Un istituto allo stremo, dove ogni venti minuti arriva un malato grave di Covid. E all’uscita c’è una fila di carri funebri. Mentre la città, fuori, è un deserto di paura (Foto di Sergio Ramazzotti)

Bergamo, hospital John XXIII, Covid-19 patients in the ER, modified as a coronavirus patient ward
Bergamo i carri funebri aspettano fuori dal cancello. Una fila di bare che si appresta a rimanere sola. Arriva un piccolo corteo, sono una decina, hanno tutti le mascherine. Non vedi il dolore del volto, senti solo le urla strozzate. Il pianto della figlia che ha perso il padre. Le parole masticate del marito che ha sentito volare via l’amore. Salutarlo no, quello non è permesso.

Avrà trent’anni, appoggia una rosa bianca sopra la bara, poi il carro se ne va, entra dentro il cimitero. Rimane sola, nessuno può abbracciarla, confortarla. È proibito il contatto umano, anche di fronte alla perdita. E allora, dopo avere appoggiato il fiore, non resta che salire nuovamente in auto e guidare verso casa, chiudendosi la porta alle spalle, sapendo di non poterla riaprire neanche per una passeggiata all’aria aperta. Devi rimanere imprigionato nei ricordi, senza possibilità di evasione.

Le salme, qui a Bergamo, arrivano a decine ogni giorno. «Voglio dare loro dignità», mi dice l’assessore ai servizi funebri Giacomo Angeloni. Fuma in maniera disperata. «È la mia comunità, è la mia gente. Muoiono, muoiono in continuazione e io non so più dove mettere i corpi».
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Fuori dall’ospedale papa Giovanni XXIII i pazienti arrivano. Qui, ormai, è tutto Covid-19. Marco Rizzi, primario del reparto di malattie infettive, esce dalla corsia: «Sono tempi difficili, non è facile dare una risposta a tutti. Il sistema sanitario è sotto stress e non c’è più l’efficienza di prima». Rimane fermo, lucido, umano. «Tutto è cambiato, abbiamo riorganizzato l’intero ospedale, aumentando i posti di terapia intensiva, oltretutto la più grande d’Europa, ma i pazienti continuano ad arrivare con punte che toccano anche i settanta accessi al pronto soccorso in un giorno solo». Fanno tre all’ora, uno ogni venti minuti. E la corsa verso la salvezza spesso si blocca all’improvviso, con una crisi respiratoria.

Muoiono soli, senza una mano che li accompagni. In quattro settimane è già strage, più di seicento persone in provincia di Bergamo sono state uccise dal Covid, ma i numeri veri sono molto più alti, oltre mille, perché tanti se ne vanno in casa senza essere tamponati. L’esercito è appena arrivato, una carovana di blindati che ha preso in consegna 75 salme. Nessuno sa cosa deve fare esattamente. Siamo di fronte a un caos di eventi che è una costante emergenza. «Sai che sono morti 15 sacerdoti qui a Bergamo, si sono ammalati perché andavamo a dare conforto alle famiglie di chi ci ha lasciato». I funerali sono bloccati e così i preti si incamminano verso le case dove il Covid è entrato. Si infettano, finiscono in ospedale e lasciano questa terra. Non ce l’ha fatta neanche don Fausto Resmini, che a Bergamo chiamavano il “prete degli ultimi”.

