Il virus coinvolge l’intero paese percorso da divisioni, rivendicazioni, chiusure. Ma anche da una risorsa preziosa: l'idea di stato-comunità

volontari-jpg
In un paesaggio politicamente modesto come quello italiano è arrivato un atto ministeriale, il Dpcm che sta per decreto del presidente del Consiglio dei ministri, a vietare i baci e gli abbracci, proibire agli anziani di uscire, sospendere le riunioni, i convegni, le lezioni scolastiche e universitarie, le manifestazioni, le celebrazioni religiose, il referendum e qualche altro diritto costituzionale. L’affettività e la socialità impedite con una circolare, uno scenario da incubo burocratico, è lo stato delle cose italiano dopo poco più di due settimane di Coronavirus. Una Quarantena Nazionale che ha scosso anche i più ottimisti sulla rapida scomparsa del Covid-19 e i più scettici e cinici sul reale pericolo che rappresenta l’influenza per l’organismo umano.

Per quindici giorni l’Italia ha oscillato tra la drammatizzazione scatenata dalla scoperta dei primi casi, il tentativo di rassicurare il mondo dopo aver misurato il danno economico dell’allarme, con gli effimeri spot sulle città che ripartono, fino a giungere alla cupezza di una chiusura senza più distinzioni che investe l’intero territorio della penisola. È una situazione paragonabile a una guerra, per il tempo prolungato della crisi che coinvolge direttamente tanti e indirettamente tutti gli italiani e per l’incertezza del futuro, e diventa futile dividersi sugli errori che forse ne hanno accentuato la portata. Ci sono le due conseguenze tipiche di ogni conflitto: l’accentramento delle decisioni e il controllo dell’informazione. Anche la macchina mediatica è sotto accusa, per quanto fa vedere, riporta, mette in circolo o nasconde. C’è il bollettino quotidiano della Protezione civile sui contagiati, guariti e caduti. E poi c’è il flusso delle notizie che si vorrebbe controllare, per non creare allarmismo, si dice, per non danneggiare le imprese, anche se è stata poi la successione di zone rosse e di zone gialle, di emergenza e di rassicurazione ad aver creato questo effetto, l’opposto di quanto si voleva.

Italiavirus
Coronavirus, gli studi che avevano previsto tutto: "L'Italia e il mondo non sono pronti"
6/3/2020
Il risultato provvisorio è che l’Italia sta vivendo un momento certamente straordinario, senza precedenti almeno in tempo di pace e in età repubblicana, ma non è lo stato di eccezione, di cui ha parlato qualcuno, il Coronavirus non è il grande pretesto per reprimere il dissenso e mettere a tacere i veri problemi del Paese. Se, come ha teorizzato Carl Schmitt, sovrano è chi ha il potere di decidere sullo stato di eccezione, bisogna ammettere che questo è uno stato di eccezione senza sovrano e senza decisioni, senza un governo abbastanza forte da avere l’ambizione di trasformare la necessità in un’occasione per rafforzare il proprio potere. Semmai, come accaduto altre volte in passato, il Coronavirus vale da metafora nazionale, come lo sono stati, nella storia repubblicana, i terremoti più disastrosi. A ogni Repubblica il suo terremoto. Furono il Belice (1968), il Friuli (1976) e l’Irpinia (1980) a segnare il lento franare di una classe politica. L’Aquila 2009 fu il terremoto della Seconda Repubblica, con la promessa della ricostruzione trasformata nello show personale di Silvio Berlusconi, fino al 25 aprile celebrato ad Onna, con il Cavaliere altissimo nei sondaggi a interpretare la maschera del partigiano, con il fazzoletto tricolore al collo. Il terremoto dell’Italia centrale, nella seconda parte del 2016, è stato lo specchio della classe dirigente di mezzo di questi ultimi anni, che ha assortito in modo liquido l’abilità comunicativa dell’immediato all’inconcludenza delle realizzazioni successive, un processo simile a quanto accaduto nei mesi dopo la tragedia del ponte Morandi di Genova. Il governo Conte uno era stato ribattezzato dai suoi protagonisti governo del cambiamento, il Conte due è il governo del contenimento: prima di Salvini, poi del Coronavirus. Quando il primo obiettivo sembrava quasi raggiunto, è arrivato il secondo, decisamente più tragico.

A differenza di un sisma o di un crollo, il virus non conosce scosse di assestamento e pause. Sembra non fermarsi mai. Svela prima di tutto quella condizione personale e collettiva con cui non vorresti mai fare i conti: la vulnerabilità. La possibilità di essere fermati e di cadere. La fragilità dei corpi e della Nazione. C’è la fragilità dei corpi dei singoli, che all’improvviso e tutti insieme si scoprono trasformati in possibile veicolo di contagio per le persone che ti stanno a contatto, come un familiare anziano o bambino, indifeso. Il corpo che tramuta il respiro in un’arma che può offendere chi si è avvicinato per un abbraccio, un bacio, un segno di pace, ma anche un’attività di lavoro comune: le riunioni che fanno male, anche agli uomini delle istituzioni, come assessori regionali, sindaci e perfino ministri. Il corpo che asfissia, che fatica a ritrovare il respiro, l’alito di vita. Rimosse dall’eterno presente della Rete e della scienza e dall’imperativo del bene-essere e del bene-stare, tornano a farci visita nella coscienza individuale e collettiva le vecchie conoscenze più profonde: la malattia, la vecchiaia, la morte.

