di posizione. Anzi, la convinzione che quella famiglia - la madre di M. - avrebbe accolto la ragazza offrendole un contesto sereno.
Morcavallo oggi non ricorda più nulla di V, che ormai è grande. Sentito dal pm Valentina Salvi, alla domanda se avesse mai trattato casi provenienti dalla val d’Enza, Morcavallo risponde di sì, ma precisa che in nessun caso «si trattava di abusi sessuali, altrimenti me ne sarei ricordato». Omette quindi di parlare di quell’affido che reca la sua firma.
Perché non lo riferisce? E perché la procura non insiste su questo punto? Di certo è considerato un testimone attendibile da chi indaga. Tanto che i carabinieri dell’indagine sui servizi della val d’Enza proprio nei primi documenti che giustificano l’apertura di un’inchiesta, riportano un’intervista a «un ex giudice del tribunale di Bologna», senza fare il nome.
È quella in cui denuncia il business degli affidi, l’indizio di un sistema generalizzato. Questa del business è la tesi che Morcavallo sostiene da tempo, almeno da quando ha lasciato la magistratura: ora siede nello studio legale del padre Ulpiano, consigliere della corte di Cassazione fino al 2012. Core business dello studio, il diritto di famiglia. Morcavallo, quando indossava la toga, era finito nel mirino del Consiglio superiore della magistratura più volte. L’ultima vicenda si è chiusa con l’archiviazione perché Morcavallo si è dimesso prima.
Il Csm, però, è chiamato a esprimersi lo stesso sulla prima valutazione di professionalità che ogni magistrato deve affrontare dopo i primi quattro anni di attività. Il verdetto è netto: «Giudizio di professionalità negativo». Il motivo? «Prevaricatore e offensivo nei confronti dei colleghi e dei professionisti che interloquiscono con il Tribunale (...) le tensioni generate da Morcavallo hanno avuto indubbie ricadute negative sulla funzionalità dell’ufficio giudiziario e quindi sul prestigio dell’intero ordine giudiziario».
Paladini e ricatti
Al fianco di Morcavallo nella battaglia per dimostrare il business degli affidi c’è anche un altro avvocato, Francesco Miraglia. Insieme hanno partecipato spesso a eventi politici organizzati dalla destra. E sono stati ospiti nei salotti tivù, nei telegiornali di prima serata, relatori nei convegni con i parlamentari di Fratelli d’Italia, della Lega e con esponenti di un’associazione legata a Scientology. Anche Miraglia segue l’indagine su Bibbiano da vicino: esperto di diritto del lavoro e della famiglia, dal foro di Modena si è trasferito a Roma e collabora nello studio dei Morcavallo. Anche lui ha qualche problema alle spalle.
A Modena è infatti inciampato in una storia di ricatti: il 21 maggio 2013 il tribunale lo condanna in primo grado per tentata estorsione ai danni di una sindacalista, ricattata con foto osé. Secondo i giudici, la vittima ha subito un grave danno «morale consistente in prolungati e intensi stati di ansia, angoscia e patimenti». In secondo grado, in soccorso di Miraglia arriva la prescrizione. La Corte d’Appello di Bologna, però, non rinuncia a stigmatizzare la condotta del legale, tanto da confermare gli effetti civili della sentenza di primo grado. Anche la Cassazione respinge in toto il suo ricorso condannandolo al pagamento delle spese.
«La mia vita è stata distrutta», è l’unica dichiarazione rilasciata dalla vittima di Miraglia all’Espresso, con la garanzia che non avremmo reso nota l’identità. Miraglia però continua il suo lavoro al fianco delle famiglie dei “bambini strappati”. Invoca una riforma della giustizia minorile, proprio come il suo socio Morcavallo. Entrambi, come emerge dai convegni a cui hanno partecipato, sono accesi sostenitori delle famiglie tradizionali. Come se in quelle non potessero apparire anche gli orchi.
Il paradosso in aula
«Lo zio mi segue in bagno...». Una tranquilla giornata in una prima media della bassa reggiana, nel 2013. E ancora un muro di silenzio che si frantuma. Un’altra ragazzina, che chiameremo Z., confida alla prof l’orrore: lo zio materno la violenta da tempo. Ha iniziato a molestarla quando lei non aveva nemmeno dieci anni. La segnalazione ai servizi sociali è immediata, la piccola Z. viene allontanata dalla famiglia e poi data in affido. A prendere in mano la situazione sono le stesse psicoterapeute oggi al centro dell’inchiesta, con la stessa responsabile dei servizi sociali. E in Procura se ne occupa proprio il pubblico ministero Valentina Salvi. È lei a chiedere di far partire le indagini.
