L'allarme. Gli infettati. I dispositivi che non arrivano. E la creatività per continuare ad aiutare i pazienti, in un quartiere popolare di Milano Sud. Sul marciapiede, senza che si contagino

Mi chiamo Fabrizio, ho 58 anni, faccio il medico di famiglia a Rogoredo da quando ne avevo 31, appena dopo la specializzazione. Nel quartiere mi conoscono tutti e mi chiamano “dutur”, da sempre.

Che poi Rogoredo è qualcosa di più di un quartiere. È un paese. Un paese che pur essendo attaccato alla linea sud città, è rimasto quasi isolato fino al 1990, quando è arrivata la linea gialla del metrò. Un paese che è stato di operai per più di un secolo, le acciaierie Redaelli, la Montecatini... Operai milanesi e venuti dal Mezzogiorno, che si sono mescolati tra loro nei decenni. Poi la gentrificazione del centro ha portato qui tante altre famiglie, quasi sempre proletarie: gente che prima abitava magari al Ticinese o in Porta Romana, di là del ponte di corso Lodi.

Insomma, Rogoredo è un quartiere popolare per eccellenza. Qui faceva il medico di famiglia anche mio padre e qui ho sempre deciso di restare a curare i miei vecchietti, le mie vedove, le coppie che hanno preso un appartamento in queste vie perché costano meno e adesso che c'è “la gialla” si arriva in Duomo in quarto d'ora. Molti miei pazienti li ho visti nascere, crescere, morire.

Tutte le mattina vado lì, nel mio studio di sempre, quello che era anche di papà e che dà sulla strada, proprio come se fosse un negozio.

Ma ora lo studio è diventato un bunker, per la salvezza di tutti; e i pazienti li devo visitare da dietro il vetro, passando le ricette dalla fessura sotto la porta.

È iniziato tutto a gennaio.

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Coronavirus, la voce dell'Italia che lotta negli ospedali: «Siamo al limite ma non molliamo»
20/3/2020
Doveva essere intorno al giorno 20 quando ho iniziato a sentire le notizie di questo virus che si stava diffondendo in Cina. Poi ho letto che poteva essere trasmesso anche da soggetti asintomatici e ho cominciato a preoccuparmi: è da quando ero studente che ho sentito i medici più grandi dire che prima o poi sarebbe arrivata una pandemia influenzale tipo la Spagnola, giusto un secolo fa.

Ma lì per lì non ho fatto ancora niente, se non sperare che non arrivasse in Italia. Lo studio era ancora fisicamente aperto, non volevo spaventare nessuno.

Il 31 gennaio ho letto dei primi due casi di Roma, i due turisti cinesi, ora guariti. Non si è saputo altro per quasi tre settimane, a parte il rimpatrio in sicurezza degli italiani che stavano in Cina. Tutto sembrava ancora lontano.

Il 20 febbraio, un giovedì, siamo però invitati a una prima riunione dell’ordine dei medici sul coronavirus con l'infettivologo Giorgio Galli del Sacco, convocata in un hotel. Siamo un centinaio, ci si parla, qualcuno non nasconde la preoccupazione.

Galli ci racconta tutto della malattia e della sua elevata contagiosità ma ci tranquillizza dicendo che per ora ci sono solo tre casi in Italia tutti di importazione, allo Spallanzani di Roma.

Ma proprio quel giorno, il 20, viene trovato positivo Mattia, il trentottenne di Codogno (ora guarito anche lui). Io lo vengo a sapere solo il giorno dopo, quando la notizia si diffonde sui media, proprio mentre sto visitando un paziente che mi tossisce addosso.

Codogno è a mezz'ora da Rogoredo, sulla direttiva che dalla via Emilia porta in città: molti pendolari che vengono da lì e prendono la metropolitana proprio a Rogoredo. Capisco che, presto, saremo coinvolti anche noi, qui. Wuhan era lontana, Codogno è a due passi.