C’è poi la fragilità collettiva, di un intero Paese. Qualcosa di più del vecchio e ormai datato contrastato processo di unificazione del territorio post-Risorgimento. La mancata unità nazionale appartiene a una storia molto più recente, il venir meno di un progetto comune che in Italia non è compensato da quel senso di appartenenza che scatta naturalmente di fronte a un’urgenza. Il Paese resta in gran parte percorso da divisioni, rivalità, sovrapposizione di ruoli, rivendicazioni corporative e settoriali di ogni tipo. Perfino il capo dei sovranisti Matteo Salvini ha alle spalle una tradizione non di patriottismo o di nazionalismo ma di separatismo, il tricolore che ora vuole santificare in passato voleva farlo a brandelli.

Neppure nelle ore più drammatiche ha smesso di protestare in nome di qualche micro-interesse, in genere il suo, quello di proseguire la campagna elettorale permanente con altri mezzi. Una situazione di questo genere spinge inevitabilmente a trasformare l’appello all’unione, giusto e necessario, in qualcosa di diverso: un’operazione politica, una manovra partitica, lo scenario di un governo di salute pubblica di cui si è parlato nei giorni scorsi.

Come se non fosse possibile essere uniti restando diversi. O compiere un’azzardata svolta parlamentare senza la giustificazione dell’emergenza. Difficile, in ogni caso, che l’azzardo passi. Con i numeri sussurrati ancora con riservatezza sulla recessione in arrivo in pochi vorranno assumersi il peso di stare in maggioranza a condividere il prezzo di scelte impopolari. Siamo dunque politicamente consegnati a un governo debole chiamato alle decisioni, quello di Conte, nonostante il premier si sia atteggiato nel suo videomessaggio a Grande Timoniere, e a una mancanza di alternativa perché anche in questo caso il principale partito di opposizione, la Lega di Salvini, non riesce a farsi carico davvero della responsabilità di tutti.

Nell’emergenza vengono anche giù due o tre idoli del recente passato. L’idea che il nemico venisse da fuori, cara al partito della chiusura e delle frontiere blindate. Il nemico nasce da dentro, per mezzo mondo è l’Italia ad averlo esportato, più della Cina. Il confine viene stabilito con un decreto ministeriale, è la misura della distanza che ciascuno deve rispettare. La teoria, andata di moda negli ultimi anni, secondo cui le competenze erano interscambiabili e in fondo sospette perché colluse con le élite e con l’establishment. Nella crisi le competenze tornano, a patto di considerare la scienza un metodo che consente approssimazioni, esperimenti, ipotesi che si escludono e non verità rivelate, come si fa con la religione. I sovranismi invocano ora più Europa per fronteggiare insieme l’incubo del contagio. Chi predicava la flat tax, che avrebbe tagliato in modo definitivo le risorse per sanità e ricerca, ora reclama più fondi statali per sanità pubblica, imprese, famiglie. Infine: abbiamo convissuto per decenni con un sistema istituzionale che ha inseguito un governo debole e regioni forti, ma anche l’opposto, in modo schizofrenico. Le lentezze, i ritardi, gli scavalcamenti reciproci sono figli di questa situazione.

C’è chi, nello stato di eccezione, si è azzardato a continuare a chiedere un capo all’altezza della situazione, uno in grado di prendere decisioni forti e immediate. In queste settimane c’è la nazione che è culla del presidenzialismo, la democrazia americana, che sta selezionando il candidato che sfiderà il presidente in carica. È la normalità, la fisiologia di un sistema ricco di contrappesi. La storia italiana parla di altro, anche in questa occasione: la forza del Paese è nel suo essere molecolare, è nel suo non avere un capo. Quella che frustra gli aspiranti uomini forti, la nota battuta sull’impossibilità di governare l’Italia se non la sua inutilità, si rivela la risorsa più preziosa. I medici e gli infermieri impiegati sul campo, sul fronte della sanità pubblica ignorata e tagliata, chiamata a una prova immane. La Protezione civile con i suoi volontari. I sindaci e gli amministratori locali che presidiano i territori delle zone rosse e in tutta Italia, sia pure privati dei loro poteri, che svolgono un’azione di prossimità e di vicinanza che è politica, la più politica. Spesso sono donne, in questo 8 marzo particolare. Tutto questo si chiama leadership diffusa. Un’idea di Stato-comunità diversa dalla richiesta dello Stato forte che ne è la negazione, che è l’appiattimento di tutti sulle decisioni prese al vertice da pochi. L’unica forza che il Paese può mettere in campo in queste ore di dramma e di speranza, nonostante tutto.