Stiamo vivendo i giorni del vuoto e del pieno: le strade sono deserte, ma le case dove si attende e gli ospedali dove si lotta sono carichi di umanità. Ma per una rinascita bisogna reagire già da adesso (Foto di Sergio Ramazzotti)

Bergamo, hospital John XXIII, Covid-19 patients in the ER, modified as a coronavirus patient ward
Il vuoto e il pieno. Sono le due condizioni del nostro spazio e del nostro tempo, delle nostre giornate, della nostra vita, in queste settimane. Il vuoto delle città, soprattutto nelle ore della notte, le piazze deserte, l’assenza dei rumori, il paesaggio visto dall’alto disabitato che vedete negli gli scatti di Daniele Zendroni. E il pieno delle case, con le famiglie dietro la porta, le convivenze accettate con pazienza, o in condizioni difficili, in distanziamento sociale, come si dice, da quella che un tempo era la quotidianità.

La prima pagina dell’Espresso è dedicata a questo incontro tra il vuoto e il pieno. Susanna Turco e Alessio Romenzi per parole e immagini rivelano cosa avviene sulla soglia di casa, come vivono gli italiani stipati in questo confine tra il dentro e il fuori, tra la sicurezza e l’incertezza. Quelli che sono in tanti e quelli che sono in solitudine, i bambini e i vecchi, i nuovi italiani. La porta di casa che diventa la frontiera invisibile da non varcare, da presidiare per ostacolare l’avanzata del Male. E anche il possibile passaggio, ancora troppo stretto, per uscire dall’incubo.

C’è un altro pieno che non vediamo, quello in cui ci trascinano in un cammino di dolore e di pietà il racconto di Elena Testi a Bergamo e le straordinarie foto di Sergio Ramazzotti dal reparto di terapia intensiva dell’ospedale papa Giovanni XXIII: è lo spazio occupato dai corpi, è il cielo che gli occhi sbarrati «forse vedranno per l’ultima volta», è il tempo che non c’è più. È il pieno della paura, dell’angoscia, di speranza, di umanità, racchiuso in quella stretta di mano che vedete in copertina. Per noi di fuori è un desiderio che non possiamo permetterci, per loro di dentro è l’estremo aggancio con la vita. Per tutti è una lotta da fare insieme.

Non ci salviamo se non abitiamo questi spazi, questo tempo, queste dimensioni. Nella nostra individuale quotidiana inquietudine, composta di scelte impreviste, la misura dell’avvicinarsi e dell’allontanarsi che nella coscienza è più lunga di un metro, e nella nostra vicenda collettiva.

Il vuoto e il pieno hanno sempre fatto parte della storia repubblicana. A lungo il panorama nazionale è stato affollato da partiti, leader, territori, sindacati, associazioni di categoria, intellettuali, giornali. E poi operai, imprenditori, banchieri, maestri e professori, studenti e contadini. Tutti insieme componevano come tessere di un mosaico faticoso e paziente quella tela in cui fu possibile immaginare e poi costruire e realizzare la ricostruzione post-bellica. Nello spazio di un paese di frontiera, in cui si muovevano i grandi attori internazionali della guerra fredda, con il loro seguito di apparati. Questo pieno fu scomposto e poi annullato verso la metà degli anni Settanta, nell’Italia aggredita dal terrorismo, dall’inflazione e da un processo di distacco tra i vertici e il paese reale, che intanto continuava a crescere, si sviluppava, si arricchiva, ma fuori da un discorso comune, da quella trama unitaria che invece era stata garantita dalla classe dirigente diffusa della fase precedente.

[[ge:rep-locali:espresso:285342651]]“Il vuoto di potere oggi in Italia”, così fu titolato dal Corriere della Sera diretto da Piero Ottone l’articolo di Pier Paolo Pasolini datato primo febbraio 1975: «In Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé». Un vuoto scomposto, confuso e pericoloso, perché colmato nei decenni successivi dalla corruzione, dalle mafie organizzate, dalle incrostazioni amministrative, dalle lobby, dalla disgregazione. Mentre il vuoto della politica diventava progressivamente anche il vuoto della rappresentanza, della produzione, della cultura.