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Coronavirus, la voce dell'Italia che lotta negli ospedali: «Siamo al limite ma non molliamo»
20/3/2020
Apri i giornali, li sfogli e ti rendi conto che si sono tramutati in un cimitero di inchiostro e carta. Le ambulanze, ormai, non accendono più neanche le sirene. Non lo fanno più da nessuna parte, in Lombardia, neanche a Milano, dove il contagio è contenuto, ma c’è e lo percepisci. Le vedi in autostrada, nelle vie delle città che stentano ad essere deserte. Le vedi ovunque, a flotte, ogni giorno. Provi a contarle per capire a che punto è l’epidemia, a metà mattinata ti sei già perso e allora è inutile continuare. Scendono con la tuta bianca, la barella. Salgano e poi scendono nuovamente con persone attaccate a un ventilatore. Ormai vengono a prendersi solo quelli gravi, quelli che devono per forza stare in un ospedale. I posti letto sono finiti e c’è chi preferisce morire a casa. «Non so se continuerò a fare il medico quando tutto sarà finito», mi dice una dottoressa dell’ospedale di Brescia alla fine del turno. Dodici ore di impotenza. «Solo ieri ho perso venti pazienti, in un giorno, non ho mai assistito a nulla del genere». Eppure un medico è abituato alla morte, al dolore, alla sofferenza fisica: «Ma nessuno», mi spiega, «poteva immaginare tutto questo. Nessuna persona può umanamente accettarlo». Sono loro, i medici, che comunicano il decesso. Provano a farlo di persone, ma a volte, sono così tanti che bisogna telefonare. Annientare la pietas per salvare altre vite.

Mentre parla arrivano i nuovi, quelli che entreranno nel suo reparto. Vengono consegnati dai familiari fuori dal pronto soccorso. Misurano la febbre, prendono i parametri, se sono compatibili con la malattia vanno verso destra. Passano dall’esterno, hanno la paura che gli sfigura il volto. Gli occhi sbarrati che guardano il cielo, poi per molto tempo non potranno più vederlo, forse non lo vedranno mai più. Forse quella potrebbe essere l’ultima volta. Vanno dentro il percorso soli, nessuno gli tiene la mano, poco distante vedi il figlio, la madre, il padre, la sorella o la nipote che tentano di capire. Chiedono al personale medico: «Dove va? Ma lo rivedremo? È grave?». Rispondono di aspettare e che «no, non lo vedrete fino a che non sarà guarito».

Alessandra è un’infermiera che sta nella terapia intensiva di Brescia, parliamo, anche un solo contatto umano esterno dall’ospedale per chi sta in trincea è un’evasione. «Qui c’era un ragazzo, un collega medico venuto da Cremona, un omone di 38 anni, lo abbiamo intubato, però sembra stare meglio». Anche loro si ammalano. Toccano i pazienti, usano tutte le precauzioni, ma questa è una strana bestia che ti succhia il sistema immunitario. Ti attacca nei momenti di distrazione. «Non vedo la mia famiglia da tre settimane», lo dice mentre si allontana ancora un po’. «Non possiamo far rischiare la vita ai nostri cari». Non toglie mai la mascherina, neanche all’aperto. Lo fa, dice, solo quando è sola, perché alla fine di questo virus abbiamo ancora capito poco. Seduta su una panchina c’è Stefania, ha tre grandi buste vicino a sé. Aveva smesso di fare l’infermiera: «volevo stare con i miei figli, con il marito camionista ho pensato che almeno un genitore dovesse stare con loro».

L’ospedale l’ha chiamata per «combattere questa guerra», la chiama così, anche se in guerra vedi almeno le macerie, hai un nemico. Qui il nemico non si sa che volto abbia. Rimane in silenzio, vede l’ambulanza passare e allora scoppia in lacrime come una giovane pronta a partire per il fronte: «Non sono vigliacca, io rimango, lo devo alla mia gente, ma ho paura di ammalarmi». Si ferma e lo ripete: «Ho paura di ammalarmi, ho paura di contagiare i miei figli». Una paura così grande che appena vede i pazienti del reparto Covid decide di dimettersi: «Non è umanamente possibile sopportare tutto questo». E come lei tanti altri.