Richiede la carcerazione per l’uomo e l’incidente probatorio, ma il procedimento si ferma perché lo zio è incapace di intendere e volere: non è quindi imputabile di alcun reato. Ma la pm non si dà per vinta: il processo va avanti per la madre di Z, accusata di essere stata complice del fratello violentatore. Non ha infatti impedito le violenze pur sapendo, tanto da avere slegato più volte la bambina dalle corde con cui lo zio la costringeva. Non ha mai denunciato il fratello.
Questo processo è ancora fermo al primo grado, e Z. - ormai maggiorenne - continua a raccontare le brutalità che ha subito.
Il suo difensore è l’avvocato Marco Scarpati e in quell’aula, Procura e “demoni”, si trovano dalla stessa parte. Pronti a battersi per farle avere giustizia. L’avvocato Scarpati è figlio di questa terra. Esperto di diritto minorile a livello internazionale, professore universitario, formatore di poliziotti, assistenti sociali. Il Consiglio d’Europa e il ministero degli Esteri lo hanno ingaggiato per stilare le regole sull’infanzia. E poi il comitato scientifico di Telefono Azzurro, le collaborazioni con Unicef. Insomma, un riferimento in materia di diritti dei bambini. Radicale, cresciuto all’ombra di Adele Faccio, nell’inchiesta Angeli e Demoni è stato accusato di concorso esterno in abuso d’ufficio. L’avviso di garanzia consegnato alle 7 del mattino a sirene spiegate. «Questa storia me la porterò sulle spalle per l’intera vita», sospira. Dopo un’operazione chirurgica, ha una fascia che va dall’attaccatura dei capelli alla gola. Il volto è segnato, in un’estate ha perso 15 chili. «La mia vita è stata stravolta e anche quella della mia famiglia. Minacce di morte contro di me, i miei figli...». Le conserva tutte nascoste sotto a una pila di libri, in una c’è scritto: «Faremo ai tuoi figli quello che tu hai fatto a quelli degli altri». Alla fine, lo scorso ottobre, Scarpati è stato prosciolto su richiesta della stessa procura. L’archiviazione ha questa motivazione: la notizia di reato si è rivelata infondata. «Sono sicuro di essermi comportato bene, ma mi hanno tolto la dignità. Il clamore mediatico alimentato da interessi politici ha fatto finire nel tritacarne soprattutto i bambini. Ai giornalisti sono arrivate migliaia di pagine con tutti i loro nomi. Vite abusate, piene di traumi e gettate in piazza. Io mi occupo di diritto minorile e i documenti dei casi che ho seguito hanno le iniziali e sono chiusi a chiave».
Scarpati è entrato in contatto con i servizi sociali della Val d’Enza alcuni anni fa. Si è occupato tra i tanti processi anche del “caso 0” di Bibbiano, la ragazzina M. È stato lui a seguirla una volta libera dal ricatto della madre che la faceva prostituire. «Il servizio della Val d’Enza era agli inizi e mi hanno chiesto: “Hai formato gli educatori in mezzo mondo, non vuoi farlo nella tua terra?”. Alla mia età ho pensato che fosse giusto. Quello che mi hanno imputato sono stati 70 mila euro lordi di compensi professionali in cinque anni, compresi i soldi dei consulenti tecnici che nominavo per sostenere le cause in tribunale. Non mi sono mai impegnato in queste attività per denaro: guadagno di più facendo l’avvocato», dice.
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Scarpati non esclude che a Bibbiano ci possano essere stati errori da parte di uno o più operatori, «ma non posso credere che l’abbiano fatto con dolo». Ricorda le chiamate oltre l’orario di lavoro, la domenica, «perché stavano facendo una cosa in cui credevano: aiutare i bambini in difficoltà». Non riesce a trattenere la rabbia: «Il cosiddetto “metodo Bibbiano”, quello alla base della campagna di fango, riguarda otto casi sulle centinaia che in questi anni i servizi sociali della sola Val d’Enza hanno affrancato. E di questi otto casi nessuno è partito dai servizi sociali: sono tutti stati segnalati da parenti, scuole, pediatri, carabinieri. Per l’accusa, il complessivo danno erariale per abuso d’ufficio è di 200 mila euro. Eppure il messaggio che è passato è che a Bibbiano ci sono i ladri di bambini. E che sia così ovunque».
Il resto è storia. L’Emilia è diventata la regione da liberare non più dalle coop rosse (come diceva Silvio Berlusconi) ma dai demoni della bassa reggiana. Cresciuti nel grembo dell’immensa pianura, che gli avrebbe assicurato denaro e impunità. Una campagna elettorale violenta. Durante la quale le istituzioni sono state dileggiate. Come accaduto per il tribunale dei minorenni. Presidio di legalità. Che, per usare le parole di Roberto Aponte, presidente vicario della corte d’appello, «ha come unico scopo quello di salvaguardare i minori (...) non adagiandosi nell’idea che la famiglia naturale sia sempre e comunque il luogo più sicuro in cui crescere».
Il medioevo, per fortuna, è finito da un pezzo.