Finisco l’ambulatorio, è venerdì, quindi inizio a pensare a come devo organizzarmi per riaprire il lunedì dopo. Nel week-end mando una mail urgente ad Ats Milano, l'agenzia per la tutela della salute, il mio interlocutore istituzionale del Sistema sanitario. Chiedo che mi mandino quelli che in gergo chiamiamo dpi, i dispositivi di protezione individuale: occhiali, camici, guanti idonei. Comunico all'Ats che se non arriveranno indicazioni da parte loro, da lunedì riceverò con la sala d’attesa chiusa. Non arriva nessuna risposta.

Lunedì 24 febbraio allora decido di riaprire lo studio in “modalità bunker”, com'è ancora adesso. Non si entra, non ci si mescola in sala d'aspetto: mi invento le visite dal vetro. Quando un paziente arriva, mi chiama con il cellulare, come ho indicato con un cartello sulla porta. Io vado al vetro e si inizia.

I pazienti sono stupiti ma comprensivi. Mi conoscono, sanno che forse sto improvvisando, ma che li sto tutelando. Quelli che proprio devo vedere di persona li faccio passare dal retro, uno a uno. I dispositivi di protezione che mi hanno mandato sono ridicoli, non idonei. Disinfetto tutto appena un paziente esce.

Spiego a tutti che se hanno raffreddore tosse e febbre non devono venire in studio ma contattarmi al telefono. Le esigenze non urgenti devono essere rimandate. E la richiesta di farmaci da parte dei pazienti avviene tramite una cassettina nera: il ritiro della medicina avviene dopo due ore direttamente in farmacia.

La voce di quello che sto facendo si diffonde e alcuni colleghi in zona mi chiamano un po’ perplessi: sto forse esagerando?

No, non sto esagerando. Anzi, quando non c'è nessuno mi occupo di sanificare con l'amuchina il gradino dove stanno i pazienti quando li visito da dietro il vetro.
 
Alla fine della settimana, venerdì 28 febbraio, faccio il conto delle segnalazioni di pazienti con febbre: sono aumentati, troppo. E io posso fare solo il telemedico.

Lo stesso giorno vengo a sapere che un mio collega di zona ha visitato in studio una paziente con polmonite: poco dopo è stata ricoverata ed è risultata positiva al Covid-19.

Allora inizio a martellare l'Ats perché ci diano finalmente dispositivi idonei e per far fare il tampone al collega. Dalla Ats arriva un niet: il tampone a voi medici lo faremo solo se avrete sintomi.

Inizio a pensare che noi dottori in prima linea a sud di Milano siamo carne da macello e mi convinco sempre di più della mia modalità bunker.
 
Il 9 marzo ho anch'io il primo paziente con Covid-19. È una giovane donna con tosse e febbre secca, aveva incontrato il padre (poi rivelatosi anche lui positivo) a Crema, sette giorni prima. Ma deve stare a casa e basta: ormai il criterio anamnestico è saltato e ricoverano solo se il paziente ha una saturazione dell'ossigeno bassa.

Inizio a pensare che cosa altro posso fare e mi viene un'idea: la saturimetria a domicilio. Mi dò da fare e trovo una decina di saturimetri da distribuire ai pazienti: sono perlopiù malati singoli a casa, ma ho anche una comunità che seguo da anni e ne mando qualcuno anche a loro. Quattro giorni dopo, in questa comunità, un mio paziente ha la febbre e la saturimetria bassissima, a 79. È il secondo che faccio ricoverare per Covid-19. Tutto al telefono.

Mentre scrivo queste righe siamo a venerdì 20 marzo. Un mese esatto da quando l' infettivologo Giorgio Galli ci ha parlato per la prima volta del virus. Sembra passata una vita. E la battaglia di Milano è appena cominciata. Sono già 5 i medici di famiglia morti in Lombardia. Ce ne saranno altri.

Mi manca il contatto diretto con i pazienti. Ma quelli critici mi aggiornano ogni giorno al telefono. Vado avanti. Lunedì mattina sarò di nuovo dietro il vetro.

Resistere, resistere, resistere.