Non esiste alcun protocollo. E i dottori di base sono alle prese con migliaia di pazienti coi sintomi del virus. C'è chi prescrive solo Tachiprina, chi aggiunge clorochina, chi manda bombole dell'ossigeno, chi fa ecografie al torace, chi visita in video, chi usa maschere anti Sars di 18 anni fa

I pazienti chiamano da casa, tutti più o meno con gli stessi sintomi: febbre, tosse, difficoltà respiratoria, spossatezza, a volte congiuntivite, mancanza di gusto e di olfatto, diarrea. A questo punto il medico di famiglia capisce già con che cosa ha a che fare. E qui comincia il problema. Inutile pensare di fare il tampone: non lo si ottiene. Inutile anche basarsi su un protocollo: non esiste nulla di ufficiale, per i cosiddetti "sospetti Covid". 

Sicché ogni dottore di famiglia fa da sé.

Con una propria terapia empirica, basata su intuito, esperienza, convincimenti. Il che porta spesso a trattamenti diversi tra pazienti che presentano tutti gli stessi sintomi e, al 99 per cento delle probabilità, hanno lo stesso virus. Si chiama, in gergo medico, "scienza e coscienza".

È questa la situazione che si vive ogni giorno in Lombardia, oltre un mese dopo i primi casi a Codogno e con i numeri del contagio ancora in salita - numeri ufficiali che peraltro escludono, appunto, questa massa enorme di "Covid sospetti" che restano a casa loro, senza essere tamponati, curati dai medici di famiglia finché la situazione non diventa così grave da imporre il ricovero, quando si riesce a ottenerlo.

Come si diceva, ciascun dottore fa da sé.

Fin dal momento in cui arriva la telefonata: c'è chi va di persona dal malato (bardato come un palombaro) e chi ci parla solo al telefono, chi tenta una via di mezzo come la visita attraverso videochiamata WhatsApp, chi decide di volta in volta, a seconda della gravità della situazione per come l'ha capita al telefono. 

Anche i farmaci prescritti cambiano, con un solo elemento in comune, la Tachipirina (paracetamolo). A cui ogni dottore poi aggiunge altro - o non aggiunge nulla - a seconda della sua visione delle cose.

Ad esempio Fiorentino Cuppone Curto, 58 anni, è medico di famiglia a Borgo San Giovanni, provincia di Lodi, una delle aree più calde della pandemia, e ha tra i suoi pazienti una ventina di  "Covid sospetti" a casa loro. 

Quando riceve una di quelle telefonate, si veste come un palombaro e va a visitarli a casa: «Ho un casco e una tuta che la nostra Asl ci fornì 18 anni fa, in previsione della prima Sars che poi in Italia non arrivò. Mai usati, allora. Per fortuna li ho tenuti e li uso adesso per le visite domiciliari, perché questa volta non ci hanno dato niente». 

La cosa più importante nella visita, dice Cuppone Curto, è la misurazione dell'ossigeno nel sangue, la saturimetria, «che è una spia importante, più ancora della temperatura corporea». 

Una volta capito come stanno le cose, il dottor Cuppone Curto prescrive ai suoi "Covid sospetti" il paracetamolo e basta: «Al massimo posso aggiungere Azitromicina, nome commerciale Zitromax, un antibiotico che ha anche funzioni antiinfiammatorie. Ma medicine off-label no, non mi sento di darle (si chiamano off-label i farmaci impiegati per usi diversi da quelli indicati dalle Agenzie del Farmaco, ndr). Non prescrivo neppure la famosa idroclorochina, "l'antimalarico" di cui tanto si parla. Ufficialmente per noi medici di famiglia è ancora off-label, appunto. È stata autorizzata solo per uso ospedaliero: potrei averne anche conseguenze legali se le cose al paziente non andassero bene».

Diverso l'approccio diagnostico e terapeutico di un altro medico di famiglia lombardo, Franco Riili, 42 anni, studio in zona Loreto a Milano, che di "Covid-sospetti" ne ha quasi quaranta. 