Il pieno era l’atteggiarsi di ogni frammento, di ogni singola molecola del Paese come portatore di un interesse generale, un sentirsi parte di una vicenda comune, anche quando era in gioco semplicemente la feroce difesa di un particolare. Il vuoto, invece, è il contrario. È non avere più la percezione di un cammino di tutti anche quando per ruolo o per ambizione dovresti rappresentare la comunità. Il vuoto è quello cui stiamo assistendo in questi giorni di fiato sospeso, di respiro che viene a mancare.
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Il vuoto del Parlamento, con i costituzionalisti che litigano sull’aspetto secondario del come si vota, se a distanza per evitare il contagio, nei palazzetti dello sport per restare lontani, votare intruppati o a scaglioni, quando il problema è che nessuno in questo momento sembra sentire la mancanza delle Camere (l’analisi di Costanza Jesurum: cosa succede quando un Paese regredisce a figlio in cerca di padre?).

Il vuoto del dibattito politico, a meno che non si consideri tale il rumorio delle piccole manovre, il balletto del capo sovranista che si conferma guida della dis-unità nazionale, l’agitarsi dei leader narcisisti rimasti all’improvviso senza palcoscenico e senza pubblico per i loro giochi circensi. Il vuoto del dibattito culturale: seguo con un certo stupore gli interventi dei più gettonati scrittori italiani che si interrogano sul mondo a partire dalla finestra di casa, ci informano sullo stato delle file davanti ai supermercati, qualcuno è arrivato ad esaltarsi per la magnificenza del vuoto nelle città, dispersi nell’analisi di un evento che ne esalterà, si intuisce, la loro vanità ma non la capacità di lasciarsi interrogare dalle cose.

Il vuoto lasciato dalla classe imprenditoriale che un tempo si vantava di essere depositaria dello spirito generale, l’antico patto dei produttori, e oggi ha abbandonato la difesa del lavoro e dei lavoratori, che nel momento più drammatico si è buttata sulla lista della spesa, le categorie che non volevano restare escluse dalla lista delle attività aperte. Il vuoto spirituale, con i vescovi trasformati in solerti funzionari statali, senza quel di più di spirito che sarebbe richiesto a uomini di fede.

Incapaci, nel complesso, di esercitare una responsabilità in prima persona, su se stessi, ciascuno per la propria parte, governanti, politici di ogni colore, imprenditori, intellettuali, giornalisti, insomma quella che si usa chiamare la classe dirigente, da settimane sta mettendo in scena uno spettacolo inedito, un capovolgimento.

Per decenni i cittadini hanno circondato di discredito le élites, non fidandosi di loro. Oggi, invece, sono le élites che ripetono ossessivamente di non fidarsi dei cittadini. Prima era il popolo a sfiduciare le élites, oggi sono le élites che sfiduciano il popolo. La colpa del contagio è degli italiani: che si ostinano a non restare chiusi in casa, che continuano a frequentare i giardini ancora aperti e le strade per correre, che non sono responsabili.

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Dentro l'ospedale di Bergamo, la trincea del coronavirus
27/3/2020
A ripeterlo è lo stesso potere che in molti casi nel corso degli anni ha tagliato la sanità pubblica, ha ammesso i condoni edilizi e le tombe fiscali, ha lasciato che intere parti di territorio finessero nelle mani della crimanalità. La spontanea, direi festosa trasformazione dei sindaci del Sud in sceriffi che vigilano sull’osservanza delle regole richiama l’esistenza di un rapporto antico tra autorità e cittadinanza. Mentre il dibattito pubblico si avvita su multe, flussi, controlli, braccialetti, droni. E c’è la totale incapacità di affiancare - affiancare, non sostituire - nel discorso pubblico le sacrosante indicazioni dei medici sul distanziamento sociale con pensieri che sappiano andare oltre l’emergenza di questo momento. Che mondo troveremo? Come sarà riscritta la tavola dei nostri valori, se ora, e non dopo, rinunciamo a discutere? (Ne parla Gigi Riva con Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli).