Ma la paura la senti ovunque. La vedi nell’ossessione del disinfettante per mani. La percepisci durante la fila per entrare al supermercato. Tutti distanti più di un metro. Una distanza che diventa un vuoto oscuro, perché nessuno parla. Tieni stretta la busta tra le mani fasciate con i guanti. Se ti avvicini troppo a un altro essere umano, scatta l’istinto di sopravvivenza che ti porta a un balzo verso un’invisibile area protetta. La paura la vedi lungo i marciapiedi, c’è chi preferisce andare in mezzo alla strada pur di non passarti accanto, ma se per un momento ti scordi di stare lontano, qui a Milano te lo ricorda la polizia municipale. Passano con i megafoni: «Ehi lei, scenda da quella altalena, è un gioco per bambini, e poi i parchi sono chiusi». Continuano il giro del quartiere a passo d’uomo: «Voi siete troppo vicini, mantenete le distanze». Ti chiedi quanto le persone resisteranno ancora e scopri, in una delle tante telefonate, che in un piccolo comune della bergamasca in un solo fine settimana hanno firmato sei Tso.

Qui pesa la paura e la reclusione. Vai in stazione Centrale per vedere quanti ancora tentano la fuga. Nessuno passa. Un muro di militari e polizia, i treni che prima ti portavano al sud sono stati ormai quasi tutti cancellati nel silenzio generale. Si fa spazio l’isteria. «Chiami il mio medico, le dirà che devo andare a casa», urla con l’angoscia in gola e le braccia alzata. Il militare gli fa cenno di no, gli spieghi che da qui non può andare via e che deve rimanere a Milano. Scendono le lacrime, arriva la supplica: «La prego, chiami il mio medico, parli con lui, mi faccia partire». Rimane fermo di fronte al militare, poi chiama la madre e l’avverte. Si porta lo zaino in spalla ed esce dalla stazione deserta. Non c’è più nessuno, solo qualche barbone per terra. I taxi sono fermi, una lunga fila bianca a riposo dalla frenesia di trenta giorni fa, quando il mondo ancora si muoveva senza pensare.

Ogni mattina tre pasticche. Due per il sistema immunitario e una di Vitamina C. Forse non servono a nulla ma le butti giù con un bicchier d’acqua perché così hai l’impressione di controllare il tuo corpo. Lo fanno in tanti. Se in una guerra ci sono le bomba da evitare, in questo caso la bomba, senza saperlo, potresti esseri tu. Un promemoria che tutti conoscono, anche in Regione Lombardia.

Nel grattacielo milanese voluto da Roberto Formigoni sono rimasti in pochi, la domanda ricorrente è una: «Perché qui il Covid è così violento, perché?». Non hanno una risposta e allora si aggrappano con determinazione al bollettino finale. Analizzano i dati, li sciorinano e li spiegano.

In tempi di pace, frase usata per dividere il prima e l’adesso, si sarebbe scatenata una battaglia senza precedenti tra governo e regione, soprattutto la sera del 21 marzo, quando il presidente Attilio Fontana ha emanato l’ordinanza con la quale imponeva maggiori restrizioni. Sono rimasti in attesa della risposta del Governo. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte li avrebbe dovuto chiamare la sera, ma alle 22.30 è arrivata la telefonata da Palazzo Chigi: «Il presidente non vi chiamerà». Un’ora dopo, senza che nessuno sapesse nulla, è stato firmato un nuovo decreto della presidenza del Consiglio, il Dpcm, per loro e per l’Italia. Il disappunto in Regione è trapelato a microfoni spenti, perché «questo non è il tempo delle polemiche». Ma c’è chi ti confida: «A Roma non capiscono cosa stiamo vivendo, non capiscono cosa sta accadendo qui da noi, non capiscono quanto sarebbe stato meglio se ci avessero ascoltato sin dall’inizio, quando volevamo chiudere tutto». E ora che tutto è chiuso, ciò che rimane sono solo le ambulanze senza più voce, le strade vuote, gli ospedali pieni, la solitudine e un mostro che cammina di corpo in corpo. E non sappiamo ancora quando smetterà di camminare.