Per prima cosa Riili suggerisce ai pazienti che lo chiamano di passare alla modalità video su WhatsApp, per una prima televisita e perché «così capisco meglio». 

Poi le cose cambiano a seconda se è un malato "fragile" (anziano, obeso o con altre patologie) oppure se è giovane e sano. 

Italiavirus
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Nel primo caso scatta la visita domiciliare, con relativa bardatura: «Tute usa e getta, visiere odontoiatriche, mascherine Fp3, guanti idonei. Ho acquistato tutto io su eBay e Amazon, l'Ats mi aveva passato solo mascherine chirurgiche e un gel per le mani, sarebbe stata una dotazione suicida per andare a casa dei pazienti Covid. Indosso tutto nel pianerottoli, suono il campanello, entro, passo al malato una mascherina chirurgica se già non ce l'ha, apro bene le finestre. Misuro la  febbre e la saturazione, ma soprattutto faccio un'ecografia del torace, con un macchinario portatile hi-tech che ho comprato sempre io e tengo nello zaino, ha una sonda che si attacca direttamente al mio cellulare. Così posso vedere se sono in corso polmoniti o se la pleura è infiammata con liquido a livello degli alveoli. Questo esame, associato ai sintomi, per me vale un tampone, se non di più, essendo l'esito del tampone sicuro solo al 75 per cento». 

A questo punto, una volta compreso che è in corso un attacco virale, Riili imposta  la terapia: «Certo, la base è la tachipirina, magari associata con un antibiotico per prevenire sovrainfezioni batteriche. Ma io aggiungo il Plaquenil, farmaco antiinfiammatorio di solito usato per artrite reumatoide (cioè l'idrossiclorochina, quella che viene chiamato sulla stampa "l'antimalarico", ndr). Se il malato è anziano, allettato, obeso o ha altre patologie, aggiungo anche anche un anticoagulante, il Clexane (nome commerciale dell'enoxaparina sodica). Sono iniezioni che si fanno sulla pancia e aiutano a evitare la Dic (coagulazione vasale disseminata) che spesso è la causa ultima dei decessi». 

Il dottor Riili poi mantiene quotidianamente i contatti con questi malati, preferibilmente in video, e di solito torna a fare un'altra visita di persona due o tre giorni dopo, per eseguire un'altra ecografia toracica e quindi verificare miglioramenti o peggioramenti.

La storia
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Anche Fabrizio Marrali, 58 anni, il medico di Rogoredo che ha già raccontato all'Espresso come da settimane visita i pazienti "normali" sul marciapiedi separato da un vetro e fa tutto al telefono, il protocollo se l'è fatto da solo, «confrontandomi con i colleghi soprattutto del lodigiano e del gruppo Facebook dei medici di famiglia, oltre che, naturalmente, considerando la letteratura scientifica». 

Spiega Marrali: «Non è facile fare un protocollo di cure domiciliari con una malattia sconosciuta e presente solo da un mese, allora si sperimenta in maniera empirica», con "scienza e coscienza" appunto. 

Attualmente Marrali ha dieci pazienti «altamente sospetti di Covid» che stanno a casa loro, «l'età varia dai 30 ai 91, i sintomi cambiano un po' a seconda dei giorno di malattia e del tipo di paziente». 

Durante un'epidemia, dice Marrali, «bisogna drizzare le antenne e fare ragionamenti clinici. Il paziente mi riferisce i sintomi, io chiedo con chi ha avuto contatti nei 7-10 giorni precedenti (i cosiddetti criteri anamnestici). Capisco che è "sospetto Covid" se la febbre dura giorni e la tosse secca non passa. È importante conoscere l’andamento nel tempo della febbre, più che la sua intensità». 

Marrali rifornisce i pazienti di saturimetro e li segue sette giorni su sette, monitorando temperatura e saturimetria. 