In questo l’Italia non è più l’anomalia, anzi, è il modello per le nazioni europee come la Spagna martoriata e la Francia, e per l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Non c’è più l’eccezionalità italiana, il vuoto di potere oggi è una questione globale. Tra i leader del mondo fa eccezione papa Francesco, con il simbolo della preghiera nella piazza San Pietro deserta nel pomeriggio di venerdì 27 marzo. Simbolo potente e rovesciato: nel 2011 il regista Nanni Moretti riuscì a prevedere le dimissioni di papa Ratzinger di un anno dopo nel film “Habemus Papam”. Nella scena chiave, quando il cardinale Melville interpretato da Michel Piccoli rinuncia alla nomina («io sono tra coloro che devono essere guidati e non tra coloro che guidano»), il balcone del papa resta vuoto, con il vento che scuote il tendaggio pesante, mentra la piazza piena si dispera. Il vuoto e il pieno, ancora una volta. Ora la metafora si ripropone e si rovescia: il papa c’è, ma è solo nella piazza vuota. È una lezione di questo tempo: solo chi riesce anche in questo passaggio a esercitare la responsabilità della guida, del pensiero, della scrittura, della parola, dell’intelligenza degli avvenimenti, può sfidare il timore di affrontare una piazza deserta, muta, sepolcrale. E potrà trovare, perfino in quel deserto, la pietra fondante di una rinascita.

Rinascita è la parola usata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma nessuna rinascita è possibile senza affrontare quel vuoto. E senza ricucirlo con il pieno di questi giorni: il funzionamento delle istituzioni garantito nonostante tutto dalle presenze dello Stato sul territorio, dai volontari, dai medici e dagli infermieri che si battono in corsia contro la morte. Gli insegnanti, i volontari, i preti, la riserva di generosità e di gratuità che ha tenuto il paese in piedi in questi decenni.

Nessuna rinascita è possibile se l’Europa non riesce ad affrontare la sfida più difficile. Ce la farà?, si chiede il grande scrittore spagnolo Javier Cercas, mentre il coronavirus fa nel suo paese quello che non riuscì fare il protagonista del suo “Anatomia di un istante”, il colonnello Antonio Tejero, il braccio del golpe del 1981: chiudere il Parlamento, mettere in ginocchio la convivenza civile. Se lo chiedono anche tutti gli analisti internazionali. Le stime di Goldman Sachs prevedono per il 2020 un crollo del Pil europeo del nove per cento: Francia –7,4, Germania – 8,9, Spagna –9,7, l’Italia è una voragine, –11,6 per cento, con il debito pubblico destinato a schizzare a quote impensabili. È il motivo per cui gli stessi analisti prevedono che l’Italia sarà il paese ad avvantaggiarsi meno di tutti del rimbalzo del 2021, mentre già da ora è chiaro che nessuno farà sconti, che l’Europa ancora una volta andrà in ordine sparso, con le nazioni ricche come Germania e Olanda pronte a fare partita a sé.

La rinascita è la speranza di riempire il vuoto con un pieno. Un pieno di politica: quando sarà finito il tempo dell’emergenza e comincerà quello della ricostrizione, speriamo presto, sarà il momento di chiamare medici preparati nella terapia intensiva che attende l’economia nazionale. Non una generica unità nazionale, ma l’opposto.

Per questo, fin da ora, bisogna reagire a chi vuole fare di figure come Mario Draghi una bandiera indistinta, buono per tutti, senza identità e ideali. Perché dopo, quando verrà il tempo della ricostruzione, non sarà il tempo dei tecnici, ma dei servitori civili che abbiano un’idea dello Stato e della società, che sappiano curare e risanare le ferite di una nazione oggi preoccupata e civile, domani disperata e rabbiosa. Una classe dirigente, non un solo leader, che sappia parlare davanti a una piazza vuota. Che sappia abitare il paesaggio da ripopolare con la stessa dignità dimostrata dagli italiani in questi giorni. Che dimostri un frammento del coraggio e il senso di umanità che accomuna chi lotta per non morire e chi aiuta a vivere negli ospedali di Bergamo, Brescia, Piacenza, e nelle terre d’Italia. Quella stretta di mano è un patto che stipuliamo e che non dovremo tradire. Nelle nostre mani.