Quanto alla terapia, dice il dottore, «intanto va premesso che il medico, come il sarto, deve fare un vestito su misura, deve adattarsi al tipo di paziente, ognuno dei quali è unico come è unico il loro rapporto». 

Detto questo, oltre ai classici antipiretici e sintomatici, Marrali spiega di aver provato gradualmente «antibiotici, antimalarici ed enoxieparina (azitromicina, Plaquenil, Clexane). Il tutto, «con discreti benefici: diversi pazienti stanno meglio, tre sono quasi guariti». 

Il Plaquenil, cioè la idrossiclorochina, «non è sicuramente la cura risolutiva per tutti, ma era l’unico farmaco sul territorio. È difficile trovarla, non va presa in prevenzione, un recente decreto permette di prescriverla, poi il farmacista lo ordina e arriva. Io comunque da un mese fa avevo fatto scorta per i miei pazienti: con questo virus bisogna giocare d'anticipo, bisogna essere più rapidi di lui, questa è anche una guerra di velocità». 

In più, in alcuni casi questo medico di famiglia milanese ha trovato un infermiere coraggioso che, opportunamente protetto, va a domicilio a fare prelievi del sangue per valutare la situazione ematica durante la malattia.

Emanuele Berbenni, 58 anni, è medico di famiglia a Montello, nella bergamasca, altra area caldissima del virus. Lui ha addirittura 200 pazienti "Covid sospetti" su 1.550 assistiti, dai diciottenni agli ottuagenari. Alcuni sono già guariti, altri stanno guarendo, 12 sono morti. 

Per lui, quando i pazienti sono a casa e hanno sintomi significativi, «è fondamentale l'ossigenoterapia a domicilio, più il paracetamolo in caso di febbre, la Cefixima  per scongiurare una sovrainfezione batterica e anche l'idrossiclorochina, oltre all'enoxaparina (o Clexane, di cui si è già accennato, ndr) per le continue segnalazioni di complicanze trombotiche. In più prescrivo il lansoprazolo in caso di emorragie digestive e il Racecadotril in caso ci sia anche diarrea». 

Per i pazienti con pochi sintomi «se la saturazione dell'ossigeno è buona non faccio fare altre indagini, per evitare spostamenti o contatti dell'ammalato con altre persone».

Quelli con sintomi più gravi, con saturazione dell'ossigeno troppo bassa o che non rispondono alle terapie, «li mando al pronto soccorso per accertamenti strumentali: radiografia al torace o meglio - nel sospetto di polmonite interstiziale da Covid - una Tac al torace.

Se gli esami strumentali confermano un quadro Covid e le condizioni cliniche sono preoccupanti, chiedo il ricovero». Con successo? «All'inizio dell'emergenza si sono avute difficoltà, ora, per fortuna, la situazione sembra in miglioramento», risponde Perbenni.

Ma non sempre va così. 

Gli altri medici lombardi sentiti dall'Espresso dicono che le Ats, data la situazione di pressione, tendono spesso a rifiutare il ricovero o almeno a prendere tempo, a suggerire strade diverse come una chiamata alla Guardia Medica. 

Marrali dice di aver discusso più volte con i responsabili del 118, ma «alla fine, quando era indispensabile, il ricovero l'ho ottenuto sempre. I quattro "sospetti" che ho mandato in ospedale poi sono risultati tutti positivi al tampone». 

Altre volte invece gli esiti sono drammatici: «Io sono furibondo», dice Cuppone Curto parlando di un suo paziente di Pieve Fissiraga, vicino a Lodi: «Aveva 73 anni, era cardiopatico e diabetico. Non me l'hanno voluto ricoverare, non ce l'ho fatta in nessun modo perché dicevano che non aveva la saturimetria abbastanza bassa. Ma io lo vedevo che stava malissimo. È morto di Covid, è ovvio, prima dell'influenza faceva una vita normale. Non gli hanno fatto mai il tampone, non apparirà mai in nessuna statistica».